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lunedì 24 dicembre 2012

Simbologia. Significati e mistica delle cerimonie e delle usanze del Natale.


Le feste natalizie sono costellate di cerimonie ed usanze di cui non tutti conoscono il significato profondo, l’origine e l’evoluzione. Alcune di esse derivano da tradizioni pagane cristianizzate. Questa commistione di usanze di ispirazione evangelica con altre precristiane è dovuta alla collocazione calendariale del Natale che, diversamente dalla Pasqua, è errata storicamente. Nel vangelo di Luca si narra soltanto che nel periodo in cui nacque Gesù c’erano a Betlemme dei pastori che vegliavano di notte facendo la guardia al gregge. Siccome sappiamo che i pastori ebrei partivano per i pascoli all’inizio della primavera, in occasione della loro Pasqua, e tornavano in autunno, è evidente che il Cristo nacque tra la fine di marzo e il primo autunno; tant’è vero che fino alla fine del III secolo il Natale veniva festeggiato, secondo i luoghi, in date differenti: il 28 marzo, il 18 aprile o il 29 maggio.
Nella seconda metà del secolo III si affermò nella Roma pagana il culto del sole, di cui l’astro non era se non una manifestazione sensibile. In suo onore l’imperatore Aureliano aveva istituito una festa al 25 dicembre, il Natalis Solis Invicti, il Natale del Sole Invitto, durante il quale si celebrava il nuovo sole “rinato” dopo il solstizio invernale. Molti cristiani erano attirati da quelle cerimonie spettacolari; sicché la Chiesa romana, preoccupata per la nuova religione che poteva ostacolare la diffusione del cristianesimo più delle persecuzioni, pensò bene di celebrare nello stesso giorno il Natale di Cristo. La festa, già documentata a Roma nei primi decenni del IV secolo, si estese a poco a poco al resto della cristianità.
La coincidenza con il solstizio d’inverno fece sì che molte usanze solstiziali, non incompatibili con il cristianesimo, venissero recepite nella tradizione popolare. D’altronde non si trattava di una sovrapposizione infondata, perché fin dall’Antico Testamento Gesù era preannunciato dai profeti come Luce e Sole. Malachia lo chiamava addirittura “Sole di giustizia”.
Per questi motivi già nei primi secoli l’accostamento del sole al Cristo era abituale, come testimonia Tertulliano: “Altri ritengono che il Dio cristiano sia il sole perché è un fatto notorio che noi preghiamo orientati verso il sole che sorge e nel giorno del sole ci diamo alla gioia, a dire il vero per un motivo del tutto diverso dall’adorazione del sole”.
Collegata a questo simbolismo di luce è l’usanza di adornare l’uscio di casa con piantine come il pungitopo o l’agrifoglio dalle bacche rosse, mentre quella del vischio è una tradizione celtica cristianizzata. La si considerava una pianta donata dagli dei poiché non aveva radici e cresceva come parassita sul ramo di un’altra. Si favoleggiava che spuntasse là dov’era caduta una folgore: simbolo di una discesa della divinità, e dunque di immortalità e di rigenerazione. La natura celeste del vischio, la sua nascita dal Cielo e il legame con i solstizi non potevano non ispirare successivamente ai cristiani il simbolo di Cristo: come la pianticella è ospite di un albero, così il Cristo, si dice, è ospite dell’umanità, un albero che non fu generato nello stesso modo con cui si generano gli uomini. Alla luce delle antiche feste solstiziali si seguivano alcune usanze, come ad esempio quella di accendere fuochi e falò che hanno, si dice, la funzione simbolica di “bruciare” le disgrazie e i peccati dell’anno morente, di purificare, ma anche di ricevere dal sole, composto di fuoco, nuova energia, fertilità e fecondità: sole che altro non è se non il simbolo di Cristo, come si è già detto.
Ma torniamo alla notte di Natale quando, una volta e ancora adesso in qualche famiglia toscana o emiliana, si accendeva dopo la cena di magro un ceppo che rappresenta simbolicamente l’Albero della Vita, il Cristo, dicendo: “Si rallegri il ceppo, domani è il giorno del pane; ogni grazia di Dio entri in questa casa, le donne facciano figlioli, le capre capretti, le pecore agnelletti, abbondino il grano e la farina e si riempia la conca di vino” – “Il giorno del pane”, lo chiamavano: per questo motivo si mangiavano, come oggi d’altronde, dolci a base di farina che hanno nomi diversi secondo le regioni: pangiallo, pane certosino, pandolce, panforte, pampepato e panettone. Perché mai il pan dolce? L’usanza di consumare questo alimento nei periodi solstiziali potrebbe risalire agli antichi Romani, perché Plinio il Vecchio riferisce che alla festa del Natalis Solis Invicti si confezionavano le sacre e antiche frittelle natalizie di farinata. Con l’avvento del cristianesimo si modificò l’interpretazione riferendosi alle parole di Gesù: “lo sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più lame e chi crede in me non avrà più sete; io sono il pane della vita”. Il Pane della Vita s’incarnò proprio a Betlemme, che nell’ebraico Bet Lehem significava Casa del Pane, nome dovuto probabilmente al fatto che proprio in quella cittadina era un immenso granaio, essendo circondata da campi di frumento.
Quanto al ceppo, non è il solo simbolo arboreo natalizio: lo è anche l’abete che fin dall’epoca arcaica tu considerato un albero cosmico che si erge al centro dell’universo e lo nutre. Fu facile ai cristiani del nord assumerlo come simbolo del Cristo. Nei paesi latini l’usanza si diffuse molto tardi, a partire dal 1840, quando la principessa Elena di Maclenburg, che aveva sposato il duca di Orléans, figlio di Luigi Filippo, lo introdusse alle Tuileries suscitando la sorpresa generale della corte. Persino i suoi addobbi sono stati interpretati cristianamente: i lumini simboleggiano la Luce che Gesù dispensa all’umanità, i frutti dorati insieme con i regalini e i dolciumi appesi ai suoi rami o raccolti ai suoi piedi sono rispettivamente il simbolo della Vita spirituale e dell’Amore che Egli ci offre.
Anche l’usanza della tombola nel pomeriggio del Natale ha una derivazione pagana: durante i Saturnali, che precedevano il solstizio e sui quali regnava Saturno, il mitico dio dell’Età dell’Oro, si permetteva eccezionalmente il gioco d’azzardo, proibito nel resto dell’anno: esso era in stretta connessione con la funzione rinnovatrice di Saturno il quale distribuiva le sorti agli uomini per il nuovo anno; sicché la fortuna del giocatore non era dovuta al caso, ma al volere della divinità.
Nella Roma antica, in occasione dell’inizio dell’anno si usava anche donare delle strenae che arcaicamente erano rametti di una pianta propizia che si staccavano da un boschetto sulla via Sacra, consacrato a una dea di origine sabina, Strenia, apportatrice di fortuna e felicità. Poi a poco a poco si chiamarono strenae anche doni di vario genere, come succede ancora oggi.
É invece soltanto cristiana l’usanza del Presepe. Il primo, vivente, con il bue e l’asino nella mangiatoia, risale al 1223 a Greccio, un paese vicino a Rieti: lo ideò san Francesco d’Assisi ispirandosi a una tradizione liturgica sorta nel secolo IX, quando in molti Paesi europei si formarono dall’ufficio quotidiano delle ore i cosiddetti uffici drammatici a rievocare le principali scene evangeliche con brevi dialoghi. Successivamente quei primi esperimenti si ampliarono in strutture più vaste e complesse, sicché il tema della Natività ispirò nel monastero di Benedikburen un vero e proprio dramma al cui centro campeggiava quella del presepe.
Ispirandosi a quelle sacre rappresentazioni Francesco volle rievocare la scena della Natività con un bue e un asino in carne ed ossa. “L’uomo di Dio” scrisse san Bonaventura da Bagnoregio “stava davanti alla mangiatoia, ricolmo di pietà, cosparso di lacrime, traboccante di gioia”. Ancora oggi a Greccio si celebra il presepe vivente da cui sono derivati quelli inanimati. La mangiatoia era vuota ma il cavaliere Giovanni di Greccio, molto legato a Francesco, affermò di avere veduto un bellissimo fanciullino addormentato che il beato Francesco, stringendolo con entrambe le braccia, sembrava destare dal sonno.

* da Avvenire del 2 marzo 2003 (ripubblicato da Barbadillo.it)
a cura di Alfredo Cattabiani.

domenica 23 settembre 2012

Un tè alla menta a casa di Evola.



Pubblichiamo un articolo di Ugo Franzolin, scomparso due settimane fa,  tratto dal libro “Gli articoli di Evola sul Secolo d’Italia. 1953-1964”, edito dalla Fondazione Evola e curato da Gianfranco Lami.

di Ugo Franzolin
(articolo tratto dal "Secolo d'Italia")

