Salviamo i nostri Marò

Salviamo i nostri Marò
I nostri due militari devono tornare a casa

Siamo contro ogni genere di Discarica nel nostro Territorio!

sabato 31 marzo 2012

Léon Degrelle.


“L'uomo deve ridiventare, anzitutto, essere spirituale, teso verso tutto ciò che innalza e nobilita: se no, quantunque gradevole sia la decorazione, la vita risulta solo una mangiatoia, in cui ci si sazia e l’essenziale non esiste più.”

Léon Degrelle.
Nacque a Bouillon, in Belgio, il 15 giugno del 1906, nello splendido borgo medievale che diede natali a Goffredo, l’eroe condottiero della Prima Crociata. Una rocca immersa nelle foreste delle Ardenne. Il padre, Edouard, esercitava il mestiere di birraio in Francia ma fu costretto ad espatriare in Belgio nel 1901 a seguito dell’espulsione dei Gesuiti francesi e al rinfocolarsi del movimento anticlericale diffuso in quel periodo. La madre, Marie - Louise Boever, fu la figlia del capo della destra lussemburghese. Lèon Degrelle fu il quinto figlio nato dalla coppia dopo Maria, Edoardo, Giovanna, Maddalena e Susanna. Dopo un’adolescenza idilliaca negli splendidi scenari bucolici della sua regione natia, la sua giovinezza fu estremamente avventurosa. Assunto come reporter da un piccolo giornale, viaggiò per il mondo, arrivando anche negli Stati Uniti nei primi anni del 1930, ma restando colpito soprattutto dal Messico e dalle vicende dei Cristeros, cattolici massacrati in America Latina per la loro fede. In seguito Lèon Degrelle pubblicò un opuscolo di trentasette pagine dal titolo “Storia della guerra scolastica 1879 – 1884”. Tornato in Patria, da fervente studente cristiano, militò inizialmente nelle fila dell’Azione cattolica. Il 26 marzo del 1932, sposò Marie – Paule Lemai , cinque anni più giovane, di origine francese e appartenente alla buona borghesia di Tournai. Dopo la guerra fu condannata a dieci anni di reclusione dei quali ne scontò cinque. Durante il processo, Marie – Paule Lemai, dichiarò che la guerra era stata necessaria per combattere il bolscevismo che rappresentava un gran male. Dopo la scarcerazione decise di non raggiungere più Lèon Degrelle in Spagna. Nel 1935, Lèon Degrelle, fondò il movimento nazional - popolare “Rex”, caratterizzato dal misticismo cristiano e da una visione aristocratica e corporativa dello Stato che poi lo portò alla sostanziale adesione all’ideologia fascista. Alle elezioni legislative del 24 maggio 1936, riscosse un notevole successo, ottenendo più dell’undici per cento con ventuno deputati e dodici senatori. Il movimento rexista fu dotato anche un proprio giornale, dal titolo “Il Paese Reale” fondato nel maggio del 1936. Tra gli obiettivi, fungere da sostegno spirituale per i militanti e da organo d’informazione politica. Ma non solo. Lèon Degrelle condusse una violenta campagna contro gli scandali di corruzione nei quali i politi di ogni partito erano implicati presentando se stesso come il grande epuratore. Nel 1940, dopo l’occupazione del Belgio da parte tedesca, il giovane Lèon Degrelle cercò appoggi anche all’estero presso la Germania nazista e l’Italia fascista assicurando la supremazia del movimento rexista. Nel maggio del 1933, alcuni mesi prima della presa di potere di Adolf Hitler, si recò a Berlino per partecipare alle celebrazione del Primo maggio. Il 27 luglio del 1936, invece, si recò a Roma per l’incontro con Benito Mussolini e il Ministro per gli Affari Esteri, Galeazzo Ciano, che gli concesse un sostanzioso aiuto finanziario. Nell’estate del 1941 costituì una legione di volontari, perlopiù costituita dai giovani rexisti, e condusse la brigata Wallonie nell’operazione Barbarossa contro l’Unione Sovietica. Il comportamento dei valloni in battaglia fu esemplare. L’ultimo reparto a ritirarsi, retroguardia della divisione Wiking, non cedette fino a quando gli fu esplicitamente ordinato di ritirarsi. Dei duemila volontari inizialmente costituenti la brigata Wallonie, alla fine dell’agosto 1944 restarono circa un centinaio, che comunque riuscirono a bloccano l’avanzata sovietica verso Tallin. Lèon Degrelle restò ferito e, divenuto Comandante della brigata, fu decorato con la Croce di Ferro con foglie di quercia, l’unico non tedesco a ricevere quella medaglia. Terminata la guerra e condannato a morte in contumacia dal Consiglio di guerra di Bruxelles il 29 dicembre del 1944, Lèon Degrelle raggiunse, alla fine di aprile del 1945, la Danimarca e poi la Norvegia. Ad Oslo requisì un aereo leggero finendo, dopo aver sorvolato gran parte dell’Europa, per atterrare sulla spiaggia di San Sebastiano, nel nord della Spagna, avendo finito il carburante. Si stabilì a Malaga ottenendo asilo politico dal Governo Spagnolo filofascista di Francisco Franco. Dopo la Liberazione, fu chiamato in giudizio per alto tradimento. Le domande di estradizione non ebbero esito positivo, perché Lèon Degrelle rinunciò alla nazionalità belga per prendere la nazionalità spagnola tramite adozione nel 1954 e la conseguente naturalizzazione sotto il nome di Lèon Josè de Ramirez Reina. Nella notte tra il 22 e il 23 novembre del 1975 partecipò per due ore alla veglia funebre del corpo di Francisco Franco e in seguito fu colpito da una malattia cardiaca. Lèon Degrelle, il 15 giugno del 1984, si risposò con una nipote di Joseph Darnand, con la quale conviveva da molti anni. Dirigente di un movimento neonazista, divenne referente per i movimenti neofascisti europei, per i partiti dell’estrema destra e i movimenti integralisti, ruolo, che esercitò con prudenza. Si avvicinò al Fronte Nazionale francese e con grande ammirazione nei confronti di Jean – Marie Le Pen. Fino alla morte, Lèon Degrelle, esaltò i piani di Hitler e del regime nazionalsocialista. Convinto negazionista, negò soprattutto l’esistenza e la materialità dell’olocausto e in generale la concretezza dei crimini contro l’umanità imputati al regime hitleriano. Si spense la sera del 31 marzo 1994, all’età di ottantasette anni, nella clinica del parco di Sant’Antonio dove fu ricoverato alcuni giorni prima per insufficienza cardiorespiratoria. Il corpo fu cremato il giorno successivo e le ceneri disperse a Berchtesgaden.


