Nella
seconda metà del secolo III si affermò nella Roma pagana il culto del sole, di
cui l’astro non era se non una manifestazione sensibile. In suo onore
l’imperatore Aureliano aveva istituito una festa al 25 dicembre, il Natalis
Solis Invicti, il Natale del Sole Invitto, durante il quale si celebrava il
nuovo sole “rinato” dopo il solstizio invernale. Molti cristiani erano attirati
da quelle cerimonie spettacolari; sicché la Chiesa romana, preoccupata per la
nuova religione che poteva ostacolare la diffusione del cristianesimo più delle
persecuzioni, pensò bene di celebrare nello stesso giorno il Natale di Cristo.
La festa, già documentata a Roma nei primi decenni del IV secolo, si estese a
poco a poco al resto della cristianità.
La
coincidenza con il solstizio d’inverno fece sì che molte usanze solstiziali,
non incompatibili con il cristianesimo, venissero recepite nella tradizione
popolare. D’altronde non si trattava di una sovrapposizione infondata, perché
fin dall’Antico Testamento Gesù era preannunciato dai profeti come Luce e Sole.
Malachia lo chiamava addirittura “Sole di giustizia”.
Per
questi motivi già nei primi secoli l’accostamento del sole al Cristo era
abituale, come testimonia Tertulliano: “Altri ritengono che il Dio cristiano
sia il sole perché è un fatto notorio che noi preghiamo orientati verso il sole
che sorge e nel giorno del sole ci diamo alla gioia, a dire il vero per un
motivo del tutto diverso dall’adorazione del sole”.
Collegata
a questo simbolismo di luce è l’usanza di adornare l’uscio di casa con piantine
come il pungitopo o l’agrifoglio dalle bacche rosse, mentre quella del vischio
è una tradizione celtica cristianizzata. La si considerava una pianta donata
dagli dei poiché non aveva radici e cresceva come parassita sul ramo di
un’altra. Si favoleggiava che spuntasse là dov’era caduta una folgore: simbolo
di una discesa della divinità, e dunque di immortalità e di rigenerazione. La
natura celeste del vischio, la sua nascita dal Cielo e il legame con i solstizi
non potevano non ispirare successivamente ai cristiani il simbolo di Cristo:
come la pianticella è ospite di un albero, così il Cristo, si dice, è ospite
dell’umanità, un albero che non fu generato nello stesso modo con cui si
generano gli uomini. Alla luce delle antiche feste solstiziali si seguivano
alcune usanze, come ad esempio quella di accendere fuochi e falò che hanno, si
dice, la funzione simbolica di “bruciare” le disgrazie e i peccati dell’anno
morente, di purificare, ma anche di ricevere dal sole, composto di fuoco, nuova
energia, fertilità e fecondità: sole che altro non è se non il simbolo di
Cristo, come si è già detto.
Ma
torniamo alla notte di Natale quando, una volta e ancora adesso in qualche
famiglia toscana o emiliana, si accendeva dopo la cena di magro un ceppo che
rappresenta simbolicamente l’Albero della Vita, il Cristo, dicendo: “Si
rallegri il ceppo, domani è il giorno del pane; ogni grazia di Dio entri in
questa casa, le donne facciano figlioli, le capre capretti, le pecore
agnelletti, abbondino il grano e la farina e si riempia la conca di vino” – “Il
giorno del pane”, lo chiamavano: per questo motivo si mangiavano, come oggi
d’altronde, dolci a base di farina che hanno nomi diversi secondo le regioni:
pangiallo, pane certosino, pandolce, panforte, pampepato e panettone. Perché
mai il pan dolce? L’usanza di consumare questo alimento nei periodi solstiziali
potrebbe risalire agli antichi Romani, perché Plinio il Vecchio riferisce che
alla festa del Natalis Solis Invicti si confezionavano le sacre e antiche
frittelle natalizie di farinata. Con l’avvento del cristianesimo si modificò
l’interpretazione riferendosi alle parole di Gesù: “lo sono il pane della vita;
chi viene a me non avrà più lame e chi crede in me non avrà più sete; io sono
il pane della vita”. Il Pane della Vita s’incarnò proprio a Betlemme, che
nell’ebraico Bet Lehem significava Casa del Pane, nome dovuto probabilmente al
fatto che proprio in quella cittadina era un immenso granaio, essendo circondata
da campi di frumento.