Con il congresso di Pescara nel Movimento Sociale Italiano del giugno 1965 vi furono i cambiamenti al vertice. Vinse il congresso Arturo Michelini, uno dei fondatori di quel partito, nato alla fine del 1946. In precedenza Michelini aveva comprato il quotidiano fiancheggiantore del movimento, Il Secolo d’Italia, proprietà del senatore Franz Turchi, suo fondatore.
Ne era il direttore dal 1964, ma fu chiamato a dirigerlo politicamente Nino Tripodi, un altro dei primissimi del Movimento Sociale, un intellettuale che si era segnalato tra i giovani più promettenti negli anni che precedono la Seconda guerra mondiale, avvocato e – negli anni Cinquanta – parlamentare. Chi però confenzionava materialmente il giornale e aveva quindi stretto rapporto con la redazione, era Cesare Pozzo, giornalista professionista, qualche anno dopo, senatore.
Un giorno Michelini mi chiama. Ero stato assunto al Secolo nel momento in cui il "Meridiano d’Italia", dove lavoravo aveva sospeso le pubblicazioni per trasferirsi da Milano a Roma. Mi avevano affidato la terza pagina che curai fino al 1967 quando passai al quotidiano "La Luna". Una pagina tradizionale, in più, una o due volte la settimana, una pagina monografica, letteratura, pittura, musica e storia.
“Ho qui un articolo di Evola”, mi dice Michelini, “scriverà per noi”. “Acquisto eccellente“, gli dico io, “un pensatore affascinante”, butto lì. Guardo Michelini, che mi guarda di sottecchi. “Sì, certo”, commenta, “ma io leggo i gialli, quando vado a letto la sera, prima di dormire e ho la testa piena delle cose che domattina dovrò fare, come, ad esempio, mandare i soldi alle federazioni, soldi che non ho e devo rifilare qualche balla per tirare avanti”.
Di Julius Evola, a dire la verità, non è che ne sapessi molto. Anzi, diffidavo un po’, come tutti quelli per i quali il fascismo, come nel mio caso, è stato prima un fatto di provincia – le realizzazioni – poi un fatto di guerra, “il sangue contro l’oro”, un semplificare che farebbe trasalire un intellettuale.
Dopo quattro o cinque articoli pubblicati come elzeviro, Evola mi invitò a casa sua per un tè. Abitava a Corso Vittorio.
Molto cordiale. Aveva un grave disturbo alla spina dorsale. Stava sempre seduto in poltrona. Gli feci visita quattro o cinque volte. Non so se gli interessassi. Forse sì, ma perché non avevo quasi niente delle sue letture, perché la mia testa, dopo cinque anni di guerra sui fronti e un anno di galera a San Vittore, era piena di immagini più che di speculazioni sottili.
Il tè era squisito. Glielo dissi. “Aggiungo foglioline fresche di mentuccia”, commentò, “e qualche fiore essiccato di ibisco, addolcendolo, come vede, con zucchero di canna, un dono che amici mi mandano dalla Germania”.
Mentre si sorseggiava il tè, Evola parlava, parlava. Aveva una voce bassa, musicale, due occhi che indagavano. Mi sembrò di capire che avesse studi esoterici, un’altra novità per me, sempre tenutomi lontano da esplorazioni misteriose, più amante dell’uomo che fa, spacca tutto, magari, ma che non sta lì a interrogare l’arcano, o vola in spazi siderali.
Un giorno, mentre Evola mi parlava della Parigi delle avanguardie nella quale viveva, qualcuno citofonò. Una signora che si occupava delle cose domestiche, venne a dire che un ragazzo chiedeva di salutare. Disse il nome, Adriano.
Entrò un giovane, poco più che ragazzo. Aveva una sua composta eleganza, un tratto signorile. Alla presentazione seppi che era il figlio di Pino Romualdi, che mi onorava della sua amicizia, conosciuto a Milano, vicesegretario del Partito Fascista Repubbicano. Conversammo un po’, ma dopo una decina di minuti dovetti salutare e andarmene perché mi aspettava il solito lavoro al giornale.
Prima di congedarmi invitai Adriano a collaborare alla mia pagina. Volevo ospitare dei giovani, voci nuove. Così fu, infatti. Diventammo amici. Io do del tu volentieri ai ragazzi, mi è più facile parlargli, e se loro fanno altrettanto, la cosa mi fa piacere. Eppure con Adriano ci fu sempre di mezzo il lei, anche se il rapporto era cordiale, affettuoso da parte mia e, oso credere, anche da parte sua.
Era preparatissimo, riflessivo, sempre disposto a riesaminare un concetto, ma con dei punti fermi, che erano ormai miei. Gli chiesi di Evola. “Sa”, gli dissi introducendo il discorso, “mi sembra un mago”. Adriano si mise a ridere. “Un po’ lo è”, rispose, “nel senso che sa sublimare intuizioni rare, al limite della visione onirica, il percorso misterioso della vita”.
Ricordo con rimpianto quel tempo. Evola è morto, Adriano, ancora giovanissimo, ci ha lasciati in situazioni tragiche, sul ciglio di una strada, dopo un incidente. Perché rimpianto? Ma perché allora, anche se da posizioni intellettuali diverse, per un proprio carattere, una propria storia personale era bello vivere, essere in attesa di un evento. Utopisti? Forse, ma la nostra utopia non era la carta di credito, o il telefonino, o la curva sud. Eravamo in attesa, ecco, ripeto. In attesa? Sì, certo, che i sentimenti tornassero.
Un giorno Evola mi disse: “Sa, la strada è lunga, interminabile”...

lunedì 23 luglio 2012

Viaggio in Islanda, riflessioni sull'acqua e la democrazia.



di Andrea Degli Innocenti.

Gli islandesi e l'acqua. Da questo rapporto profondo Andrea Degl'Innocenti parte per raccontare le prime impressioni legate al suo viaggio in Islanda. Dal carattere ospitale degli abitantialla loro incredulità di fronte alle vicende dei referendum italiani. Questo, anche per anticipare il vero motivo del viaggio: un libro in cantiere sulle rivolte popolari del 2009, contro il governo ed il ricatto del debito.

"L'acqua rappresenta bene il carattere degli islandesi. Essi appaiono pacifici e aperti come un ruscello, ma sono capaci di lottare per i propri diritti e trasformarsi di colpo in cascata"

“Come è possibile che sia successo questo, che qualcuno si sia appropriato dell'acqua?” mi chiedevano stupiti i commensali. “Questo qui in Islanda non potrebbe mai succedere. Sarebbe lo stesso che privatizzare l'aria!”

“Anche in Italia, cinquant'anni fa, se tu avessi detto a mio nonno che in futuro l'acqua sarebbe appartenuta a privati ti avrebbe probabilmente riso in faccia e mandato bonariamente a quel paese”, provavo a rispondere.

Mi trovavo a Reykjavik, capitale islandese, a casa della figlia di Salvor, un'attivista di Attac Iceland che ci ha ospitato – me e Marco, mio compagno di viaggio – per tutta la durata della nostra permanenza. Mentre aspettavamo di cenare conversavamo sulla situazione del paese. Mi è capitato di fare riferimento all'Italia, in particolare al movimento per la ripubblicizzazione dell'acqua.

La cosa ha da subito rapito la loro attenzione. Ciò che li stupiva – anzi, di cui a dire il vero proprio non si capacitavano – non era tanto che i governi e le amministrazioni locali stessero violando ogni regola democratica e proseguissero imperterriti con le privatizzazioni anche dopo i referendum – alla cattiva politica erano abituati anche in Islanda -; era piuttosto il fatto che gli italiani, sì proprio il popolo italiano, e con loro buona parte degli europei come gli avrei spiegato a breve, avessero permesso a dei privati di accaparrarsi la gestione dell'acqua.

L'acqua in Islanda è qualcosa di intimamente legato all'animo di ognuno.Sgorga dal suolo bollente e solforosa oppure ghiaccia come l'oceano artico. Schizza in aria lanciata dalla enorme pressione dei geysir o si fionda giù con violenza per dirupi di sessanta e passa metri nelle immense cascate di Gullfoss o Dettifoss.

Si può bere, ovunque nell'isola, direttamente dai ruscelli che scivolano sui pendii non appena un po' di calore estivo inizia a sciogliere gli enormi ghiacciai perenni. Nessuno compra acqua in bottiglia. A dire il vero l'acqua in bottiglia praticamente non esiste, con qualche eccezione per quella con le bollicine. D'altronde hanno “la migliore acqua del mondo”, come affermano orgogliosi.

Ho sempre avuto l'idea che sarei dovuto partire proprio dall'acqua nel descrivere il mio viaggio in Islanda. Eppure esso ha avuto molto più a che fare con le vicende legate al debito ed alla cosiddetta “rivoluzione delle pentole” del 2009, alle deliranti politiche neoliberiste che hanno portato all'esplosione di una bolla di credito, alla tragica crisi economica ed alla reazione del popolo islandese. Su questi argomenti ho in cantiere un libro che uscirà in autunno. A questo è servito il viaggio; attorno a questi argomentiruotavano le interviste e le ricerche.

Ma l'acqua, a me pare, ha un legame intrinseco con l'intera vicenda, così come con il carattere degli islandesi. Essi appaiono pacifici e aperti, disponibili e amichevoli, come le acque ciottolanti di un ruscello. La storia dimostra che sono però anche capaci di lottare per i propri diritti quando serve, e di trasformarsi di colpo in cascata.

L'acqua è l'elemento che più caratterizza l'isola. Più della terra brulla che ricopre le vaste zone semidesertiche lungo la dorsale oceanica; più dell'aria tersa, illuminata da un sole che già sul finire di maggio se ne va solo per un paio d'ore al giorno, lasciando comunque un chiarore costante; persino del fuoco, che pure zampilla dai vulcani sotto forma di lava e lapilli.

Essa rappresenta il legame che gli islandesi hanno con la propria terra, con la natura straripante. Un legame di forte dipendenza, quasi di serena sottomissione. In altre occasioni mi è capitato di parlare dell'acqua e dei referendum italiani con gli isolani. Ad esempio con Andrea Jóhanna Ólafsdóttir, candidata alle elezioni presidenziali da poco svoltesi; vinte, per la quinta volta consecutiva, da Ólafur Ragnar Grímsson. Ogni volta la reazione era la stessa. “Qui in Islanda non sarebbe mai potuto succedere, l'acqua è troppo importante per noi”.

Il libro che sto scrivendo non parlerà dell'acqua, se non in maniera marginale. Ma mi pareva giusto rendere omaggio al carattere degli islandesi, quasi a ringraziamento per l'ospitalità e l'accoglienza, con un inno (senza pretese) all'elemento che più li caratterizza. Oscar Olivera, leader della guerra del aguadi Cochabamba, in Bolivia, contro le privatizzazioni imposte dalle multinazionali affermava: “dobbiamo essere come l'acqua: trasparenti e in movimento”. Gli islandesi, la cui cultura ha inaspettatamente molto a che vedere con quella dell'America Latina (il romanziere Einar Már Gudmundsson me lo ha confermato) lo hanno preso in parola.

domenica 22 luglio 2012

All’attacco dei rossi nel nome di Dio e del Re cattolicissimo.