“Un grande ideale dà sempre la forza di dominare il proprio corpo, di soffrire la fatica, la fame, il freddo. Che importano le notti bianche, il lavoro opprimente, gli affanni o la povertà! L’essenziale è avere in fondo al proprio cuore una greande forza cherianima e spinge avanti, che rinsalda i nervi, che fa pulsare a fortibattiti il sangue stanco, che infonde negli occhi il fuoco ardente e conquistatore. Allora più nulla dà sofferenza, il dolore stesso diviene gioia perchè esso è un mezzo di più per elevare il suo dono, per purificare il suo sacrificio.”

Léon Degrelle.
«Possano queste pagine, ultimo fuoco di quel che io fui, ardere ancora un momento, riscaldare ancora un istante le anime possedute dalla passione di donarsi e di credere: di credere malgrado tutto, malgrado la disinvoltura dei corrotti e dei cinici, malgrado il triste gusto amaro che ci lasciano nell’anima il ricordo delle nostre colpe, la coscienza della nostra miseria e l’immenso campo di rovine morali di un mondo che, sicuro di non avere più bisogno di salvezza, da questo trae motivi di gloria, ma deve lo stesso essere salvato. Deve più che mai essere salvato».




«L’inciucio va fermato. Così svendiamo il Pdl» Intervista a Giorgia Meloni.


On. Giorgia Meloni Pdl
La Meloni contro l’accordo Alfano-Bersani-Casini: «Si uccide il bipolarismo e sitorna indietro di vent’anni. Per disciplina di partito ho votato tutto, ma questo no»

«Per disciplina di partito ho votato tutto. Nessuno, però, potrà chiedermi di votare contro la mia storia per riportare l’Italia indietro di vent’anni, alla Prima repubblica». Perché è questo che accadrebbe, attacca Giorgia Meloni, ex ministro della Gioventù, se l’accordo sulla riforma elettorale raggiunto tra il suo partito, il Pdl, e gli altri partner della maggioranza (Pd e Udc) si trasformasse in legge.
«Bene ha fatto il segretario, Angelino Alfano, a convocare l’ufficio di presidenza per martedì 3 aprile. Le indiscrezioni sull’intesa raggiunta hanno creato solo confusione. Io per prima», rompe gli indugi il deputato proveniente da An, «se dovessi attenermi a quanto letto sui giornali, non sarei d’accordo su molte cose».

Iniziamo allora. Cos’è che non la convince dell’accordo?
«Soprattutto l’assenza del vincolo di coalizione, che ci riporta indietro di vent’anni. Il bipolarismo è stata una conquista straordinaria, una conquista figlia anche della nostra storia di centrodestra. Il diritto di conoscere, al momento del voto, chi potrà governare in caso di vittoria non può essere revocato».

Non mi dirà mica che è solo una questione di principio...
«Certo che no, c’è anche un problema di governabilità. Se queste anticipazioni fossero confermate, ci troveremmo di fronte a un paradosso».

Quale?
«Quello di concedere ai cittadiniil potere di scegliere il premier,senza concedere una maggioranza al premier. Premier che, dal giorno successivo alle elezioni, sarebbe costretto a cercarsi i numeri in Parlamento. Con il cappello in mano».

Quali le sue perplessità?
«Come sarebbe garantita la governabilità, se le coalizioni si formassero solo in un secondo momento, senza neanche essere vincolate da un programma elettorale condiviso?».
I sostenitori della riforma sostengono che in questo modo si supererebbe il “bipolarismo muscolare”, in favore di coalizioni più omogenee.
«Nessuno nega che il sistema attuale, come dimostra quanto accaduto dal 1994 ad oggi, sia incompiuto. Ma ci siamo dimenticati di quello che accadeva nella Prima repubblica? Dei 51 governi in 48 anni? Un sistema instabile in cui il popolo non aveva alcuna voce in capitolo,visto che tutto si decideva nei Palazzi. Io indietro non ci voglio tornare».

È contraria pure alla restituzione ai cittadini del diritto di sceglierei deputati con i collegi?
«Dire che i collegi restituiscono la libertà di scelta agli elettori è una forzatura. È sempre il partito, infatti, a decidere a monte chi è eletto e chi no. E poi mettiamoci nei panni dei nostri elettori...».

Fatto: che succede?
«Se in un determinato collegio c’è un solo candidato, e quel candidato non gli piace, che alternativa ha? Votare il candidato del Pd? Non scherziamo. L’unica scelta che gli resta è quella di non votare».

Meglio le preferenze, allora?
«Assolutamente sì. Quale migliore capacità di scelta che scrivere il nome del parlamentare sulla scheda? È ora di sfatare il mito propagandato dai detrattori della preferenza».

Quale mito?
«Quello secondo cui la preferenza sarebbe portatrice delle peggiori nefandezze, su tutte il clientelismo. La preferenza è il male assoluto? Bene: allora eliminiamola anche per le elezioni comunali, regionali ed europee.Non si capisce perché la corruttibilità rappresenti un rischio per i candidati a discutere, che so, di riforme costituzionali e non per chi concorre per occuparsi, nelle realtà locali, di bandi e lavori pubblici».

Nell’intesa c’è anche spazio perl’abbassamento dell’età per essere eletti in Parlamento. Da ex ministro della Gioventù dovrebbe approvare.
«Passi per i 21 anni necessari per diventare deputato, ma 35 per diventare senatore sono troppi. Da ministro sono stata promotrice di una legge costituzionale per introdurre la corrispondenza tra elettorato attivo e passivo. Quando un elettore vota, deve essere anche eleggibile. Invece, da quello che leggo, ancora non sarebbe così. Posso sapere per quale motivo, per altro senza il bicameralismo perfetto, un cittadino non può occuparsi, al Senato delle regioni, delle materie concorrenti prima di aver compiuto 35 anni? L’età per essere eletti a Palazzo Madama va abbassata».

Quali che siano le obiezioni, vi conviene fare in fretta: secondo il premier, Mario Monti, i partiti non hanno consenso, mentre lui ce l’ha...
«Il presidente del Consiglio si ricordi che l’unico consenso certificato che lui può vantare è quello che gli hanno espresso i partiti».

