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giovedì 19 luglio 2012

In Ricordo di Paolo Borsellino.



Nacque a Palermo, il 19 gennaio del 1940, da genitori farmacisti. Dopo aver frequentato le scuole dell'obbligo, Paolo Borsellino, si iscrisse al Liceo Classico "Giovanni Meli". Durante gli anni del liceo, diventò Direttore del giornale studentesco "Agorà". Nel giugno del 1958 si diplomò e nel settembre dello stesso anno si iscrisse all’Università presso la Facoltà di Giurisprudenza a Palermo. Proveniente da una famiglia con simpatie politiche di destra, nel 1959 si iscrisse al Fuan, organizzazione universitaria del Movimento Sociale Italiano, di cui divenne membro dell’esecutivo Provinciale e fu eletto rappresentante studentesco nella lista del Fuan “Fanalino” di Palermo. Nel giugno del 1962, all'età di ventidue anni, Paolo Borsellino, si laureò con centodieci e lode. Nel 1963 partecipò al concorso per entrare in Magistratura. Classificatosi venticinquesimo sui centodieci posti disponibili, con il voto di cinquantasette, divenne il più giovane magistrato d'Italia. Iniziò quindi il tirocinio come uditore giudiziario e lo terminò nel settembre del 1965 quando venne assegnato al Tribunale di Enna nella Sezione Civile. Nel 1967 fu nominato Pretore a Mazara del Vallo. Nel 1969 fu Pretore a Monreale, dove lavorò insieme ad Emanuele Basile, Capitano dei Carabinieri. Proprio qui ebbe modo di conoscere per la prima volta la nascente mafia dei corleonesi. Il 21 marzo del 1975 fu trasferito a Palermo ed il 14 luglio entrò nell'ufficio istruzione Affari Penali sotto la guida di Rocco Chinnici. Con Chinnici si stabilì un rapporto di "adozione" non soltanto professionale. Nel febbraio del 1980 Paolo Borsellino fece arrestare i primi sei mafiosi. Grazie all'indagine condotta da Emanuele Basile e Paolo Borsellino sugli appalti truccati a Palermo a favore degli esponenti di Cosa Nostra si scoprì il fidanzamento tra Leoluca Bagarella e Vincenza Marchese sorella di Antonino Marchese, altro importante Boss. Il 4 maggio del 1980 Emanuele Basile fu assassinato e fu decisa l'assegnazione di una scorta alla famiglia di Paolo Borsellino. In quell'anno si costituì il “Pool” antimafia nel quale sotto la guida di Rocco Chinnici lavorarono alcuni Magistrati come Giovanni Falcone, lo stesso Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello, Leonardo Guarnotta e Giovanni Barrile ma anche funzionari della Polizia di Stato come Cassarà e Montana. Il pool nacque per risolvere il problema dei giudici istruttori che lavoravano individualmente, separatamente senza che uno scambio di informazioni fra quelli che si occupavano di materie contigue potesse consentire, nell'interazione, una maggiore efficacia con un'azione penale coordinata capace di fronteggiare il fenomeno mafioso nella sua globalità. Tutti i componenti del pool chiedevano espressamente l'intervento dello Stato, che non arrivò. Qualcosa faticosamente giunse nel 1982 quando il Ministro dell'Interno, Virginio Rognoni, inviò a Palermo il Generale dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, che proprio in Sicilia e contro la mafia aveva iniziato la sua carriera di ufficiale, nominandolo Prefetto. E quando anche questi trovò la morte, cento giorni dopo, nella strage di via Carini, il Parlamento italiano riuscì a varare la cosiddetta "Legge Rognoni - La Torre" con la quale si istituiva il reato di associazione mafiosa, l'articolo 416 bis del codice penale, che il pool avrebbe sfruttato per ampliare le investigazioni sul fronte bancario, all'inseguimento dei capitali riciclati. Il 29 luglio del 1983 fu ucciso Rocco Chinnici, con l'esplosione di un'autobomba, e pochi giorni dopo giunse a Palermo Antonino Caponnetto. Il pool chiese una mobilitazione generale contro la mafia. Nel 1984 fu arrestato Vito Ciancimino, mentre Tommaso Buscetta catturato a San Paolo del Brasile ed estradato in Italia, iniziò a collaborare con la giustizia. Tommaso Buscetta descrisse in modo dettagliato la struttura della mafia, di cui fino ad allora si sapeva ben poco. Nel 1985 furono uccisi da Cosa Nostra, a pochi giorni l'uno dall'altro, il commissario Giuseppe Montana ed il Vice - Questore Ninni Cassarà. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino furono per sicurezza trasferiti nella foresteria del carcere dell'Asinara, nella quale iniziarono a scrivere l'istruttoria per il cosiddetto "maxiprocesso", che mandò alla sbarra quattrocentosettantacinque imputati. Paolo Borsellino chiese ed ottenne nel dicembre del 1986 di essere nominato Procuratore della Repubblica di Marsala. La nomina superava il limite ordinariamente vigente del possesso di alcuni requisiti principalmente relativi all'anzianità di servizio. Nel 1987, mentre il maxiprocesso si avviava alla sua conclusione con l'accoglimento delle tesi investigative del Pool e l'irrogazione di diciannove ergastoli e duemilaseicentosessantacinque anni di pena, Antonino Caponnetto lasciò il Pool per motivi di salute e tutti si attendevano che al suo posto fosse nominato Giovanni Falcone, ma il Consiglio Superiore della Magistratura non la vide alla stessa maniera e il 19 gennaio del 1988 nominò Antonino Meli; sorse il timore che il Pool stesse per essere sciolto. Paolo Borsellino chiese il trasferimento alla Procura di Palermo e l'11 dicembre del 1991 vi ritornò come Procuratore Aggiunto, insieme al sostituto Antonio Ingroia. Il pomeriggio del 19 maggio 1992, nel corso scrutinio delle elezioni presidenziali, i quarantasette Parlamentari del Movimento Sociale Italiano votarono per Paolo Borsellino come Presidente della Repubblica. Il 23 maggio del 1992 nell'attentato di Capaci persero la vita Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta, Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo. Il 19 luglio, cinquantasette giorni dopo Capaci, Paolo Borsellino fu ucciso insieme agli agenti della scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Dopo aver pranzato a Villa Grazia con la moglie Agnese e i figli Manfredi e Lucia, Paolo Borsellino si recò insieme alla sua scorta in via D'Amelio, dove viveva sua madre. Una Fiat centoventisei parcheggiata nei pressi dell'abitazione della madre con circa cento chili di tritolo a bordo, esplose al passaggio del Giudice. L'unico sopravvissuto fu Antonino Vullo, ferito mentre parcheggiava uno dei veicoli della scorta. Una settimana dopo la strage, la giovanissima testimone di giustizia, Rita Atria, per la fiducia che riponeva nel Giudice Paolo Borsellino, decisa a collaborare con gli inquirenti pur al prezzo di recidere i rapporti con la madre, si uccise.