Può sembrare strano, a noi contemporanei, immaginare un soldato del XX secolo andare all’assalto alla baionetta recitando il rosario e invocando la Vergine. Più strano ancora se a farlo sono interi battaglioni di volontari, arruolatisi in un’armata esplicitamente e programmaticamente cattolica. Invece una tale armata ci fu, i cosiddetti Requetés «carlisti» che combatterono contro i rojos (i «rossi»: comunisti e anarchici) nella guerra di Spagna del 1936-39. Il loro essere nuovi crociati stava nello stile a cui si assoggettavano per giuramento: soccorso dei nemici feriti e preghiere di accompagnamento per i nemici caduti, rispetto massimo della popolazione civile, niente bordelli e ubriachezze, messe e comunioni al campo, vita liturgica compatibilmente con le operazioni di guerra.

Militavano nel campo dei nacionales, evidentemente, ma con le debite distanze ideologiche da Franco e, soprattutto, dai falangisti, che consideravano servi dei nazisti tedeschi (non di rado tra questi e i requetés iniziava con sfottò e finiva in risse, subito sedate dagli ufficiali). Li si riconosceva dal basco rosso, visibilissimo in combattimento, per cui venivano chiamati tomates (pomodori) o amapolas (papaveri). «Carlisti» perché i loro avi avevano combattuto, nell’Ottocento, ben due guerre a favore del pretendente al trono Carlos, fratello del re Ferdinando: il primo prometteva di restaurare l’antica monarchia tradizionale spagnola, cattolica e rappresentativa dei fueros locali; il secondo era sostenuto da liberali e massoni, nonché da italiani dello stesso credo, come Cialdini e Durando, arruolatisi appositamente. Internazionale era anche la composizione del volontariato carlista, che annoverava anch’esso italiani accorsi per difendere la civiltà cristiana.

Questa fu l’esplicita motivazione che convinse uno di loro, il romagnolo Alfredo Roncuzzi, a partire per la Spagna. Tenente requeté ma anche uomo di lettere (era scrittore e commediografo, amico di Raimondo Manzini e Piero Bargellini, sulla cui rivista Frontespizio scriveva), è il solo che abbia affidato allo scritto il resoconto di quei giorni di guerra vissuti in prima persona, dalla partenza via nave al ritorno a conflitto finito. Oggi le Edizioni del Girasole ne propongono le memorie: L’altra frontiera. Un requeté romagnolo nella Spagna in guerra, a cura di Pier Giorgio Bartoli (pagg. 262, euro 20).

Ferito più volte nel suo Tercio, racconta de visu quel che la storia ci ha tramandato: la strage di preti e suore, il terrore comunista, le distruzioni di chiese, le fucilazioni rituali delle statue di Cristo. Ma anche il clima tetro che vigeva nel campo avverso, di contro alla serena allegria nelle trincee requetés; i miliziani costretti ad avanzare con la pistola alla nuca e che, alla prima occasione, disertavano, nostalgici dei canti religiosi che sentivano nella trincea opposta. Ma quel che desta meraviglia, nelle pagine del Roncuzzi, è l’esatta coscienza del motivo per cui lui e i suoi commilitoni si erano arruolati: un regno spagnolo (nelle speranze, primizia per il resto d’Europa) realmente rappresentativo, un parlamento coi «rappresentanti di ceti qualificati e categorie produttive: esponenti del clero, delle forze armate, delle corporazioni, delle municipalità, dei sindacati ecc., non di un popolo indifferenziato, valevole solo numericamente». C’è anche una perfetta analisi del processo di scristianizzazione, cominciato dal Rinascimento e passato per la rivolta luterana, l’Illuminismo, il giacobinismo e finito, logicamente, con i seminatori di odio puro per tutto ciò che esiste.

«Il marxismo, del resto, è così: protesta, sciopera, scatena tutte le tempeste per arrivare al potere e, giuntovi, non sa più che fare di quello Stato per la cui distruzione si era mosso»; così, «impone il collettivismo, che nessuno vuole, perché tutti intendono la solidarietà nella misura del proprio benessere non soggetto quotidianamente a sorveglianza speciale, dà agio all’ateismo di diventar religione di Stato».

E poi, l’amara constatazione: «Come diceva Donoso Cortés, le rivoluzioni avanti tutto sono malattie della gente ricca». Di fronte alle solite accuse alla Chiesa: «La Chiesa nel suo umano svolgersi presenta una società in cui il dispotismo può introdursi, in certe evenienze, di soppiatto e contro la sua dottrina; l’antichiesa, invece, è una chiesuola in cui il dispotismo è di casa e perpetuo».

di Rino Cammilleri.

domenica 15 luglio 2012

Tra Oriente e Occidente, l’ineffabilità dello stile.




di Eduardo Zarelli.

«“Lei conosce il conte Kuki Shuzo. Ha studiato molti anni con Lei”. “Rivolta al conte Kuki rimane la mia memoria riconoscente”». Con queste parole, che si leggono in un celebre libro di Heidegger, si può dire che affiori l’esistenza di Kuki Shuzo in Occidente e lì rimanga sospesa, come il miraggio di un orientale «dal cuore limpido e fine» che capiva il pensiero occidentale meglio degli Occidentali.

Tutto il pensare del conte Kuki Shuzo era rivolto a ciò che i Giapponesi chiamano iki. “Ciò che questa parola dice ho potuto solo presagirlo da lontano nelle mie conversazioni con Kuki”» aggiunge Heidegger. Concetto non scontato, sul crinale del pensabile e dell’indicibile, solo poeticamente evocabile. Una difficoltà, pensò Kuki, analoga a quella che deve affrontare chiunque tenti di tradurre il termine Essere, fondamento del pensiero occidentale, in giapponese. Ma la parola essere si incontra in Parmenide, mentre la parola iki appartiene al gergo delle geishe. Già qui si accenna sottilmente al rapporto enantiodromico tra Oriente-Occidente. Che cos’è dunque l’iki? Nel Giappone del periodo Bunka-Bunsei (1804-1830), questa parola veniva usata per definire l’ineffabile fascino della geisha, il suo stile sprezzante ma accattivante, ammiccante ma riluttante, improntato a sensualità e rigore, inflessibilità ed eleganza, qual specchio femminile della simmetrica virilità guerriera del samurai. L’”Iki” non è in nessun modo qualcosa di vecchio, rimanda piuttosto al “classico”. In ogni età, l’”Iki” esiste in una maniera adeguata a quell’epoca.

 Così, l’”Iki” è qualcosa che consente a una donna al passo coi tempi che può essere molto “moderna”, di dar abilmente vita a un’emozione che in realtà è profondamente antica. Una parola quindi con uno sguardo che ne individua i tratti distintivi e contemporaneamente congiunti nella seduzione, nell’energia spirituale e nella rinuncia, la colloca in un sistema estetico rigoroso; ne scopre le tracce nell’incedere, nei gesti e nelle posture della geisha; nei motivi decorativi, nell’architettura essenziale, nella musica per shamisen. Capire l’iki è come percepire la fragranza di un’intera civiltà, tale perché si pone nella forma dell’Essere. Non si dà il bello senza il suo disvelarsi: lo stile. La parola utilizzata da Heidegger per questa conoscenza interiore della mente aperta è la parola greca aletheia. In Essere e Tempo Heidegger scrive: “Il compito del pensiero sarà il pensiero antecedente alla determinazione della cosa del pensiero”. Per cogliere il significato proprio di aletheia egli scrive: “L’uomo assennato deve far esperienza del cuore che non trema della disvelatezza” . Ma questo cosa significa? Ancora Heidegger scrive che “la disvelatezza è per così dire l’elemento in cui solo si danno tanto l’essere che il pensiero, come la loro coappartenenza”.

L’importanza di apertura e presenza e la coappartenenza di essere e pensare indicano che la dicotomia dell’intuizione svanisce nel momento assoluto. La realtà è identità di essere e non essere. In un quaderno redatto a Londra nel 1942, poche settimane prima di morire, Simone Weil annotava: «Tutte le volte che si riflette sul bello, si è arrestati da un muro. Tutto ciò che è stato scritto al riguardo è miserabilmente ed evidentemente insufficiente». Pur nella concisione di un'espressione aforistica, ciò che la filosofa intendeva sottolineare può essere proposto nei termini di un paradosso. Da un lato, pochi altri concetti sono altrettanto variabili e soggettivi quanto lo è la bellezza. Ciò che a me appare bello, ad un altro potrà sembrare brutto o indifferente. È ciò che accade quando valutiamo un film o esprimiamo il nostro giudizio ad esempio su un'opera dell'arte contemporanea. Dall'altro lato, vi sono alcune cose — lo sguardo di un bambino, i colori di un tramonto, un'opera d'arte classica, una sonata o una melodia — della cui intrinseca bellezza nessuno si sentirebbe di dubitare. Per alcuni, insomma, la bellezza è legata alla soggettività del gusto individuale. Per altri, invece, bello è ciò che corrisponde ad alcuni parametri che possono essere definiti in termini oggettivi.

Per cercare di uscire da queste antinomie, proviamo a vedere come era concepita la bellezza alle origini della tradizione culturale dell'Occidente. Nella cultura greca arcaica, il termine «kalós» — che abitualmente traduciamo con «bello» — non aveva originariamente un significato «estetico». Ad esempio, la poetessa Saffo parla di «kalé seléne», alludendo non alla «bella luna», come potremmo credere, ma al plenilunio. La luna è «kalé», è «bella», in quanto è piena, cioè è integra, compiuta, non manca di nulla. Bello è, insomma, secondo la cultura e la mentalità greca, ciò che si presenta con le caratteristiche di una forma compiuta. Scaturisce da questi presupposti una convinzione diffusa in tutta l'antichità greco-latina, e cioè l'idea che la perfezione, e quindi anche la bellezza, coincidano con la finitezza. Se belle devono essere considerate quelle cose che sono integre, a cui non manca nulla, è evidente allora che per essere bella una cosa non dovrà essere in-finita, senza fines, senza con-fini, ma che, al contrario, essa dovrà avere contorni ben definiti. Lo sottolinea anche Aristotele quando ad esempio nella Poetica afferma che, per essere bello, un animale non deve essere né troppo piccolo, perché allora non riusciremmo a distinguerne la fisionomia, né troppo grande, perché in questo caso non potremmo abbracciarlo tutto con lo sguardo. Un'affermazione analoga si ritrova anche nel celebre epitaffio di Pericle, raccontato da Tucidide, dove la principale virtù attribuita agli ateniesi è posta in stretta relazione con la compiutezza: «Noi amiamo il bello — scrive lo storico — ma con un buon compimento» («eutéleia»). Bello è ciò di cui si possa dire che non manca di nulla.