Non è che i mugugni di molti di voi ex An sono figli della tensione con i vostri colleghi ex forzisti, tornati a gonfiare il petto? Ieri Giancarlo Galan ha consigliatoa Silvio Berlusconi di tornare a Forza Italia.
«Noi che proveniamo da Alleanza Nazionale siamo quelli che hanno rischiato di più dando vita al Pdl. Abbiamo messo in gioco la nostra storia per una nuova esperienza.  Esperienza nella quale continuiamo a credere. Se qualcuno ritiene che il progetto del Pdl non sia più valido, faccia le proprie scelte. Ma non chieda a noi di fare passi indietro».

Fonte: Libero.it

mercoledì 28 marzo 2012

Scandale - La Maggioranza (PD) si divide e va sotto.


Consiglio Comunale 27 Marzo 2012
(Foto di Rosario Rizzuto)
Nel consiglio comunale del 27 Marzo 2012 la maggioranza (PD) mostra segni di cedimenti. Infatti all’interno della stessa si è creato un nuovo gruppo denominato “Misto” tutto al femminile composto da Maria Luisa Artese, in predicato di fare l’assessore ma mai nominata, e da una ex piddina Stefania Salerno. Gruppo, a loro dire leale alla maggioranza, si è costituito per motivi ancora non chiari ma in realtà la spaccatura nasce un anno fa sin dall’inizio della legislatura per il sopracitato motivo, insomma roba da Prima Repubblica. Fin qui tutto normale, o quasi, come nelle migliori tradizioni delle amministrazioni di centro-sinistra.
Arrivati all’approvazione dei debiti fuori bilancio il gruppo Misto si astiene, con lo sconcerto della giunta,  insieme all’opposizione mandando così in crisi la maggioranza, sconfitta causata anche dall’assenza di ben tre consiglieri del PD.
Alla fine i debiti fuori bilancio vengono approvati grazie ad un’interpretazione alternativa dello statuo comunale, da parte della segretaria comunale, per quanto concerne l’astensione al voto.
Ormai un anno è passato dal loro insediamento e nulla è cambiato a Scandale anzi…  in questo anno abbiamo visto soltanto demagogia. Siamo stufi di sentire e parlare ancora di debiti della precedente amministrazione perché non può essere una valida  giustificazione per i restanti quattro anni (debiti che non sono stati illustrati in modo chiaro ai cittadini di Scandale).
Sindaco Vasovino se la sua Giunta non ha i numeri e le idee per risollevare la nostra Comunità specie in questo tempo di crisi, l’unica soluzione valida e alternativa sono le sue dimissioni!

Antonello Voce
Presidente circolo "Paolo Di Nella"
Giovane Italia Scandale                                                                                                                                   

Tibetano si auto-immola davanti al parlamento. Siamo all'altezza di questa battaglia?



A volte viene da chiedersi: siamo all'altezza di questa battaglia?

New Delhi ( AsiaNews) - Un giovane attivista tibetano si è auto immolato questa mattina a New Dheli, davanti al parlamento indiano. Il rogo è avvenuto durante una protesta di oltre 600 esuli contro la visita in India di Hu Jintao, presidente cinese, in programma nei prossimi giorni. Ciampa Yeshi, 26 anni, è ora ricoverato in ospedale in condizioni critiche. Le ustioni coprono l'85% del suo corpo. Egli è il secondo tibetano a darsi fuoco in India. L'uomo era fuggito dal Tibet cinque anni fa e viveva nella periferia di New Delhi. Per i prossimi giorni le autorità prevedono nuove e più violente manifestazioni. Oggi la polizia ha circondato la villa dove avverranno gli incontri fra Hu Jintao e le autorità indiane.

Negli ultimi mesi decine di giovani tibetani, monaci e laici, hanno scelto l'autoimmolazione per chiedere la fine della repressione di Pechino e il ritorno del Dalai Lama in Tibet. Nonostante, le numerose proteste e i continui appelli di organizzazioni e Paesi stranieri, la polizia cinese continua ad arrestare e a sequestrare chiunque manifesti dissenso.

Il 23 marzo scorso gli agenti hanno fatto irruzione nel monastero di Bora (Sangchu, Regione autonoma del Tibet), prelevando quattro monaci: Sangyal Gyatso, 30 anni; Kelsang Lodoe 23 anni; Sonam aged 20 anni: Tashi Gyatso 22 anni. La polizia non ha ancora comunicato alle famiglie il luogo di detenzione. 

Lo scorso 20 marzo essi avevano partecipato a una grande manifestazione per il ritorno del Dalai Lama, il diritto alla libertà religiosa e all'insegnamento della lingua tibetana. Poco dopo le proteste, gli agenti hanno fermato oltre 40 persone, che sono state rilasciate dopo diverse ore grazie alla mediazione di Gyal Khenpo, ex  abate del monastero di Labrang Tashikyil (prefettura di Kanlho, Gansu). (N.C.)


Silvestri, eroe per la Patria.



Un “operatore di pace”, un militare che “distribuiva cibo alla povera gente”. E’ l’estremo saluto pronunciato dall’ordinario militare, monsignor Vincenzo Pelvi, in memoria del sergente Michele Silvestri, la cinquantesima vittima italiana in Afghanistan, morto sabato scorso nell’attacco a colpi di mortaio che ha colpito la base ‘Ice’, avamposto della missione italiana nel Gulistan. Presente ai funerali solenni, nella basilica di Santa Maria degli Angeli, anche il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, che ha abbracciato i parenti del soldato. La salma del soldato, 33 anni, è giunta in mattinata all’aeroporto di Ciampino avvolta nel tricolore. Ad accoglierla, oltre ai familiari, il ministro della Difesa, Giampaolo Di Paola, il capo di Stato Maggiore della Difesa, generale Biagio Abrate e i più alti vertici delle forze armate. Gli onori militari sulla pista sono stati resi da un picchetto del 21/o Genio Guastatori di Caserta, cui apparteneva Silvestri. Alle 16 è stata allestita la camera ardente all’ospedale Celio. Nel pomeriggio i funerali solenni. La basilica era gremita: tanti i militari presenti, ma anche gente comune. Tra le autorità, oltre a Napolitano e Di Paola, il presidente del Senato, Renato Schifani, il presidente della Consulta Alfonso Quaranta, i ministri Elsa Fornero, Pietro Giarda, Corrado Passera, il presidente del Copasir, Massimo D’Alema, il sindaco di Roma, Gianni Alemanno. La bara, portata a spalla dai commilitoni, è stato deposta di fronte all’altare; sopra, una foto del soldato, il berretto ed una Bibbia.
Sono stazionarie, intanto, le condizioni dei due soldati rimasti feriti in modo grave nell’attacco alla base Ice: il caporal maggiore Monica Graziana Contrafatto ed il maresciallo Carmine Pedata. Non sono in pericolo di vita, sono stabili ed in terapia intensiva nell’ospedale da campo americano Role 3 a Baghram. Non appena le loro condizioni lo permetteranno, saranno trasferiti in Germania, presso l’ospedale militare di Ramstein.

martedì 27 marzo 2012

Quei nostalgici che non si rassegnano al tramonto delle idee.