giovedì 24 maggio 2012

Per Repubblica Falcone era un guitto.


Giovanni Falcone
Il 9 gennaio 1992 Repubblica esce con un articolo firmato da Sandro Viola intitolato “Falcone, che peccato”. (L'articolo casualmente è sparito dall'archivio digitale di Repubblica). L'autore rimprovera al giudice Giovanni Falcone “l’eccessivo presenzialismo del magistrato” nelle trasmissioni televisive. Critiche ingrate e anche ingiuste. Pochi mesi dopo, il 23 maggio, esattamente 20 anni fa, Giovanni Falcone sarebbe stato ucciso per mano mafiosa.

Riportiamo integralmente l’editoriale di Sandro Viola.

D'un uomo come Giovanni Falcone, il magistrato che alla metà degli anni Ottanta, dal suo posto alla Procura di Palermo, inflisse alcuni duri colpi alla mafia, si vorrebbe dire tutto il bene possibile. O quanto meno, per evitare di trovarsi nella pessima compagnia di certi suoi detrattori, non si vorrebbe dirne male. E tuttavia, da qualche tempo sta diventando difficile guardare al giudice Falcone col rispetto che s'era guadagnato.

Egli è stato preso, infatti, da una febbre di presenzialismo. Sembra dominato da quell'impulso irrefrenabile a parlare, che oggi rappresenta il più indecente dei vizi nazionali. Quella smania di pronunciarsi, di sciorinare sentenze sulle pagine dei giornali o negli studi televisivi, che divora tanti personaggi della vita italiana – a cominciare, sfortunatamente per la Repubblica, dal Presidente della Repubblica – spingendoli a gareggiare con i comici del sabato sera, con il prof. Sgarbi, con i leaders di partito, con i conduttori di “talk-shows”, con gli allenatori di calcio, insomma con tutti coloro che ci affliggono quotidianamente, nei giornali e alla televisione, con le loro fumose, insopportabili logorree.