Quanto
al ceppo, non è il solo simbolo arboreo natalizio: lo è anche l’abete che fin
dall’epoca arcaica tu considerato un albero cosmico che si erge al centro
dell’universo e lo nutre. Fu facile ai cristiani del nord assumerlo come
simbolo del Cristo. Nei paesi latini l’usanza si diffuse molto tardi, a partire
dal 1840, quando la principessa Elena di Maclenburg, che aveva sposato il duca
di Orléans, figlio di Luigi Filippo, lo introdusse alle Tuileries suscitando la
sorpresa generale della corte. Persino i suoi addobbi sono stati interpretati
cristianamente: i lumini simboleggiano la Luce che Gesù dispensa all’umanità, i
frutti dorati insieme con i regalini e i dolciumi appesi ai suoi rami o
raccolti ai suoi piedi sono rispettivamente il simbolo della Vita spirituale e
dell’Amore che Egli ci offre.
Anche
l’usanza della tombola nel pomeriggio del Natale ha una derivazione pagana:
durante i Saturnali, che precedevano il solstizio e sui quali regnava Saturno,
il mitico dio dell’Età dell’Oro, si permetteva eccezionalmente il gioco
d’azzardo, proibito nel resto dell’anno: esso era in stretta connessione con la
funzione rinnovatrice di Saturno il quale distribuiva le sorti agli uomini per
il nuovo anno; sicché la fortuna del giocatore non era dovuta al caso, ma al
volere della divinità.
Nella
Roma antica, in occasione dell’inizio dell’anno si usava anche donare delle
strenae che arcaicamente erano rametti di una pianta propizia che si staccavano
da un boschetto sulla via Sacra, consacrato a una dea di origine sabina, Strenia,
apportatrice di fortuna e felicità. Poi a poco a poco si chiamarono strenae
anche doni di vario genere, come succede ancora oggi.
É
invece soltanto cristiana l’usanza del Presepe. Il primo, vivente, con il bue e
l’asino nella mangiatoia, risale al 1223 a Greccio, un paese vicino a Rieti: lo
ideò san Francesco d’Assisi ispirandosi a una tradizione liturgica sorta nel
secolo IX, quando in molti Paesi europei si formarono dall’ufficio quotidiano
delle ore i cosiddetti uffici drammatici a rievocare le principali scene
evangeliche con brevi dialoghi. Successivamente quei primi esperimenti si
ampliarono in strutture più vaste e complesse, sicché il tema della Natività
ispirò nel monastero di Benedikburen un vero e proprio dramma al cui centro campeggiava
quella del presepe.
Ispirandosi
a quelle sacre rappresentazioni Francesco volle rievocare la scena della
Natività con un bue e un asino in carne ed ossa. “L’uomo di Dio” scrisse san
Bonaventura da Bagnoregio “stava davanti alla mangiatoia, ricolmo di pietà,
cosparso di lacrime, traboccante di gioia”. Ancora oggi a Greccio si celebra il
presepe vivente da cui sono derivati quelli inanimati. La mangiatoia era vuota
ma il cavaliere Giovanni di Greccio, molto legato a Francesco, affermò di avere
veduto un bellissimo fanciullino addormentato che il beato Francesco,
stringendolo con entrambe le braccia, sembrava destare dal sonno.
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da Avvenire del 2 marzo 2003 (ripubblicato da Barbadillo.it)
a cura di Alfredo Cattabiani.