Eccoli, i nostalgici. Dopo la guerra, finito il fascismo, un gruppo di ventenni che avevano appena sfiorato da ragazzi la Repubblica Sociale, si ritrovano in gruppi, cenacoli, riviste. Il Msi, per loro è troppo poco, è un partito, roba da parlamento, mentre loro vogliono essere un’aristocrazia, il fior fiore. Per esempio I figli del Sole. Un nome pagano, quasi esoterico, che scopre Julius Evola e Massimo Scaligero. Il loro leader è Enzo Erra, vi aderiscono Pino Rauti, Giano Accame, Fausto Gianfranceschi, Primo Siena. A fianco, in quel piccolo ma vivacissimo mondo, altre testate, altri ragazzi nostalgici sfidano il loro tempo: Piero Buscaroli, Silvio Vitale, Clemente Graziani, Gabriele Fergola, Vanni Teodorani, Roberto Melchionda, Fabio De Felice, Fausto Belfiori, Egidio Sterpa, Franco Petronio, Angelo Ruggiero e tanti altri. Di loro racconta la storia e le succinte biografie un libro-amarcord appena uscito di Sergio Pessot e Piero Vassallo, I figli del Sole (Novantico Editore, pagg. 280, euro 22).

Quel piccolo mondo in realtà è diviso in tre filoni culturali: quello sociale e nazionale che si richiama a Gentile, quello aristocratico-pagano che si richiama a Evola, quello cattolico tradizionale. A volte si accendono dispute anche furenti. A chi, come Mirko Tremaglia, all’epoca militante nella sinistra missina, ironizza sui figli del sole, Accame replica che loro invece, i fascio-sociali, sono «figli dell’intestino».

In questi stessi giorni, uno di loro, che vive ormai da decenni in Cile ma ha lasciato il cuore in Italia e in quell’Italia, Primo Siena, dedica un libro a La perestroika dell’ultimo Mussolini (Solfanelli, pagg. 282, euro 19). Arricchito da una prefazione di Giuseppe Parlato, il libro di Siena, oggi 85enne, ipotizza come si sarebbe evoluto il fascismo senza il trauma finale: dal cesarismo dittatoriale verso una democrazia organica. La linea di Salazar e Dollfuss e in parte di Franco. Fondatore nei primi anni ’50 di una rivista, Cantiere, e poi a fianco di Gaetano Rasi con Carattere, Siena cerca di unire la sua idea sociale, nazionale e cattolica.

Un altro libro nostalgico ci riporta a quegli anni: è Perché uccisero Mussolini e Claretta (Rubbettino, pagg. 216, euro 16) di Luciano Garibaldi e Franco Servello che nella sua ultima edizione riporta documenti rilevanti sulle omissioni e le responsabilità del Pci non solo nell’uccisione di Mussolini e della Petacci ma anche nella sparizione del cosiddetto oro di Dongo. Il libro ripercorre un’inchiesta che fece nell’immediato dopoguerra Franco De Agazio, zio di Servello, che fu ucciso per le sue scottanti indagini dalla Volante rossa nel 1947.

I figli del Sole, il sogno proibito dei nostalgici, il ricordo di De Agazio e di molti scrittori e giornalisti morti negli ultimi tempi (Accame, Erra, Gianfranceschi), l’estrema, tenace memoria degli ultimi testimoni. La Spoon River di una generazione fiera che non diventò classe dirigente politica ma si disperse in tanti rivoli, pur serbando una disperata coerenza.

di Marcello Veneziani

La Destra prima della Fiamma.



La Biblioteca Scientifica della fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice ha pubblicato "La destra prima della fiamma" interessante saggio di Guido Jetti, dedicato alla storia del Partito fusionista italiano, la prima organizzazione politica di destra costituita in Italia dopo la crisi del fascismo.

La storia del Pfi ebbe inizio nel 1944 nella Bari occupata dagli angloamericani, città in cui Pietro Marengo, un ex combattente dotato di straordinaria attitudine al giornalismo, fondò e diffuse un foglio semi clandestino e cautamente postfascista, Il Manifesto.

Nelle dichiarate intenzioni di Marengo, Il Manifesto, uscito dalla clandestinità nell'aprile del 1945, doveva diventare "il giornale degli italiani che non hanno perduto la fiducia, che credono in una nuova Italia, non in una povera Italia".

Di qui la rivendicazione del nazionalismo professato dal partito di Corradini, Federzoni e Paolucci, "assorbito di malavoglia nei ranghi fascisti, dopo la marcia su Roma".

Marengo non risparmiava critiche al regime fascista e tuttavia chiedeva al governo di "perdonare con una larga, generosa, indimenticabile amnistia i fascisti. Perdonate tutti coloro che agirono in buona fede, tutti coloro che le esigenze della vita costrinsero a percorrere una strada che, senza Mussolini e la guerra, non avrebbero mai percorso".

In una fase storica segnata dagli eccessi dell'antifascismo, l'impresa giornalistica di Marengo riscosse uno straordinario successo nella società dei benpensanti. Il numero dei lettori fu talmente alto da suggerire la fondazione di un partito, il Partito fusionista italiano, che si costituì ufficialmente a Bari nell'aprile del 1946.

Nella vasta e fluida area occupata dai potenziali elettori di destra si muovevano intanto alcune personalità dotate di attitudini alla propaganda, di senso storico (Carlo Delcroix aveva insegnato loro che la politica non si fa contro la storia) e di esperienza organizzativa, quali Guglielmo Giannini, Pino Romualdi (nella foto n.d.r.), Franco De Agazio, Giovanni Tonelli, Emilio Patrissi, Alberto Giovannini.

Le elezioni comunali dell'ottobre 1946 dimostrarono che l'elettorato di destra possedeva i numeri necessari a condizionare e da correggere la Dc, un partito disturbato dalle suggestioni del progressismo.