Il punto di partenza di questo periplo estetico consiste nel mettere in luce, lo specifico statuto morale che l’antichità greca attribuiva al bello, delle cui attenzioni la natura costituiva inopinabilmente l’oggetto precipuo. La bellezza naturale, sorta in Grecia nel segno della contemplazione e incarnata da Afrodite, “quale felice esito di un conflitto crudele, come il generarsi di un ordine a partire da un caos iniziale”, trascendeva in toto il campo dell’arte, a cui soprattutto Platone nellaRepubblica attribuiva lo statuto della mera apparenza, e assumeva piuttosto un carattere, per così dire, tecnologico o progettuale: essa, quale portatrice di armonia, simmetria ed euritmia, si proponeva come misura e ordine dell’essere e del mondo, una misura e un ordine che garantivano – in senso lato ecologico – l’abitabilità del cosmo e che, quindi, facevano, in ultimo, della bellezza il compendio della legalità cosmica. Se ne evince, pertanto, una concezione del bello come immagine ideale del bene e, quindi, come un alcunché di annoverabile tra i principi primi dell’essere, la cui valenza basilare è in tutto e per tutto metafisica. L’incontro tra l’ideale metafisico del bello naturale, coincidente con la grecità classica, e l’opera d’arte avviene per merito di Winckelmann, nella cui descrizione del gruppo del Laocoonte viene messa in luce la relazione della naturalità del bello a quell’equilibrio delle forze che è un naturale compendiarsi, nel quale non si avverte (o non dovrebbe avvertirsi) lo sforzo della costruzione.

Nobile semplicità e quieta grandezza sono gli aspetti che meglio qualificano, per Winckelmann, il gruppo del Laocoonte, in quanto descrivono il superamento del caos originario e l’eliminazione della dispersione energetica, rimandando a un concetto di forma quale ottimizzazione delle energie e contemperamento delle forze in un tutto equilibrato. D'altra parte, nella concezione greca di bellezza converge anche un'altra caratteristica fondamentale, vale a dire una particolare nozione di tempo: non il tempo chrono-logico, che misura l'incessante divenire di tutte le cose, ma neppure l'immutabile permanenza del «sempre-essente», chiamato appunto «aión», ma quella singolare dimensione di tempo espressa dal «kairós», il momento propizio, l'occasione buona, l'attimo fuggente. Ne è testimonianza una sentenza che ricorre con irrilevanti variazioni lungo un ampio arco di tempo, secondo la quale «tutto è bello nel momento opportuno». Da ciò risulta allora che definire «bello» qualcosa non implica un giudizio di «gusto», non esprime una preferenza soggettiva, ma si identifica piuttosto con una struttura oggettivamente identificabile. Se la bellezza di una cosa dipende dalle proporzioni, dall'armonia, dalla simmetria, dalla atemporalità, allora si dovrà concludere che essa dipende da qualcosa che resta invisibile, nel senso che a fondamento della bellezza di un oggetto visibile vi è qualcosa che invece sfugge alla vista.

Veramente, compiutamente, genuinamente bello non è ciò che appartiene al nostro mondo, ma ciò che rinvia ad una realtà inattingibile. Le cose che giudichiamo belle non testimoniano una presenza, ma una mancanza. Alludono ad un «oltre», verso il quale possiamo soltanto tendere, senza alcuna possibilità di raggiungerlo. Già accennata in Platone, in particolare nel Fedro e nel Simposio, questa tensione è poi esplicitata e condotta alle conseguenze più rigorose da Plotino e dalla successiva tradizione neoplatonica, fino all'Umanesimo italiano, e poi a Goethe e a Schelling. Emerge qui un'alternativa che non riguarda soltanto il piano estetico, ma coinvolge più complessive e pervasive scelte di vita. Come si legge nelle Enneadi, di fronte alla bellezza sensibile dei corpi possiamo scegliere se comportarci come Narciso o come Ulisse. Nel primo caso, ignorando che ciò che vediamo è semplicemente un riflesso, una traccia o un'ombra, perderemo la nostra vita inseguendo una semplice immagine. Nel secondo caso, non ci lasceremo ingannare da ciò che appare, e impegneremo incessantemente ogni nostra energia per ritornare alla «cara patria» — la bellezza in se stessa — che è il fondamento delle molte cose belle.

Tutto ciò comincia a svanire con il Romanticismo, in particolar modo con le inevitabili conseguenze che derivano dalla distinzione kantiana tra giudizio estetico e giudizio teleologico e dal predominio – momentaneo – del primo sul secondo. La supremazia del giudizio estetico determina il passaggio cruciale in cui l’estetica si avvia a divenire filosofia dell’arte, da cui segue il sorgere dell’arte autonoma quale istituzione a sé stante e il mutamento della bellezza da naturale e metafisica ad artistica tout court: in altre parole, l’arte è venuta così definitivamente sostituendosi alla natura nelle gerarchie della bellezza. È proprio nel trascendimento della natura che, il bello in quanto ideale si avvia a perdere il suo punto di orientamento primario e quindi all’inevitabile tramonto che l’attende nella contemporaneità, e l’arte, da par sua, resasi consapevole di tutta la sua insufficienza a dar voce alla bellezza, si condanna – per il suo carattere costruito e artificioso – alla mortalità di hegeliana memoria: la bellezza, infatti, facendosi bellezza artistica e quindi prendendo forma nell’esclusivo ambito dell’arte, perde la sua qualità morale di misura dell’essere e cade, una volta acquisito un carattere di mera marginalità cosmica, in intima contraddizione con se stessa. Nel momento in cui si riveste definitivamente di un aspetto tecnico-costruttivo, facendosi opera e incarnandosi in un manufatto, la bellezza edifica se stessa e, pertanto, giunge all’ultima tappa del suo cammino, al paradosso, cioè, di una misura che diviene misura di sé.

Il declino del bello nella sua valenza principalmente naturale e morale, che si avvia nell’Ottocento, non può quindi che andare di pari passo con la crisi metafisica, accertata soprattutto da Nietzsche e da Spengler, della ragione morfologica di modello goethiano. Con la frattura insanabile che caratterizza il rapporto tra antico e moderno, si perviene man mano alla dissoluzione della forma quale analogia della bellezza, goethianamente intesa come sorgente da un processo formativo o come genesi che, dinamicamente, riesce a raccogliere e a dare equilibrio alle spinte centrifughe e centripete che contraddistinguono il suo divenire, fino al raggiungimento ultimo di un’armonica compiutezza. A far confluire il romanticismo nell’avanguardia è proprio la progressiva configurazione di forme dai tratti conflittuali, aperte e anticlassiche, che, perduta la capacità di contenere e di aggregare, spingono l’arte autonoma alla sua decadenza: a uno svuotamento infinito, che dovrebbe infine ricongiungerle a quella vita dalla quale esse hanno preteso di emanciparsi.

È possibile invertire la tendenza descritta? Tornare alla definitiva contemplazione del bello in sé? In un’epoca nella quale domina l’artificio e la superficialità, basata sull’inganno patinato in modo che l’occhio non possa scorgere la profondità, il cammino filosofico dell’oltrepassamento postmoderno consiste nello smascherare l’inganno della banalizzazione utilitaristica: per spingerci dentro le cose, per discernere la manifestazione dell’essere nella narcotica ridondanza consumista. L’architettura – in questa prospettiva - può aiutarci nell’aderire all’identità profonda tra cultura e natura: ascoltando l’anima del luogo, facendo in se stessa un vuoto ricettivo, non sovrapponendo la sua razionalità strumentale, le sue intenzioni soggettive, all’autenticità del luogo, all’oggettività cosmogonica. Che parla da sé. La natura indica perentoriamente, il senso del limite, la sobrietà, la forma. L’economicismo, la devastazione ambientale, i comportamenti interessati, il gigantismo, l’anonimato delle metropoli e l’insignificanza dei suoi (non) luoghi, l’anestetico arredamento razionalista sono alcuni dei sintomi della repressione della bellezza effettuata dal pragmatismo: sono un derivato della perdita di quel sentimento di misura e di armonia cosmica, di pudore e di grazia, che rivela l’essenza e accende l’eros, l’amore per l’anima in tutte le sue manifestazioni. Il Sé - per dirla con James Hillman - può manifestarsi solo come «interiorizzazione della comunità», da un lato, e come continuità con il cosmo, dall’altro. Ciò che ci allontana da noi stessi, ciò che ci estranea a noi stessi, è la perdita di contatto con ciò che siamo e soprattutto con ciò che sentiamo: una sorta di anestesia. Comparabilmente, ciò che ci allontana dall’anima di un luogo è questa stessa anestesia, l’essere privi di quella sensibilità che ci fa accorgere di ciò che lo deturpa, lo imbruttisce, lo sotterra e cementifica. Solo l’amore per l’ineffabile può arrischiarsi “oltre la linea” del già vissuto, del banale, dello scontato, del seriale.

Martin Heidegger concepisce un continuo contrapporsi di Mondo e Terra come vera lotta “nella quale i contendenti - l’un l’altro - si elevano all’autoaffermazione della propria essenza” . Nella lotta ognuno porta l’altro al di sopra di ciò che esso è. Mondo e terra sono sempre in contrapposizione e in conflitto, poiché solo come tali prendono il loro posto nella lotta di illuminazione e nascondimento. Terra e mondo sono aderenti alle forze primordiali rappresentate dai trigrammi taoisti dello Yin e dello Yang, che sono rispettivamente “k’un” il ricettivo associato all’oscurità della terrra, "ch’ien" il creativo associato all’apertura del cielo.