Ecco quindi il magistrato Falcone, oggi ad uno dei posti di vertice del ministero di Grazia e Giustizia, divenuto uno dei più loquaci e prolifici componenti del carrozzone pubblicistico italiano. Articoli, interviste, sortite radiofoniche, comparse televisive. E come se non bastasse, libri: è uscito da poco, infatti, un suo libro-intervista dal titolo accattivante, un titolo metà Sciascia e metà “seriale” televisivo, “Cose di cosa nostra”, che con il suo suono leggero, la sua graziosa allitterazione, a tutto fa pensare meno che ai cadaveri seminati dalla mafia. Concludendo: ecco il giudice Falcone entrato a far parte di quella scalcinata compagnia di giro degli autori di “instant boooks”, degli “opinionisti al minuto”, dei “noti esperti”, degli “ospiti in studio”, che sera dopo sera, a sera inoltrata – quasi un “memento mori” -, s'affacciano dagli schermi televisivi.

Né il giudice Falcone può invocare la sua esperienza del crimine, e del crimine mafioso in particolare, come giustificazione di tanti interventi. Certo, ci sono materie in cui la parola va data al “noto esperto”: la gastronomia, poniamo, il giardinaggio, il salvataggio dei monumenti. Nulla osta, infatti, acchè queste materie, vengano trattate in tutta libertà, col più esplicito dei linguaggi. Ma parlare di crimine quando si ricopre un'altissima carica nell'amministrazione della giustizia, è diverso.

Infatti, si pone il problema formale della compatibilità tra al funzione nell'apparato statale e l'attività pubblicistica. E poi c'è un elemento sostanziale. Trattare la materia mafiosa quando si è, allo stesso tempo, un magistrato coinvolto a fondo nella lotta alla mafia, impone un riserbo. Costringe, se non proprio all'evasività, a discorsi generici. Infatti, dal dr. Falcone lo spettatore televisivo, il lettore dei suoi articoli, ricaverà quasi sempre molto poco. Perché quello che il direttore degli Affari Penali sa, non può certo essere detto interamente; e quello che pensa – se appena l'argomento è un po' delicato -, va detto con estrema cautela.

Il risultato è che le esternazioni del dr. Falcone risultano quando mai nebulose. Così, qualcuno penserà che egli non sa niente di niente sulla criminalità organizzata, un altro crederà che lancia messaggi trasversali, un altro ancora riterrà che ciurla nel manico, un ultimo sospetterà che non sa esprimersi. E dunque che senso può avere pronunciarsi (come il giudice Falcone fa così di frequente), quando il decorso della funzione giudiziaria, gli obblighi di discrezione connessi alla carica, impediscono giustamente d'essere troppo espliciti? Non si potrebbe rispondere alle segreterie di redazione del Tg2 e del Tg3 che telefonano per organizzare una trasmissione, “Grazie, ma sono occupato”?

Beninteso, rimproverare al giudice Falcone di contribuire senza risparmio al “ronzio incessante di commenti estetici, di opinioni al minuto, di giudizi pontificali pre-imballati che invadono l'etere”, sarebbe più pertinente in un altro paese che non l'Italia. In Italia, si sa come stanno le cose. Il primo a violare giornalmente ogni obbligo di riserbo, di misura, di rispetto per la propri funzione, è il primo cittadino della Repubblica. E di fronte a tanto disprezzo delle regole da parte di chi, per primo, dovrebbe servire da esempio, illustrando le virtù della discrezione e della compostezza, prendersela col dr. Falcone può risultare ozioso.

“Ma è il passato del giudice Falcone, che induce alla critica. Non lo si tirerebbe in ballo se egli fosse uno dei tanti magistrati che si sono messi a far politica, ad ammorbare con la loro prosa indigeribile le pagine dell'”Unità”, ad esibire le loro parlantine in televisione. Ma la capacità con cui egli svolse i suoi incarichi alla Procura di Palermo, la stima che suscitò in tanti di noi costringono ad esprimere uno stupore, una riserva, sull'eccesso di verbosità con cui egli va conducendo questa seconda parte della sua carriera. Perché nessuno regola o consuetudine prevede che i magistrati tengano una “rubrica fissa” sul crimine. Perché nessun paese civile ha mai lasciato che si confondessero la magistratura e l'attività pubblicistica. E dunque non si capisce come mai il dr. Falcone, se proprio tiene tanto al suo nuovo ruolo di “esperto in criminalità mafiosa”, non ne faccia la sua professione definitiva, abbandonando (questo sì, questo sarebbe inevitabile) la magistratura.

Qualcuno mi dice che le continue sortite del giudice palermitano avrebbero un loro scopo, peraltro apprezzabile: quello d'illustrare, propagandare, i due organismi varati recentemente per combattere meglio la mafia, la cosiddetta Superprocura e la Dia. Personalmente, considero la Superprocura e la Dia due misure sensate (che mi auguro risultino efficaci) mentre mi sfuggono le ragioni di chi invece le avversa. Ma quanto al propagandarle, il direttore degli Affari penali avrebbe altro modo che non il presenzialismo di cui s'è detto. Due interviste all'anno – chiare, circostanziate – sarebbero infatti più che sufficienti.