Purtroppo le rivalità impedirono la costituzione di un'alleanza tra i movimenti della destra, avviando quella devastante macchina delle rivalità che spianò la strada all'affermazione dei partiti nostalgici, espressione di una destra destinato all'emarginazione. Una soluzione favorevole al desiderio democristiano di non avere efficaci concorrenti a destra. Desiderio appagato dal voto del 18 aprile del 1948 che segnò la frantumazione-contrazione della destra i tre liste, Blocco nazionale, Partito nazionale monarchico e Movimento sociale, che ottennero complessivamente 39 seggi contro i 305 della democrazia cristiana.

Il testo di Jetti costituisce un prezioso contributo all'accertamento degli errori all'origine del naufragio della destra politicante e dello scialo insensato dell'ingente eredità del Novecento italiano. L'insuccesso del partito di Pietro Marengo segna l'inizio dell'implosione e della conseguente metamorfosi liberale della destra italiano. Non tutto il male vien per nuocere, tuttavia: la parabola della falsa destra, ultimamente affondata nelle sabbie mobili della finanza iniziatica, suggerisce una riflessione sull'ideale fusionista - il ritorno del patriottismo alla radice cattolica - che fu anticipato da un collaboratore del Manifesto, Mario Giordano, il quale proclamava: "Isseremo la bandiera della Patria e accanto alzeremo la Croce, perché sulla nostra bandiera vi sia la luce di Dio nostro Signore".

di Piero Vassallo

lunedì 26 marzo 2012

Nel silenzio del mondo, il Tibet muore.



C’è un pesante velo di silenzio che i media hanno gettato sulla questione tibetana solo perchè oggi la Cina è la maggiore potenza commerciale al mondo e l’unica capace di reggere i destini del capitalismo. Se contro Gheddafi sono stati inviati i bombardieri, contro l’Iran e la Siria sono state imposte sanzioni e nelle Seychelles sono arrivate prontamente le delegazioni diplomatiche, viceversa nessuno si preoccupa per il Tibet.
La Cina sta svolgendo una vera e propria puliza etnica in quel Paese che risulta sotto pesante occupazione militare. Le persone, soprattutto monaci e monache vengono arrestati senza motivo apparente e reclusi nei “centri di rieducazione” cinesi mentre enormi orde dell’etnia cinese Han vengono inviate a colonizzare il territorio tibetano. L’unica preoccupazione per la Cina è il fenomeno delle auto-immolazioni, in uso da qualche settimana, che vede i monaci tibetani darsi fuoco agli incroci delle strade con la polizia che non riesce a fermarli e non ne capisce le gesta. La comunità internazionale? In silenzio, come se nulla fosse: forte con i deboli (Gheddafi) e debole con i forti (la Cina).

Intervista a Karma Dorjee, giornalista di Radio Free Asia che tutti i giorni è a contatto con chi abita nel Tibet occupato e che il governo cinese ha chiuso al resto del mondo. «Hanno circondato monasteri e città, chiuso strade e scuole, sequestrato persone. Non le fanno neanche uscire di casa e non restituiscono i cadaveri delle vittime alle famiglie».

