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domenica 24 giugno 2012

Ernst Jünger nel grembo segreto della madre terra.


Ernst Jünger
All’inizio del De anima, discutendo le concezioni dei pensatori presocratici che ponevano a principio di tutte le cose o l’acqua (Talete) o l’aria (Anassimene) o il fuoco (Eraclito), Aristotele constata: “Tutti gli elementi hanno avuto un avvocato difensore, tranne la terra”. Nemmeno Aristotele, tuttavia, intende prendere le parti del più povero degli elementi. Per oltre duemila anni la tradizione razionalistica occidentale ha lasciato la terra – fredda, secca, ricettacolo delle determinazioni materiali, sensibili, inferiori, e perciò svalutate rispetto a quelle nobili ed elevate dello spirito – senza avvocati.

Questo lungo abbandono è stato interrotto nel Novecento da tre eminenti difensori: Heidegger, Schmitt e Jünger. Il primo ha valorizzato la terra come categoria filosofica nel saggio L’origine dell’opera d’arte (1935/36). Il secondo ha messo in luce il radicamento terrestre dell’uomo e del diritto nel racconto Terra e mare (1942), scritto per la figlia Anima, e nel trattato sul Nomos della terra (1950). Il terzo ha riabilitato la dimensione ctonia e tellurica dell’Essere nel saggio Al muro del tempo, che fu in parte tradotto da Evola e che ora Adelphi pubblica integralmente in una superlativa versione di Alvise La Rocca e Agnese Grieco, curata da Roberto Cazzola (pagg. 283, lire 34.000).

Si tratta, dopo Il lavoratore, del più importante testo speculativo di Jünger. Uscì nel 1959, alla fine di un “decennio filosofico” di intense riflessioni e straordinaria produttività, ma segnato dalle insistenti visite dell’”angelo della malinconia”. A descrivere tale situazione ricorrono nei suoi diari due parole: tristitia, cafard. In una lettera del 1958 di Gretha, la prima moglie, si legge: “Le depressioni perdurano. È un continuo girare in circolo su se stesso, che coinvolge praticamente tutto… Una pesantezza plumbea grava su lui e sulla casa… Non so che ne sarà di tutto ciò… Comunque, poco o nulla si può cambiare. Posso solo tentare di arginare queste ondate di tetra malinconia”.

Michael Klett, il suo editore, ricorda che “per un anno intero si alzava la mattina e, vestito come per andare in società, passava la giornata seduto in poltrona con lo sguardo fisso davanti a sé”. Per uscirne, a volte si metteva a osservare intensamente un fiore; oppure marciava per ore e ore nella pioggia, nel vento o nella neve, fino allo stremo; e si sottoponeva a una regola di vita monastica. Al muro del tempo sgorga dunque da un abisso. Ma la scrittura converte il de profundis in audaci slanci speculativi. Che cosa sono il tempo, la storia, il destino? Come può l’uomo, che li attraversa e ne è attraversato, conferire loro un barlume di intelligibilità? Inanellando pensieri e ragionamenti che spaziano da un capo all’altro dello scibile, dall’ astrologia alla metafisica, dalle scienze naturali alla storiografia, dal mito alla filosofia della storia e alla teologia, Jünger scruta il divenire del cosmo e i suoi ritmi per determinare il senso dell’apparizione principesca dell’uomo. Che posto occupano nell’evoluzione del Tutto le res gestae, le magnifiche sorti e progressive? Jünger guarda alla storia del genere umano come a un capitolo della storia della terra: “rinaturalizza” la storia, riporta il tempo della vita umana al suo letto geologico e considera l’umanità come un’efflorescenza della crosta terrestre.

Ad aprire questa prospettiva è l’astrologia. Non tanto per il preteso influsso degli astri sulla nostra vita, ma perché l’astrologia ci familiarizza con le rivoluzioni celesti e i cicli della terra, ristabilisce un collegamento – occultato dalla civilizzazione tecnica – con il ritmo del grande orologio primordiale. Il tempo e la storia dell’uomo eccedono, è vero, la naturalità, eppure affondando in essa le loro radici.

E se la comparsa del genere umano rende unica la terra, osservato dalle immense distanze cosmiche con cui l’astronomia ci sgomenta esso appare come un breve respiro della natura. Se, come insegna Vico, la storia è un factum, un prodotto dell’uomo, è altrettanto vero che quest’ultimo è parte della terra, un brulichio che anima la superficie del globo.

Proprio nell’anno di pubblicazione dell’opera, Jünger diede vita a un progetto che lumeggia questo suo sforzo speculativo. Con Mircea Eliade fondò e diresse fino al 1971 la rivista Antaios, che ambiva a fornire una “mitografia delle forze cosmiche”. Essa raccolse una straordinaria serie di indagini sul mito, la religione, l’arte, la cultura, sotto il patrocinio di Anteo, il gigante che diventava invincibile quando poggiava i piedi sulla Madre terra, e che Eracle riuscì ad uccidere solo sollevandolo dal suolo.

La Terra è dunque il grembo che genera l’uomo, il fondo da cui egli trae le sue forze ed energie, la nutrice che lo alimenta e lo protegge. È una sorta di “trascendenza naturale” che fa da contrappeso alla Tecnica, quando quest’ultima diventa fattore di nichilismo, cioè quando consuma ed erode le risorse simboliche e naturali dell’uomo, provocando impoverimento, diminuzione, perdita.

A rigore, dal punto di vista della Tecnica e del Lavoratore non si dà nichilismo: “Semplicemente si scorge il Nuovo e vi si prende parte”, senza voltarsi indietro e preoccuparsi di che cosa ne derivi, un’edificazione o una distruzione. Qui invece la prospettiva è mutata: le trasformazioni e le accelerazioni cui la Tecnica sottopone l’uomo appaiono sotto il segno dei prossimi Titani, sono prodromi di una nuova età del ferro sfavorevole allo spirito. Qui “Dio si ritira” (L. Bloy), e lo svanire della fede, la sparizione dell’Antico, non lascia come risultato il nulla, bensì “un vuoto, con la sua potenza di risucchio”, dunque un’inquietudine e un bisogno. È quanto occupa le ultime riflessioni jüngeriane, le Prognosi per il XXI secolo (ora nel primo supplemento dei Sämtliche Werke, Klett-Cotta, pagg. 624).

Eppure, come in Oltre la linea, Jünger guarda con ottimismo alla transizione verso la nuova epoca, fiducioso che lo spirito non soccomberà. E coniuga la dottrina gioachimita dei tre Evi storici, del Padre, del Figlio e dello Spirito, con l’antica concezione astrologica, basata sulla precessione degli equinozi, secondo cui dopo l’Età dell’Ariete e quella dei Pesci entreremmo nell’Era dell’Acquario, che sarà “una grande epoca dello Spirito”.

Si capisce allora la conclusione cui Jünger approda: vero interlocutore della Terra non è l’intelletto con i suoi titanici progetti, ma lo Spirito come potenza cosmica. E si capisce il temerario intento segretamente sotteso a tutta l’opera: risalire all’indietro le tappe che Comte aveva assegnato allo sviluppo del sapere umano, dalla scienza alla metafisica fino a ritrovare la religione e il mito, con le loro potenti immagini.


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