Terra dunque come Yin, l’assidua infaticabile non costretta, la coprente custodente che destina al fallimento ogni tentativo di penetrare in essa. Yin, significa originariamente il nuvoloso, l’oscuro. In contrasto Heidegger parla di apertura del mondo. Mondo come Yang, il dischiudersi dell’apertura. Yang che significa originariamente ‘vessillo che sventola al sole’, dunque cose illuminate e chiare. Come per Terra e Mondo anche tra Yin e Yang si instaura quella lotta che per Eraclito è “padre di tutte le cose, di tutte è re” . La lotta qui considerata è un conflitto originario in quanto anzitutto origina i combattenti come indispensabili l’uno all’altra. La lotta cioè delinea ciò che non è stato fino allora né detto né pensato, e sempre scaturisce come origine, come mito. Questa lotta che porta al continuo rovesciamento, non è priva di senso, in quanto è soggetta alla legge che tutto permea, cioè il Tao, la “via”, lo stile, per cui indipendentemente dall’esito, è fondante come si vive, non il perire, il cristallizzarsi. Quando si dà la preferenza ad un solo aspetto, la razionalità, non ascoltiamo l’interiorità, l’empatia, l’intuizione, l’Essere e dimentichiamo che il Mondo chiama e reclama la Terra e viceversa. Micro e macrocosmo intrecciano la via del bello, la misura dell’appropriato perché, con Eraclito: «Più potente è l’armonia nascosta di quella che appare» .

domenica 24 giugno 2012

Ernst Jünger nel grembo segreto della madre terra.


Ernst Jünger
All’inizio del De anima, discutendo le concezioni dei pensatori presocratici che ponevano a principio di tutte le cose o l’acqua (Talete) o l’aria (Anassimene) o il fuoco (Eraclito), Aristotele constata: “Tutti gli elementi hanno avuto un avvocato difensore, tranne la terra”. Nemmeno Aristotele, tuttavia, intende prendere le parti del più povero degli elementi. Per oltre duemila anni la tradizione razionalistica occidentale ha lasciato la terra – fredda, secca, ricettacolo delle determinazioni materiali, sensibili, inferiori, e perciò svalutate rispetto a quelle nobili ed elevate dello spirito – senza avvocati.

Questo lungo abbandono è stato interrotto nel Novecento da tre eminenti difensori: Heidegger, Schmitt e Jünger. Il primo ha valorizzato la terra come categoria filosofica nel saggio L’origine dell’opera d’arte (1935/36). Il secondo ha messo in luce il radicamento terrestre dell’uomo e del diritto nel racconto Terra e mare (1942), scritto per la figlia Anima, e nel trattato sul Nomos della terra (1950). Il terzo ha riabilitato la dimensione ctonia e tellurica dell’Essere nel saggio Al muro del tempo, che fu in parte tradotto da Evola e che ora Adelphi pubblica integralmente in una superlativa versione di Alvise La Rocca e Agnese Grieco, curata da Roberto Cazzola (pagg. 283, lire 34.000).

Si tratta, dopo Il lavoratore, del più importante testo speculativo di Jünger. Uscì nel 1959, alla fine di un “decennio filosofico” di intense riflessioni e straordinaria produttività, ma segnato dalle insistenti visite dell’”angelo della malinconia”. A descrivere tale situazione ricorrono nei suoi diari due parole: tristitia, cafard. In una lettera del 1958 di Gretha, la prima moglie, si legge: “Le depressioni perdurano. È un continuo girare in circolo su se stesso, che coinvolge praticamente tutto… Una pesantezza plumbea grava su lui e sulla casa… Non so che ne sarà di tutto ciò… Comunque, poco o nulla si può cambiare. Posso solo tentare di arginare queste ondate di tetra malinconia”.

Michael Klett, il suo editore, ricorda che “per un anno intero si alzava la mattina e, vestito come per andare in società, passava la giornata seduto in poltrona con lo sguardo fisso davanti a sé”. Per uscirne, a volte si metteva a osservare intensamente un fiore; oppure marciava per ore e ore nella pioggia, nel vento o nella neve, fino allo stremo; e si sottoponeva a una regola di vita monastica. Al muro del tempo sgorga dunque da un abisso. Ma la scrittura converte il de profundis in audaci slanci speculativi. Che cosa sono il tempo, la storia, il destino? Come può l’uomo, che li attraversa e ne è attraversato, conferire loro un barlume di intelligibilità? Inanellando pensieri e ragionamenti che spaziano da un capo all’altro dello scibile, dall’ astrologia alla metafisica, dalle scienze naturali alla storiografia, dal mito alla filosofia della storia e alla teologia, Jünger scruta il divenire del cosmo e i suoi ritmi per determinare il senso dell’apparizione principesca dell’uomo. Che posto occupano nell’evoluzione del Tutto le res gestae, le magnifiche sorti e progressive? Jünger guarda alla storia del genere umano come a un capitolo della storia della terra: “rinaturalizza” la storia, riporta il tempo della vita umana al suo letto geologico e considera l’umanità come un’efflorescenza della crosta terrestre.

Ad aprire questa prospettiva è l’astrologia. Non tanto per il preteso influsso degli astri sulla nostra vita, ma perché l’astrologia ci familiarizza con le rivoluzioni celesti e i cicli della terra, ristabilisce un collegamento – occultato dalla civilizzazione tecnica – con il ritmo del grande orologio primordiale. Il tempo e la storia dell’uomo eccedono, è vero, la naturalità, eppure affondando in essa le loro radici.

E se la comparsa del genere umano rende unica la terra, osservato dalle immense distanze cosmiche con cui l’astronomia ci sgomenta esso appare come un breve respiro della natura. Se, come insegna Vico, la storia è un factum, un prodotto dell’uomo, è altrettanto vero che quest’ultimo è parte della terra, un brulichio che anima la superficie del globo.

Proprio nell’anno di pubblicazione dell’opera, Jünger diede vita a un progetto che lumeggia questo suo sforzo speculativo. Con Mircea Eliade fondò e diresse fino al 1971 la rivista Antaios, che ambiva a fornire una “mitografia delle forze cosmiche”. Essa raccolse una straordinaria serie di indagini sul mito, la religione, l’arte, la cultura, sotto il patrocinio di Anteo, il gigante che diventava invincibile quando poggiava i piedi sulla Madre terra, e che Eracle riuscì ad uccidere solo sollevandolo dal suolo.

La Terra è dunque il grembo che genera l’uomo, il fondo da cui egli trae le sue forze ed energie, la nutrice che lo alimenta e lo protegge. È una sorta di “trascendenza naturale” che fa da contrappeso alla Tecnica, quando quest’ultima diventa fattore di nichilismo, cioè quando consuma ed erode le risorse simboliche e naturali dell’uomo, provocando impoverimento, diminuzione, perdita.

A rigore, dal punto di vista della Tecnica e del Lavoratore non si dà nichilismo: “Semplicemente si scorge il Nuovo e vi si prende parte”, senza voltarsi indietro e preoccuparsi di che cosa ne derivi, un’edificazione o una distruzione. Qui invece la prospettiva è mutata: le trasformazioni e le accelerazioni cui la Tecnica sottopone l’uomo appaiono sotto il segno dei prossimi Titani, sono prodromi di una nuova età del ferro sfavorevole allo spirito. Qui “Dio si ritira” (L. Bloy), e lo svanire della fede, la sparizione dell’Antico, non lascia come risultato il nulla, bensì “un vuoto, con la sua potenza di risucchio”, dunque un’inquietudine e un bisogno. È quanto occupa le ultime riflessioni jüngeriane, le Prognosi per il XXI secolo (ora nel primo supplemento dei Sämtliche Werke, Klett-Cotta, pagg. 624).

Eppure, come in Oltre la linea, Jünger guarda con ottimismo alla transizione verso la nuova epoca, fiducioso che lo spirito non soccomberà. E coniuga la dottrina gioachimita dei tre Evi storici, del Padre, del Figlio e dello Spirito, con l’antica concezione astrologica, basata sulla precessione degli equinozi, secondo cui dopo l’Età dell’Ariete e quella dei Pesci entreremmo nell’Era dell’Acquario, che sarà “una grande epoca dello Spirito”.

Si capisce allora la conclusione cui Jünger approda: vero interlocutore della Terra non è l’intelletto con i suoi titanici progetti, ma lo Spirito come potenza cosmica. E si capisce il temerario intento segretamente sotteso a tutta l’opera: risalire all’indietro le tappe che Comte aveva assegnato allo sviluppo del sapere umano, dalla scienza alla metafisica fino a ritrovare la religione e il mito, con le loro potenti immagini.


giovedì 21 giugno 2012

VERSO IL SOLSTIZIO D'ESTATE...



di Alfredo Cattabiani.

Al solstizio d’estate, quando il sole raggiunge la sua massima declinazione positiva (+23° 27′) rispetto all’equatore celeste, per poi riprendere il cammino inverso, comincia l’estate. L’evento era simboleggiato tradizionalmente dal matrimonio del Sole e della Luna: mezzogiorno del cosmo dove i due astri, uniti nelle nozze, spargono le loro energie nell’opulenza dei frutti tra il frinire delle solari cicale e il canto lunare dei grilli.

Questo giorno, la cui data è variata secondo i calendari fra il 19 e il 25 di gugno, era considerato nelle tradizioni precristiane un tempo sacro, ancora oggi celebrato dalla religiosità popolare con una festa che cade qualche giono dopo il solstizio, il 24 giugno, quando nel calendario liturgico della Chiesa latina si ricorda la Natività di san Giovanni Battista. E’ una festa molto antica se già Agostino la ricorda nella Chiesa africana latina. Ma in Oriente veniva celebrata in altre date: il 7 gennaio tra i bizantini, la domenica prima di Natale in Siria e a Ravenna.