«Le autorità cinesi non sanno come reagire alle auto immolazioni, non capiscono quello che sta succedendo. Per precauzione, secondo i nostri informatori, hanno inviato nelle aree tibetane migliaia e migliaia di soldati, hanno circondato monasteri e città, chiuso strade, scuole, università, sequestrato persone». Sapere che cosa succede in Tibet in questi giorni è quasi impossibile. Nelle principali città tibetane come Lhasa, dove un tempo risiedeva il Dalai Lama, e in quelle dove la tensione è più alta come Aba, in Sichuan, nessuno può entrare: né i cinesi, né tanto meno i giornalisti. Nell’ultima settimana, infatti, tre persone si sono date fuoco per protestare contro la repressione fisica e culturale dei tibetani da parte di Pechino e il governo ha letteralmente sigillato le aree più sensibili. Sono già 26 le persone che dal 2009 si sono uccise auto immolandosi.
Se possibile, negli ultimi giorni, la dittatura comunista ha aumentato le restrizioni alla libertà dei tibetani. Il 10 marzo, infatti, è l’anniversario della grande rivolta del 1959 repressa nel sangue dal regime, che ha ucciso più di 80 mila persone costringendo il Dalai Lama a fuggire in India. Ma sempre il 10 marzo Pechino ha represso nel 2008 una manifestazione pacifica che ha fatto esplodere la rabbia dei tibetani. Negli scontri con la polizia dei giorni seguenti, più di 100 tibetani sono rimasti uccisi. «È difficile dire se ci saranno scontri anche quest’anno» dichiara a tempi.it Karma Dorjee, giornalista di Radio Free Asia che ogni giorno è in contatto con fonti che si trovano nelle aree tibetane che la Cina ha chiuso al resto del mondo. «Però sappiamo come si sta preparando la Cina».
Quali precauzioni ha preso il governo cinese?
Per evitare proteste di massa, secondo informazioni che abbiamo appena ricevuto, le autorità hanno bloccato tutte le vie che portano alla città di Lhasa e alla parte occidentale del Tibet. Hanno anche chiuso le strade principali di città come Lhasa o Aba. Nessuno potrà recarsi in quei luoghi per almeno una settimana. Le università nella capitale della Regione autonoma tibetana, inoltre, sono state chiuse venerdì scorso e gli studenti che risiedono lì sono stati messi in quarantena all’interno del campus universitario e non potranno uscire per diversi giorni. Anche le scuole e i monasteri sono stati letteralmente circondati dalla polizia. Tutto questo, ovviamente, in aggiunta alle normali misure di sicurezza.
Per saperne di più
LEGGI - «Ecco perché i tibetani si danno fuoco»
Quali sono le “normali” misure di sicurezza?
Hanno inviato migliaia di soldati a presidiare le zone più a rischio, hanno imprigionati tantissimi tibetani e studenti a Lhasa. Non sappiamo per quanto ma secondo alcune informazioni che abbiamo ricevuto saranno tenuti in prigione almeno fino alla fine di marzo, qualcuno anche fino a maggio. A molti tibetani che si trovano in altre parti della Cina, non è stato concesso di tornare a casa per il nuovo anno. Senza contare che a loro è proibito muoversi liberamente da un’area all’altra, monaci e monache nei monasteri sono presi di mira e anche gli studenti hanno poca libertà di movimento.
Non ci sono rivolte?
La settimana scorsa, a causa di queste restrizioni, in una scuola di una città di cui non posso fare il nome una studentessa ha protestato e si è data fuoco. Quella scuola è stata circondata dalla polizia e non hanno permesso ai familiari di contattare i loro figli, così come ai loro figli non è permesso di uscire. Succedono spesso cose come questa e forse sono ancora adesso chiusi lì dentro. In più, i genitori hanno richiesto alle autorità il corpo della figlia ma la polizia ha risposto che se volevano il corpo, dovevano firmare una lettera in cui dichiaravano che quel gesto non era stato commesso per ragioni politiche, altrimenti non gliel’avrebbero restituita. Chissà quante altre cose succedono, ma è difficile saperlo visto che nessuno può entrare in quelle città. Dopo l’incidente la città è stata chiusa dai militari.
Perché le auto immolazioni sono aumentate così tanto negli ultimi mesi?
Per tutti i tibetani, ma soprattutto per quelli che abitano in città come Aba o Tangu, sembra che non ci sia alternativa. Quello che i tibetani vogliono davvero è praticare la loro religione tranquillamente, vivere pacificamente ed essere liberi, dovunque si trovino. Quando questi desideri non vengono corrisposti e vedendo che ogni volta che hanno protestato in gruppo sono stati schiacciati, uccisi e portati via, l’unica alternativa per loro sembra darsi fuoco e provare così a creare un caso per inviare un messaggio forte al governo cinese e a tutto il mondo. I cinesi non capiscono bene quello che sta succedendo ma se non fanno i conti con quello che vogliono i tibetani, le auto immolazioni aumenteranno.
Il governo è solito accusare «la cricca del Dalai Lama» per le auto immolazioni. Pechino sostiene che la guida spirituale del Tibet non ha rispetto della vita umana e incita le persone a darsi fuoco.
Il Dalai Lama è in India, le auto immolazioni avvengono in Tibet. Lui non c’entra niente, anzi, di solito chiede alle persone di non agire in questo modo. L’unica cosa che ha detto ultimamente durante una visita in Giappone è che i tibetani sono portati ad uccidersi a causa della politica cinese e che l’unica soluzione è un cambiamento da parte di Pechino.
C’è stato qualche passo avanti nel dialogo tra il governo tibetano in esilio in India e il regime comunista?
No, nessuno. Non c’è spazio per il dialogo. Il Dalai Lama ora si è ritirato dalla scena politica ma il primo ministro tibetano, che è il capo del governo in esilio, non è riconosciuto dalla Cina e quindi non c’è neanche la possibilità del dialogo. È un vicolo senza uscita, non vedo nessuna possibilità per il futuro.
Però la Cina è preoccupata dal fenomeno delle auto immolazioni.
Certo, perché non sa come fermarlo. I cinesi sono abbastanza confusi, provano ad arginare questo fenomeno ma non ci riescono perché sono i singoli individui che si danno fuoco, senza danneggiare nessuno se non loro stessi e non portano armi. Esprimono solo la loro sofferenza. Ed è per questo che Wen Jiabao ha addirittura chiesto al Panchen Lama (la seconda autorità spirituale dopo il Dalai Lama per il buddismo tibetano, ndr) di farli smettere. Ma è inutile perché i tibetani non riconoscono “quel” Panchen Lama, che è stato nominato da Pechino (mentre il vero Panchen Lama, Gedhun Choekyi Nyima, nominato dal Dalai Lama si trova in una prigione sconosciuta dal 1995, ndr). Non sanno quindi come fare a fermare le auto immolazioni. L’unico modo sarebbe abbandonare il loro orgoglio e il loro ego.
La maggior parte delle auto immolazioni è partita dal monastero Kirty.
Sì, è uno dei maggiori monasteri tibetani e si trova nella prefettura di Aba. Qui vivono, o meglio vivevano, circa 2.500 monaci e hanno subito una dura repressione dopo che l’anno scorso, a marzo, un monaco di nome Phuntsog è uscito per protesta dal monastero, si è seduto in mezzo a un incrocio e si è dato fuoco. Allora le autorità hanno reagito, hanno messo in sicurezza il monastero, l’hanno circondato, sono entrati e hanno arrestato e portato via più di 300 monaci. Oggi in Aba vige la legge marziale e c’è un’ingente presenza di militari nell’area, ci sono barricate e strade bloccate.
Che cosa succede ai monaci arrestati?
Di solito vengono detenuti e subiscono sessioni di rieducazione politica. Monaci e monache devono leggere degli opuscoli e sono costretti ad affermare che il Tibet è una parte storica della Cina, devono ammettere che i tibetani sono progrediti moltissimo da quando la Cina li ha occupati nel 1950 e devono criticare il Dalai Lama per la sua attività di separatista. Poi devono firmare tutte queste dichiarazioni. Bisogna pensare che queste cose sono molto difficili e dolorose per un monaco o una monaca, se si considera l’importanza per loro del Tibet e della figura del Dalai Lama, la loro guida spirituale.
Il monachesimo tibetano è a rischio?
Sì. In Tibet il governo cinese ha posto restrizioni, così che un monastero non può ospitare più di un certo numero di monaci. Sotto i 18 anni i giovani sono obbligati ad andare a scuola e non possono entrare in monastero. Anche quelli che sono già monaci devono registrarsi e ricevere un numero identificativo, devono portare una carta di riconoscimento.
Anche cultura e lingua tibetane sono in pericolo?
In Tibet ci sono scuole per cinesi di etnia han, che il governo manda in massa in quelle zone perché le conquistino “culturalmente”, per tibetani e istituti misti. L’anno scorso è passata una legge che stabilisce che materie come scienze, letteratura, matematica o geografia non possono essere insegnate in tibetano ma solo in cinese. Gli insegnanti e gli studenti hanno protestato in massa l’anno scorso per questo, senza ottenere alcun risultato. L’obiettivo del governo comunista è quello di far scomparire la lingua e le tradizioni tibetane.

Fonte: Tempi.it

Liberté, égalité… impérialisme.



La Francia, che ormai da qualche anno ha rispolverato le sue antiche e mai sopite mire imperialistiche, dopo aver gettato nel caos Tunisia e Libia ha favorito il colpo di stato in Mali ad opera dell’esercito nazionale. Il presidente è stato arrestato e la costituzione sospesa. Anche grazie alla crisi economica, Sarkozy sembra essersi montato la testa con l’obiettivo di restaurare il regime delle colonie africane come nel ‘800 ma in modo soft, senza metterci la faccia…ma gli artigli sì.