Quel che temo, tuttavia, è che a questo punto il giudice Falcone non potrebbe più placarsi con un paio d'interviste all'anno. La logica e le trappole dell'informazione di massa, le sirene della notorietà televisiva tendono a trasformare in ansiosi esibizionismi anche uomini che erano, all'origine, del tutto equilibrati. L'apparire, il pronunciarsi ingenerano ad un certo momento come una “dipendenza”, il timore lancinante che il non esibirsi sia lo stesso che il non esistere. E scorrendo il libro-intervista di Falcone, “Cose di cosa nostra”, s'avverte (anche per il concorso d'una intervistatrice adorante) proprio questo: l'eruzione d'una vanità, d'una spinta a descriversi, a celebrarsi, come se ne colgono nelle interviste del ministero De Michelis o dei guitti televisivi.

E, si capisce, la fatuità fa declinare la capacità d'autocritica. Solo così si spiegano le melensaggini di “Cose di cosa nostra”. Frasi come: “Questa è la Sicilia, l'isola del potere della patologia del potere”; oppure: “Al tribunale di Palermo sono stato oggetto d'una serie di microsismi...”; oppure ancora: “Ho sempre saputo che per dare battaglia bisogna lavorare a più non posso e non m'erano necessarie particolari illuminazioni per capire che la mafia era una organizzazione criminale”. Dio, che linguaggio. A Falcone non saranno necessarie, ma a me servirebbero, invece, due o tre “particolari illuminazioni”: così da capire, o avvinarmi a capire, come mai un valoroso magistrato desideri essere un mediocre pubblicista.

di Sandro Viola - 9 gennario 1992

Tutto è rito, e l'antimafia è liturgia. Di Pietrangelo Buttafuoco.

mercoledì 23 maggio 2012

Gli uomini passano, le idee restano.



23 Maggio 1992 - 23 Maggio 2012

A 20 anni dal sacrificio di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Antono Montinaro, Vito Schifani e Rocco Di Cillo

Che il loro sorriso e la loro tenacia siano sempre da esempio per la nostra e tutte le nuove generazioni, Giovanni e Paolo non volevano diventare eroi, volevano solo fare il loro dovere per lasciare a noi e a tutti una Sicilia e un Italia migliore.
Il ricordo che deve restare indelebile nella nostra mente viene da queste parole:

Occorre compiere fino in fondo il proprio dovere, qualunque sia il sacrificio da sopportare, costi quel che costi, perché è in ciò che sta l'essenza della dignità umana.

"Gli uomini passano,le idee restano. Restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini". 
Giovanni Falcone.

martedì 15 maggio 2012

Con le leggi del Governo Berlusconi risultati impensabili nella lotta alle mafie.


Procuratore Antimafia Piero Grasso
Troppo spesso nel nostro Paese l’Antimafia è stata solo una tribuna per élite mediatico-giudiziarie in cerca di visibilità. Il Procuratore Antimafia Grasso ha avuto di recente il coraggio di schierarsi anche contro quella parte (una minoranza) della magistratura politicamente militante e di mettere in luce gli aspetti positivi di una recente regolamentazione. Nei primi 3 anni dell’attuale legislatura, si sono compiuti infatti passi in avanti impensabili sul piano della lotta alle varie mafie, non solo a “Cosa nostra”. Il sequestro di 40 miliardi di beni, la confisca di 3 miliardi di euro e l’arresto dei primi 40 latitanti sono traguardi che neppure si potevano immaginare senza le leggi del governo Berlusconi. Il merito principale va ovviamente alla magistratura e alle forze di polizia che, però, senza gli strumenti normativi ben poco avrebbero potuto. Deve essere anche sottolineato come quelle misure siano state lungamente invocate anche da Giovanni Falcone senza che nessun governo di centrosinistra le abbia adottate. Con le disposizioni emanate dal governo Berlusconi la “pericolosità” dei beni dei mafiosi perde il requisito dell’attualità, sicchè oggi è possibile procedere contro gli eredi dei mafiosi e nei confronti di cespiti di cui vi siano semplici indizi di appartenere ad associazioni mafiose ovvero che siano proventi di attività preparatorie degli stessi reati. Ma lo sviluppo più importante è stato delineato dal Codice Antimafia dell’ex-ministro Angelino Alfano. A pochi giorni dalla ricorrenza della strage di Capaci del 23 maggio e da quella del 19 luglio 1992, in cui persero la vita Paolo Borsellino e gli agenti di polizia della scorta, possiamo dire che il Procuratore Antimafia Grasso ha reso un grande servizio alla verità storica della lotta alla mafia.