La data del 24 giugno è collegata strettamente al Natale romano: quando si fissò per la Natività del Cristo l’ottavo giorno dalle calende di gennaio, ovvero il 25 dicembre, e conseguentemente l’Annunciazione nove mesi prima, fu facile ricavare, basandosi sui Vangeli, la data della nascita del Battista, che in realtà non si sarebbe dovuta festeggiare perché, come è noto, il dies natalis dei santi è quello della morte. Si è giustificata questa eccezione ispirandosi al Vangelo di Matteo, dove si narra che il Cristo si mise a parlare di Giovanni alle folle dicendo: “egli è colui del quale sta scritto: Ecco, io mando davanti a te il mio messaggero che preparerà la tua via davanti a te. In verità vi dico: tra i nati di donna non è sorto uno più grande di Giovanni il Battista”.

Luca narra che Maria andò a visitare Elisabetta quando costei era al sesto mese di gravidanza, nei giorni successivi all’Annunziazione. Fu dunque facile fissare la solennità del Battista all’ottavo giorno dalle calende di luglio, sei mesi prima della nascita del Cristo.

San Giovanni “porta degli uomini”

Nella religione greca antica i due solstizi erano chiamati “porte”: “porta degli dei” l’invernale, “porta degli uomini” l’estivo. Nell’Odissea Omero descriveva il misterioso antro dell’isola di Itaca nel quale si aprivano due porte: “l’una rivolta a Borea, è la discesa degli uomini, l’altra, invece, che si rivolte a Noto è per gli dei e non la varcano gli uomini, ma è il cammino degli immortali”. Il poeta spiega che la porta degli uomini è rivolta a Borea, cioè a nord percheé al solstizio estivo il sole si trova a nord dell’equatore celeste; mentre quella degli dei e degli immortali è rivolta a Noto, ovvero a sud, perché l’astro al solstizio invernale si trova a sud dell’equatore.

I solstizi erano dunque simboli del passaggio o del confine tra il mondo dello spazio-tempo e lo stato dell’aspazialità e dell’atemporalità. Per la prima porta solstiziale, quella estiva, si entrava nel mondo della genesi della manifestazione individuale, per l’altra invece, si accedeva agli stati sopraindividuali.

In realtà questo simbolismo non era solo greco: “Si tratta di una conoscenza tradizionale” commenta Guénon “che concerne una realtà di ordine iniziatico, e proprio in virtù del suo carattere tradizionale non ha né può avere alcuna origine cronologicamente assegnabile. Essa si trova dappertutto, al di fuori di ogni influenza greca, e in particolare nei testi vedici, che sono sicuramente di molto anteriori al pitagorismo; si tratta di un insegnamento tradizionale che si è trasmesso in modo continuo attraverso i secoli (…)”.

Nella tradizione romana il Custone delle porte, comprese le solstiziali, era il misterioso Ianus (Giano), signore dell’eternità. (…) Giano tiene un bastone, ovvero uno scettro, nella mano destra e una chiave nella sinistra. Il primo è un emblema del potere regale, la seconda di quello sacerdotale: insieme simboleggiano la funzione regale-sacerdotale del dio al quale Ovidio fa dire nei Fasti: “Io solo custodisco il vostro universo e il diritto di volgerlo sui cardini è tutto in mio potere”. Egli è dunque colui che ruota sulla sua terza facia nascosta e invisibile, l’asse del mondo, che rinvia al simbolismo solstiziale.

L’etimologia del suo nome rivela questa funzione: Ianus deriva dalla radice indoeuropea *y-a, da cui il sanscrito yana (via) e il latino ianua (porta). Egli è Colui che conduce da uno stato all’altro, e dunque anche l’Iniziatore. Per questo motivo gli iani avevano la funzione catartica di eliminare ogni impurità in chi vi passava. Nel cristianesimo Giano venne interpretato come l’immagine profetica del Cristo, Via e Signore dell’Eternità


Solstizio d'Estate.

domenica 3 giugno 2012

Pio IX? statista illuminato. Parola di "prof" reazionario.



S.S. Pio IX
La bibliografia sul Risorgimento italiano si è parecchio allungata nei mesi scorsi, in occasione dei festeggiamenti per i centocinquant’anni d’unità nazionale. Quel momento fondante e problematico della storia patria è stato raccontato sotto diversi punti di vista, anche le letture revisioniste e critiche hanno (finalmente) conquistato piena legittimità editoriale.

Ovvio che rimanga ancora molto da scoprire, da indagare, da comprendere per uscire definitivamente dalla retorica ottocentesca e poi fascista, per maturare una condivisa identità nazionale.

Ulteriore stimolo allo studio e alla riflessione arriva da Pio IX e la Rivoluzione italiana di Roberto de Mattei (Cantagalli, pagg. 208, euro 16). Il volume, fresco di stampa, è uscito fuori tempo massimo per rientrare nella sbornia editoriale celebrativa. Meglio così, dato che solo il nome dell’autore rischia di mettere in allarme i sinceri democratici e molti veri o presunti laici.

La fama del professor De Mattei, cattolico militante, presidente dell’associazione «Lepanto», ha valicato da tempo i confini degli addetti ai lavori della ricerca storica per via di una serie di prese di posizione politicamente scorrette: De Mattei ha preso posizione contro l’Unione europea che disgrega le unità nazionali e contro la teoria evoluzionista di Charles Darwin (secondo lui, poco compatibile con la fede cristiana). Dai microfoni di Radio Maria ha trovato un nesso fra la decadenza della civiltà occidentale e la propaganda omosessuale. Poiché «ogni male deve avere il suo castigo» non ha poi escluso che catastrofi naturali come un terremoto o uno tsunami possano rientrare nei piani della giustizia divina.

Di più. La sua «storia mai scritta» del Concilio Vaticano II, pubblicata per Lindau, ha vinto il premio Acqui Storia 2011, però ha sollevato molti dubbi anche fra cattolici non progressisti. In fondo, De Mattei non nasconde la sua vicinanza intellettuale alla cosiddetta scuola «controrivoluzionaria» di Plinio Corrêa de Oliveira. Secondo il pensatore brasiliano, la Rivoluzione è un processo messo in moto da forze avverse alla civiltà cristiana, iniziato con la Riforma protestante, proseguito con l’89 francese e culminato con il ’68. Il Risorgimento italiano è un’altra tappa fondamentale di questa scristianizzazione europea, aggiunge De Mattei. La stessa «questione romana non è un’appendice politico-diplomatica del Risorgimento ma il filo conduttore e il compimento». Significativa è l’immagine del primo civile che attraversò la breccia di Porta Pia: un valdese con un carretto carico di bibbie protestanti trainato da un cane battezzato con nome di Pio IX.

Ebbene, Giovanni Maria Mastai Ferretti, il pontefice che regnò più a lungo dopo San Pietro, ben trentadue anni, nella ricostruzione di De Mattei fu tutt’altro che sprovveduto in politica, ben conscio della posta in gioco, consapevole dell’attacco massonico e protestante dietro Mazzini, Garibaldi e Cavour. Addirittura sarebbe un mito quello del «Papa liberale» agli albori del pontificato, alimentato da nemici interni come Gioberti.

Non è necessario essere d’accordo del tutto con De Mattei, e sposare una certa propensione complottista, per ammettere una componente violentemente anticattolica in alcuni eroi risorgimentali, o per intravedere «un tentativo di eliminare il soprannaturale e il trascendente dalla storia». Se così non fosse, si spiegherebbero ben poco certi provvedimenti prima piemontesi e poi del Regno d’Italia nei confronti dei religiosi: abolizione per legge degli ordini contemplativi, espropri, carcerazioni, profanazioni. Nemmeno occorre militare fra i cattolici tradizionalisti per trovare in Pio IX motivi di stima: resse bene a un attacco culturale e militare senza precedenti nella storia della Chiesa. Affrontò di petto il materialismo trionfante proclamando a furor di popolo il dogma dell’Immacolata Concezione, aprendo il Concilio Vaticano I che sancì l’infallibilità papale e pubblicando il Sillabo, «sommario dei principali errori» dell’epoca.

Proprio il Sillabo non va venerato come fanno molti reazionari che confondono la Chiesa con la sua fase storica post-tridentina, ed è indubbiamente il documento di un’istituzione sotto attacco, che gioca in difesa.

Però ebbe il merito di rivendicare e tramandare un’idea medioevale del cattolicesimo e la visione del mondo tomista. In quest’epoca di tronfio neo-positivismo - suggerisce De Mattei - Pio IX ha qualcosa da dire a tutti, qualcosa di attuale. Non per nulla quando riesumarono il cadavere per la causa di beatificazione del settembre 2001 lo trovarono perfettamente conservato. Se lo stesso avviene per Mazzini - ha fatto notare qualcuno - è solo perché venne letteralmente mummificato dai seguaci.

di Luca Negri.

domenica 20 maggio 2012

Mircea Eliade: il filosofo che indagò il "senso religioso"


Mircea Eliade
Mircea Eliade ha firmato alcuni dei saggi più interessanti del secolo scorso. Notevole è stata l’influenza del suo lavoro, anche fuori dall’ambito accademico, dal recinto degli studiosi di religioni e del sacro in generale. In centinaia di pagine Eliade ha raccontato «lo sciamanesimo e le tecniche arcaiche dell’estasi», il mito dell’eterno ritorno (ben più antico di Nietzsche, addirittura primordiale), l’alchimia ovvero la scienza occulta nella lavorazione dei metalli, il significato delle feste dei solstizi e degli equinozi, la varietà delle tecniche yoga. Si è anche occupato di occultismo, mode culturali, simbologia, ma il suo lavoro più noto è giustamente il poderoso trattato di storia delle religioni: un vero classico per gli appassionati dell’argomento.
                                           
Lo studioso rumeno è invece meno noto come romanziere; eppure scrisse una decina abbondante di opere narrative. Probabilmente tutte interessanti, dati il personaggio, la vastità, la profondità degli interessi. Qualche anno fa Francis Ford Coppola ha trasformato in film «Un’altra giovinezza», fresco di stampa per la collana narrativa di Jaca Book, è invece «Gaudeamus». Si tratta del secondo romanzo di Eliade, scritto nel 1928, quando era poco più che ventenne, molti anni prima del suo coinvolgimento nella Legione dell’Arcangelo Michele di Corneliu Codreanu, l’ordine iniziatico cristiano- ortodosso, nazionalista e antisemita (purtroppo, anche se la cosa era tutt’altro che rara nella Romania di allora).