Momenti di forte tensione nel Mali, dove un gruppo di militari ha annunciato, tramite la radio e la tv di Stato, di aver preso il potere ponendo “fine al regime incompetente di Bamako” (la capitale del Paese) e di aver “sospeso la Costituzione” dopo l’attacco alla presidenza.
Il tenente Amadou Konare fa sapere che sono state “sciolte tutte le istituzioni”, che è stato imposto il coprifuoco e che verrà formato un governo di unità nazionale per organizzare elezioni quanto prima. Konare ha voluto precisare, inoltre, la ragione che ha spinto i militari all’azione: il malcontento sempre più diffuso ei confronti del presidente Amadou Toumani Tourè, al potere dal 2002 (generale dell’esercito, nel 1991 aveva rovesciato il governo di Moussa Traoré, contribuendo poi alla scrittura della Costituzione, guadagnandosi l’appellativo di “soldato della democrazia”).
I militari, che hanno preso il potere dopo ore di combattimenti, contestano ha denunciato duramente l’incapacità del presidente destituito di fare fronte alla crisi nel nord del Paese, dove da metà gennaio è in corso un duro conflitto trale forze governative e i ribelli Tuareg, che chiedono l’indipendenza. Secondo i militari il governo è stato troppo debole, negando ai soldati i mezzi e le risorse necessarie a stroncare la rivolta secessionista. Konare ha  denunciato anche l’incapacità del potere nella lotta contro il terrorismo.
Diversi esponenti dell’amministrazione di Tourè sono finiti in manette: tra questi il ministro degli Esteri, Soumeylou Boubeye Maiga, e il ministro della Gestione del territorio, Kafougouna Konè. Non si sa ancora nulla sulle sorti di Tourè. In Mali le elezioni presidenziali erano previste per il 29 aprile. Difficile, anzi impossibile, a questo punto, che a decidere le sorti del Paese siano i cittadini. Almeno in tempi rapidi.
Parigi auspica elezioni “prima possibile” nel Mali. A dichiararlo è il ministro degli Esteri francese Alain Juppè: “Teniamo al rispetto delle regole democratiche e costituzionali. Chiediamo il ritorno all’ordine costituzionale, delle elezioni, erano in agenda per aprile, devono svolgersi prima possibile”.
“Profonda preoccupazione” arriva dall’Unione africana. In un comunicato il presidente della Commissione dell’Unione Africana, Jean Ping, si dice “profondamente preoccupato per le riprovevoli azioni commesse da alcuni elementi dell’esercito del Mali”. Ping condanna inoltre “ogni tentativo di prendere il potere con la forza”.


domenica 25 marzo 2012

Follia UE inarrestabile: dopo Dante tocca a Montalbano.



I pazzi, si sa, andrebbero assecondati. Questo almeno in base a quella ineffabile e lungimirante saggezza popolare che si fondava, oltre che su una profondissima capacità ermeneutica della realtà, su un assunto consolidato e non soggetto, pertanto, a contraddittorio alcuno: i pazzi non governavano, non redigevano disciplinari, non legiferavano.

Ora, fatta salva la bontà intrinseca del suddetto adagio popolare che ci ricorda amaramente tempi più civili e vivibili, che fare quando agli squilibrati viene attribuito un potere assolutamente fuori controllo?

Semplice: si reagisce con tutta la necessaria brutalità, dialettica si intende, che l’emergenza richiede.

Sono trascorse poche settimane da quando il “comitato per i diritti umani” Gherush92 ha avanzato la proposta di censurare la Divina Commedia in quanto latrice di contenuti “razzisti, antisemiti e omofobi”. Comitato, per altro, che svolge funzione di consulenza per le Nazioni Unite e si occupa di “progetti di educazione allo sviluppo”, qualunque cosa ciò possa significare, attività che saremmo davvero curiosi di sapere quanto e come viene retribuita (una parentesi personale al riguardo: il prossimo che attacca le retribuzioni dei nostri Parlamentari in mia presenza scoprirà nuovi e letali significati della parola “turpiloquio”). La “proposta” promossa dalla presidente di Gherush92, Valentina Sereni, ha ovviamente acceso un “dibattito”. Non c’è da stupirsi: in una realtà euro/mondiale ultrasecolarizzata dalla globalizzazione finanziaria è ovvio che i sicofanti ansiosi di farsi belli agli occhi del tiranno del caso non manchino mai e vadano inevitabilmente in solluchero di fronte alla possibilità di riscrivere il passato “attualizzandolo” e adeguandolo ai comandamenti del nuovo idolo, del feticcio tribale che chiamiamo eufemisticamente “politically correct”.

Dante, in ogni caso, è sopravvissuto al ’68: dovrebbe farcela anche questa volta.

Nella peggiore delle ipotesi ci candideremo a diventare tutti, almeno noi Italiani di buona volontà, uomini-libro in stile Ray Bradbury e a tramandarne l’impareggiabile insegnamento nelle catacombe: luogo ove, comunque, si respira aria più salubre rispetto a Bruxelles…

Ma, o potenza della fiction televisiva, l’attacco perpetrato dal commissario europeo per la pesca Maria Damanaki contro il commissario Montalbano e il suo padre letterario Andrea Camilleri ha generato una levata di scudi unanime e trasversale: passi Dante omofobo, ma mettere in discussione l’attitudine “equa&solidale” del poliziotto siciliano proprio no! La reazione della Rete è stata paragonabile al lutto nazionale conseguente alla morte del Commissario Cattani ne “La Piovra”.

Questo il casus belli: durante una “conferenza sulla biodiversità nel Mediterraneo” promossa, per altro, dall’eurodeputata ed ex candidata sindaco a Palermo Rita Borsellino, la sig.ra Damanaki ha sostenuto che esiste un grave problema, ovvero che «il commissario mangia novellame di pesce!”. Per questo motivo ella ha comunicato di aver già scritto una lettera a Camilleri per chiedergli di “non permettere al suo personaggio di mangiare novellame, una cosa inaccettabile nel Mediterraneo».

Ancora non è giunta risposta da parte del veterocomunista Camilleri: siamo quasi certi, tuttavia, che egli difficilmente trasformerà il suo rude commissario in un ambiguo ed efebico vegano. Speriamo, almeno.

Ma analizziamo punto per punto il contesto, parolina magica dopo parolina magica: “commissario UE”, “conferenza”, “biodiversità, “Mediterraneo”, “Borsellino”.

Un insieme di locuzioni che, già per come sono accostate dovrebbero destare allarme e preoccupazione in ogni persona di elementare buon senso e spingerla a prodursi in gesti apotropaici non qui riferibili per motivi di decenza.