È bene ricordare che negli anni della maturità, Eliade non diede mai adito al minimo segnale di antisemitismo in alcuna delle sue opere. Nella Legione di Codreanu cercava ben altro. Risulta chiaro dalla lettura del romanzo giovanile, anche perché marcato è l’elemento autobiografico. Entriamo infatti nella vita di uno studente universitario (non antisemita, sebbene non gli manchino cattivi esempi intorno) che parla in prima persona, come in un diario. Accompagnato dallo scorrere delle stagioni che mutano l’animo quanto e come il paesaggio esterno, il protagonista vive esperienze amorose e sessuali, avventure del pensiero e tensioni religiose. Soffre un po’ la scissione fra il richiamo dei sensi, (la bella compagna d’università dai capelli neri), e il l’elevazione del pensiero e dello spirito. Vorrebbe spingersi oltre le frontiere intraviste dal suo autore favorito: Giovanni Papini. Se l’italiano non è riuscito ad acquisire il sapere assoluto, ha dichiarato fallita la missione ed è tornato sotto la rassicurante cupola della Chiesa cattolica, il giovane rumeno non intende arrendersi. Ed è capace di studiare per giorni e notti intere, senza mai alzarsi dalla sedia. Materie impegnative, per giunta, come il sanscrito e l’ebraico. Naturale che si ammali per il tropo poco sonno ed eccessiva tensione nervosa, per la febbrile indagine su quali siano i limiti della sua volontà. Provvidenzialmente, sarà il suo professore di logica a dare i consigli migliori: trovarsi una fidanzata, andare in osteria e non fare il filosofo, non avere fretta di accedere alla sapienza. Sempre sulle orme dell’insegnante, (dietro il personaggio si nasconde l’intellettuale Nae Ionescu), il giovane si riavvicinerà al cristianesimo. Proprio come Eliade, che per tutta la vita, nonostante la conoscenza del tantra indù e buddista e di quasi tutti i culti della terra, anzi proprio per quel motivo, fu cristiano ortodosso. Ulteriore conferma che in Cristo tutte le religioni si incontrano, come succede a spirito e carne.

di Luca Negri

domenica 13 maggio 2012

Porzus, quando i comunisti ammazzavano gli antifascisti.



Sette febbraio 1945. Friuli Orientale. Un centinaio di militi comunisti irrompe di sorpresa nel comando dell’Osoppo. L’azione è rapida, brutale. Terroristica. In pochi minuti gli attaccanti sono padroni del campo. Il bilancio dell’operazione è netto. Vittoria. I difensori, frastornati, alzano le braccia. Urlano, imprecano. Nessuno gli ascolta. I vincitori hanno una stella rossa sul berretto e tanta fretta. Gli ordini del partito sono chiari e non si discutono: il quartier generale degli “osavani” deve essere annientato. Il plotone d’esecuzione è pronto. Qualcuno intona “bandiera rossa”. Pietà l’è morta…

Sette febbraio 1945. Nei boschi della Carnia i sicari dei gruppi d’azione partigiana assassinano il comandante Francesco De Gregori — lo zio dell’artista romano —, i suoi luogotenenti — tra cui Guido Pasolini, il fratello di Pier Paolo — e i loro commilitoni. Un massacro. Venti partigiani italiani, venti antifascisti cadono falciati da raffiche di mitra. Raffiche corte, raffiche lunghe. Raffiche assassine. Tutte sputate dai mitra impugnati da altri partigiani. Anche loro italiani. Anche loro antifascisti. Perché?

Una domanda che rimbalza da decenni tra i monti del Friuli, le memorie dei protagonisti e le paure dei testimoni; un interrogativo silenziato per più di mezzo secolo nei tribunali dello Stato o sepolto negli archivi del defunto PCI e dell’ex Jugoslavia comunista. È “l’affare Porzus”, uno sporco affare.

A tutt’oggi — persino in questo primo scorcio del terzo millennio — quei venti morti rimangono un ricordo intollerabile per gli sfiatati cantori del manierismo resistenziale, un problema terribilmente fastidioso per larghi segmenti della società politica italiana, una questione aperta che dopo sessant’anni imbarazza giornalisti e gran parte degli storici. Di quella strage lontana — la prima delle troppe mattanze che, da Portella delle Ginestre a Bologna e oltre, punteggiano il nostro interminabile dopoguerra — meglio era (è) non parlarne. Meglio dimenticare, scordare. E — se proprio necessario — basta(va) un accenno confuso e deviante. Ancora una volta, perché?

Le risposte — complesse, atroci, definitive — le ritroviamo, finalmente, in “Porzus. Violenza e Resistenza sul confine orientale”. Un libro importante. Coraggioso. Il lavoro, curato da Tommaso Piffer e pubblicato — con il contributo dell’Associazione Partigiani Osoppo Friuli — da Il Mulino, raccoglie i contributi di Elena Aga-Rossi, Patrick Karlsen, Orietta Moscara, Paolo Pezzino, Tommaso Piffer e Raoul Pupo ed illumina con fredda obiettività il contesto nazionale e internazionale del tempo, i passaggi che portarono all’eccidio, le ragioni che hanno reso controversa la memoria del massacro, le tappe del dibattito storiografico e — dato centrale — i motivi dell’assordante silenzio di una “repubblica nata dalla resistenza”.

Una storia scomoda

Rompendo schemi desueti quanto ipocriti, gli autori del saggio — senza sconti per alcuno e forti di un’imponente documentazione proveniente dagli archivi italiani, ex jugoslavi, tedeschi e britannici — hanno in primo luogo indagato la tragedia delle terre di frontiera. Non a caso. Analizzare i fatti del 7 febbraio ‘45 e gli eventi collegati significa non solo illuminare un angolo buio della nostra storia ma (ri)aprire il dibattito sulla complessità e le divisioni del movimento di resistenza antifascista in Europa, in Jugoslavia e in Italia. Infrangendo più di un tabù.

Come Piffer sottolinea nella sua introduzione, «la vicenda di Porzus e il contesto in cui essa è collegata mostrano come la storia del periodo 1943-1945 sia comprensibile nella sua interezza solo se ricondotta al suo vero contesto: un contesto nel quale il conflitto “bilaterale” tra fascismo e nazifascismo si intreccia con il conflitto “trilaterale” tra fascismo, democrazia e comunismo. Un duplice scontro all’interno del quale il conflitto tra forze comuniste e forze antifasciste non comuniste ebbe in alcune zone un’intensità non dissimile da quella tra le stesse forze antifasciste e il nazismo».

Andiamo per ordine. Nell’ultimo conflitto mondiale nei paesi occupati dall’Asse il rifiuto all’hitlerismo fu un richiamo potente e — come, peraltro, il collaborazionismo — assolutamente trasversale. L’opposizione armata all’Ordine Nuovo berlinese assunse — soprattutto dopo El Alamein, Stalingrado e l’armistizio italiano —, dimensioni di massa, trasformandosi in un fattore politico e militare importante in cui s’intrecciarono motivazioni diverse, talvolta contradditorie e spesso contrastanti.

I comunisti, sebbene avessero imbracciato le armi — a differenza delle formazioni nazionaliste, come i gollisti in Francia o l’esercito clandestino polacco — solo nell’estate ’41 dopo la rottura del patto tra l’URSS e il Reich, presto trasformarono l’antifascismo in un vettore ideologico ambiguo, in un coltello a doppia lama. Su ordine di Mosca, celandosi dietro a parole d’ordine rassicuranti (moderate, unitarie e persino scioviniste), i quadri dei PC — un nucleo di solidi “rivoluzionari di professione”, forgiati da decenni di sconfitte e ripetute “purghe” interne — trasformarono la guerra contro la Germania in una fase podromica alla rivoluzione e all’espansione sovietica. In questa logica le forze resistenziali (comprese quelle d’ispirazione anarchica o trotzkista) che non accettavano l’egemonia delle “avanguardie” dovevano essere neutralizzate o/e annientate. Con ogni mezzo, in tutta Europa.

Come annota ancora Piffer, è proprio in nome dell’antifascismo «che furono eliminati i partigiani osovani a Porzus, sulle cui credenziali democratiche non vi può essere dubbio alcuno… è in nome dell’antifascismo che le forze di Tito eliminarono le forze partigiane nazionaliste per poi imporre al paese un regime comunista, o che nel 1946 giustiziarono il loro leader Draza Mihailovic, che all’inizio del conflitto avevano celebrato come il leader della resistenza antifascista europea. Ed è sempre in nome dell’antifascismo che Stalin fece massacrare la resistenza polacca non comunista durante l’insurrezione di Varsavia del 1944, così da poter instaurare senza ostacoli il sistema socialista nel paese alla fine della guerra». La tragedia carnica non fu quindi un’anomalia, un “triste errore” ma era parte di un preciso progetto politico-strategico fissato da Stalin e applicato con cinismo e determinazione dai suoi terminali nazionali.

Lotta di classe e pulizia etnica

Al tempo stesso Porzus e l’intera vicenda del confine orientale presentano varianti e conseguenze originali e impreviste. Tra il 1943 e il 1954 (e oltre), in quell’angolo d’Italia si consumò non solo il “conflitto trilaterale” ricordato da Piffer, ma anche un segreto duello per la primazia sul movimento comunista nell’Europa meridionale tra due partiti comunisti ferocemente stalinisti e tra Tito e Togliatti, due leader rigidamente “moscoviti”. Un gioco ambiguo e, tutt’oggi, poco esplorato.

Come spiegano nei loro contributi Raoul Pupo e Orietta Passerini, nell’ultima fase del conflitto Josif Broz Tito, a differenza del callido Palmiro — rimasto prudentemente in URSS sino al collasso del fascismo —, divenne uno dei protagonisti del panorama internazionale. Capo di un esercito irregolare e (grazie al contributo britannico) vittorioso, il rivoluzionario croato aveva — sfidando gli ordini di Stalin, attento agli equilibri internazionali e fautore di un gradualismo rivoluzionario — imposto il comunismo più duro e severo a un’intera nazione.

Forte del suo successo, Tito si convinse d’essere il principale referente europeo di Mosca e, in polemica con i “partiti fratelli” — si veda a riguardo François Fejto e la sua fondamentale “Storia delle democrazie popolari” (Bompiani, 1977) — impose al PCJ una deriva estremistica, un intreccio di politiche radicali e d’esasperato nazionalismo “gran yugoslavo”. Approfittando della battaglia contro gli invasori stranieri, i “titini” scatenarono in una guerra civile feroce e una “pulizia di classe” accurata quanto criminale. Con l’accusa di “fascismo”, i partigiani rossi annientarono non solo gli avversari e i “nazionalisti borghesi” ma ogni segmento sociale, politico e culturale considerato potenzialmente nemico della “nuova Jugoslavia”: intellettuali, religiosi, imprenditori, piccoli e grandi proprietari terrieri e poi monarchici, liberali e poi socialdemocratici, anarchici, autonomisti croati, sloveni, macedoni, albanesi.

Come ricordava l’ex braccio destro di Tito e poi dissidente Milovan Gilas nel suo libro “Conversazioni con Stalin” (Feltrinelli, 1962), il padrone del Cremlino non apprezzò questo “inutile zelo” che rischiava d’irrigidire gli americani, ma con realismo preferì posticipare l’inevitabile rottura e legittimò parte delle ambizioni territoriali — cassando però le incredibili promesse (l’occupazione del Veneto e della Lombardia) fatte agli jugoslavi da Churchill — dell’ingombrante discepolo balcanico.

In nome della fedeltà all’Unione Sovietica, ai comunisti italiani non rimase che adeguarsi e obbedire. Il punto di svolta decisivo fu l’incontro a Roma, nell’ottobre del 1944, tra i dirigenti titini e il leader del PCI, nel quale Togliatti accettò le loro pretese sull’Istria, Fiume, Trieste, Gorizia e gran parte del Friuli; pochi giorni dopo “il migliore” emanò la direttiva di favorire in ogni modo «l’occupazione della regione giuliana da parte delle truppe del maresciallo Tito», ordinando ai suoi referenti locali di «prendere posizione contro  tutti quegli elementi italiani che si mantengono sul terreno e agiscono a favore dell’imperialismo e nazionalismo italiano e contro tutti coloro che contribuiscono in qualsiasi modo a creare discordia tra i due popoli».

Da quel momento le formazioni comuniste italiane passarono sotto gli ordini diretti del comando del IX Corpus jugoslavo; chi non tra i “garibaldini” mugugnò o protestò — e vi furono più casi — fu prontamente eliminato. In questo quadro la stessa esistenza dell’Osoppo divenne per il PCJ e i suoi ausiliari italiani, semplicemente intollerabile. I comunisti di Togliatti, per ordine della federazione del PCI di Udine o/e dai “titini” — la questione è ancora aperta —, s’incaricarono di “risolvere” il problema e il sette febbraio ‘45 salirono a Porzus…

Gli scheletri nell’armadio

Da subito, come nel caso delle foibe e del terrorismo anti italiano, il PCI cercò di stendere una fitta coltre sull’episodio. Per decenni, con tenacia, dogmatismo e arroganza Botteghe Oscure e un triste sodalizio come l’ANPI imposero una visione manichea e storicamente inattendibile; ancora nel 1992 Occhetto e il PDS resero impossibile a Cossiga una commemorazione ufficiale a Porzus e tutt’ora il film sul massacro (girato nel’97) di Renzo Martinelli rimane mestamente congelato negli archivi RAI (con buona pace di chi blaterava di “colonizzazione berlusconiana” della TV di Stato). E quando una persona onesta e intelligente come l’ex comunista triestino Stelvio Spataro (forse uno dei possibili custodi degli archivi segreti dell’agente stalinista Vidali…) osò qualche accenno sulla vicenda, fu subito zittito. Per il partito nulla d’importante era successo. Di nulla si doveva parlare. Un silenzio assordante. Non mancarono gli ipocriti e gli ignavi: uno per tutti il non compianto Bocca che accusò il povero De Gregori di viltà, attendismo e, persino, grafomania anti comunista….

Resta il fatto che per Togliatti ieri — e per i suoi tristi epigoni, oggi — è(ra) difficile, forse impossibile ammettere, come sottolinea Patrick Karlsen che «per il partito comunista la motivazione nazionale della guerra di liberazione era un fatto negoziabile sull’altare dello scontro di classe». Non a caso per lo studioso (autore di un importante lavoro come “Frontiera rossa. Il PCI, il confine orientale del contesto internazionale”, Editrice Goriziana, 2010) Porzus e le foibe sono eventi assimilabili «nella misura in cui a essere colpiti dalla pulizia di classe comunista sono stati altri antifascisti. Nel fenomeno delle foibe vediamo almeno due logiche in azione. C’è un’epurazione preventiva nei confronti di coloro che, per ragioni ideologiche o nazionali, vengono considerati nemici della Jugoslavia comunista che si sta formando ed espandendo; e c’è un’epurazione punitiva, diretta a eliminare i fasciti o presunti tali. Nell’eccidio di Porzus all’opera c’è solo la prima spinta: a essere trucidati dai partigiani comunisti furono gli altri resistenti, alleati nella lotta di liberazione ma contrari all’annessione alla Jugoslavia comunista».

Ma vi è di più. Per i nostalgici del PCI affrontare con coraggio il massacro dell’Osoppo significherebbe aprire le pagine più buie del loro “album di famiglia” e spiegare le corresponsabilità, tra il 1944 e il 1948, dei comunisti italiani nella distruzione di ogni opposizione antifascista non comunista (nazionale e slava) ad est del Tagliamento.

Accanto a De Gregori, Pasolini e gli altri martiri “osoppiani” lungo è l’elenco di antifascisti e partigiani assassinati, traditi, infoibati. Il primo è Luigi Frausin, dirigente triestino del PCI, ostile alla sottomissione ai “titini”: arrestato dai nazisti su “delazione slava” — come recita la motivazione della Medaglia d’oro alla memoria —, morì assieme ai suoi compagni tra le mura della Risiera. Altri furono eliminati direttamente dai comunisti: tre membri del Cln di Trieste; due di quello di Fiume; Vinicio Lago, ufficiale di collegamento della Brigata Osoppo; Enrico Giannini, del Corpo Italiano di Liberazione.

Come ricorda Maurizio Stefanin su “cronache di Liberal” (febbraio 2010), rimane «allucinante la sorte di Angelo Adam, un ebreo e repubblicano storico che finì infoibato dopo essere stato confinato a Ventotene ed essere scampato anche al lager di Dachau: sua moglie e sua figlia minorenne, arrestate per essere andate a chiedere informazioni sulla sua sorte, furono fatte scomparire a loro volta. Teobaldo Licurgo Olivi, membro socialista del Cln di Gorizia, fu arrestato dagli jugoslavi il 5 maggio 1945 e fucilato a Lubiana il 31 dicembre successivo. Di Augusto Sverzutti, membro dello stesso Cln per il Partito d’Azione e arrestato assieme a lui, si sa che era ancora vivo e detenuto nel 1949. Poi, il mistero. Né mancarono quei comunisti cui l’ideologia non aveva impedito di rimanere fedeli all’ideale patriottico. Tra questi, spicca il nome di Rocco Cali, un combattente della Brigata Garibaldi Natisone. Fu assassinato a Rovigno nel maggio 1945 perché, anche dopo la decisione del Pci di far passare l’unità alle dipendenza del IX Corpus sloveno, aveva rifiutato di togliere la coccarda tricolore che sempre portava accanto alla bandiera rossa. Ma furono sterminati anche i leader del Partito Autonomista Fiumano, che sognavano uno Stato indipendente sia dall’Italia che dalla Jugoslavia: Mario Blasich, strangolato nel suo letto di paralitico; Giuseppe Sincich; Mario Skull; Giovanni Baucer; Mario De Hajnal; Giovanni Rubinich… E furono anche uccisi un bel po’di slavi non comunisti: Ivo Bric, antifascista cattolico; Vera Lesten, poetessa e antifascista cattolica; i quattro membri della famiglia Brecelj; i sacerdoti don Alojzij Obit, don Lado Piscanc, don Ludvik Sluga, don Anton Pisk, don Filip Tercelj, don Izidor Zavadlav di Vertoiba… Andrej Ursic era stato addirittura un membro del Tigr: gruppo armato che dagli anni ’20 aveva iniziato una lotta terrorista contro le autorità italiane, contro l’annessione all’Italia di Trieste, Istria, Gorizia e Fiume (le cui iniziali in lingua slava costituivano l’acronimo del nome della belva richiamata nel nome). Ma fu sequestrato dalla polizia segreta jugoslava il 31 agosto del 1947, sottoposto a sevizie, probabilmente ucciso nell’autunno del 1948, e il suo cadavere gettato in una delle foibe della Selva di Tarnova».

Nel Giorno del Ricordo, lo scorso 10 febbraio, Giorgio Napolitano ha annunciato la sua intenzione di recarsi a Porzus a maggio prossimo per rendere omaggio alle vittime dell’eccidio. Un gesto importante che rende giustizia, 67 anni dopo, al sacrificio dell’Osoppo. Un monito forte ai “giustificazionisti”, ai “negazionisti”, a tutti i nostalgici del filo spinato; un segnale a quella stramba e petulante coorte — tra cui spiccano il senescente Pahor e l’imbarazzante Pisapia — che ancora rifiuta d’accettare la tragedia del confine orientale; un incoraggiamento a storici coraggiosi come Piffer, Pupo, Karlsen e la grande Elena Aga-Rossi, un aiuto a editori liberi come il Mulino.

Non vi è pace senza giustizia, non vi è superamento senza verità. Anche a Porzus. Anche in quell’ultimo lembo d’Italia.

“Porzus, violenza e Resistenza sul confine orientale”

A cura di Tommaso Piffer

Ppgg. 154. Euro 15,00

Il Mulino. Bologna, 2012