Perché proprio convention e kermesse di tal fatta sono la nuova e pericolosissima fucina ideologica ove vengono amorevolmente fertilizzate e coltivate idee infami destinate, una volta germogliate, a convertirsi in legge. Leggi sempre più cogenti e compressive, data la sindrome da immunodeficienza europea di cui il nostro Paese soffre in questo periodo, presi come siamo a volerci quotidianamente dimostrare più Europei degli Europei stessi, i quali, per inciso, non esistono neppure come popolo unitario.

Eppure alla carica ipnotica, alla suggestione subliminale di parole avvelenate come “conferenza” e “biodiversità” ci inchiniamo volenterosi, come ostaggi vittime della sindrome di Stoccolma: piuttosto che sviluppare, come Natura vorrebbe, robusti anticorpi e agguerriti linfociti contro quest’insinuante neoplasia europeista preferiamo firmare una delega in bianco, consegnarla ad una torma di abominevoli barbari e attendere, rassegnati e sconfitti, la cachessia.

In conclusione, due parole sulla signora Damanaki: indovinate da quale matrice poteva essere generata cotal commissaria?

Esatto: membro della Gioventù Comunista Greca, sezione giovanile del KKE, è stata in seguito leader del “Synaspismos”, partito di sinistra radicale ecologista (la versione ellenica di SEL, insomma. Solo più incazzati).

Come tutti coloro che hanno fatto le “scelte giuste” in tempi non sospetti, ella ha trovato comodo e ben retribuito accasamento nell’organigramma della UE.

Domanda: a breve Rai Uno trasmetterà l’ennesima rivisitazione televisiva di Nero Wolfe, acutissimo detective, misogino radicale (ma, colpa gravissima, non gay) e sublime esteta della buona tavola. Di fronte a quel tripudio di aringhe affumicate, patés di proibitissima selvaggina, aironi farciti e strage di delicatissime uova di pesce (altro che novellame!) cucinate dal buon Fritz, è lecito supporre che la signora Damanaki abbia già bell’e pronta da spedire un’altra mozione di sentimento? E visto che Rex Stout ci ha lasciato nel 1975, toccherà forse a Paolo Garimberti rispondere a tono alle ubbie di questa pitonessa?


Una volta a dirci bugie c’erano gli spot elettorali, oggi c’è lo spread.




Come è possibile che ad ogni sussulto di democrazia si impenni lo Spread?
Perché oggi dobbiamo essere schiavi, sudditi di un indice indicativo del nulla?
Fino a pochi mesi fa ricordo che i governi venivano eletti democraticamente, c’era una sfida elettorale, c’erano gli spot e i trucchi tirati fuori dal cilindro all’ultimo momento per catturare gli indecisi, insomma i cosiddetti “ignavi” che han sempre determinato la vittoria o la sconfitta di un fronte piuttosto che dell’altro.

Poi per quattro Governi Berlusconi (uno bis) qualunque cosa si fosse fatta veniva demonizzata, calpestata. Giusta o sbagliata che fosse, ogni azione di uno staff suffragato da milioni di cittadini che barravano un simbolo con la scritta  “Berlusconi Presidente” sicuramente non aveva legittimità morale, etica e giuridica per fare riforme o cambiare lo status quo.

D’improvviso lo Spread (ovvero un differenziale tra il rendimento di titoli di Stato) inizia a riempire le cronache nazionali ed europee. I titoli dei giornali non parlano d’altro, l’Europa non fa che progettare misure per calmierare un indice sbilanciato rispetto al rendimento dei Bund tedeschi, il “popolo della libertà”, il Cavaliere e tutti coloro che da sempre han gridato “Rispetteremo il mandato popolare; Sono unto dal Signore; Berlusconi od elezioni” si sono chinati ai dettami della finanza.

Il centro-destra ed il carisma del suo leader non sono stati lesi da Repubblica, il gossip, la magistratura e vent’anni di inchieste con avvisi di garanzia e ruby-gate vari. No, l’unico episodio che con un dito ha smosso ciò che sembrava la più grande maggioranza della storia repubblicana è stata la crisi finanziaria mascherata e pilotata tramite le agenzie di rating e le Banche internazionali.

Italia, Grecia, Spagna. Paesi diversi con storie simili, stiamo vivendo da anelli deboli di una catena, o da cavie per cui diventa lecito qualunque atto d’esproprio di una sovranità sempre più sofferente dinanzi alle istituzioni.  Tuttavia si è delineata finalmente la cruda verità. Il potere economico, quello da sempre ignorato dai libri di diritto (han sempre decantato il potere legislativo, giudiziario, ed esecutivo), è l’unico che non abbiamo mai avuto: dal 1982 quando divenne effettivo il divorzio tra Tesoro e BankItalia l’asse delle decisioni si spostò dalle assise pubbliche ai Cda bancari.

Oggi, così come dieci anni fa quando ci provò il Cav, le piazze sono agitate per la modifica dell’articolo 18. Eppure la sinistra ha applaudito con sperticate lodi l’arrivo di gente competente nelle sedi ministeriali, adesso cosa accade? Accade che la demagogia anti-berlusconiana è crollata e con essa il muro invalicabile per cui era amorale cambiare qualunque cosa. C’è l’esigenza finalmente di affrontare di petto le questioni e senza pregiudizio, esigenze che la sinistra italiana non ha mai sentito né fatte proprie.

Le prossime elezioni (sempre se ce ne saranno ancora, oramai a che servono?) porteranno alla vittoria lo schieramento che in questo anno e mezzo avrà mantenuto una linea di coerenza rispetto ai principi ed ai valori che da sempre hanno mosso la propria storia. E’ chiaro che nessuno oggi sia in grado di “scagliare la prima pietra”.

Quindi vincerà il partito degli astenuti che legittimerà ed ingrosserà le fila dei sostenitori tecnici, quelli che non credono più nella democrazia. Siamo all’ultimo anelito di vita della giovialità al governo. Non ci saranno più i sorrisi televisivi del Biscione sulle reti mediaset, accontentatevi dei bronci tormentati dallo spread.

di Andrea Lorusso.

sabato 24 marzo 2012

"Pensiero ribelle": il nuovo lavoro di Alain de Benoist.


PENSIERO RIBELLE
Interviste, testimonianze, spiegazioni
al di là della Destra e della Sinistradi Alain de Benoist 
Edizioni Controcorrente
2 volumi


I barbari sono coloro che privano gli uomini della loro umanità e autenticità. Secondo Alain de Benoist, non c’è niente di più barbaro della logica del capitale, la cui estensione planetaria trasforma l’uomo in una macchina per produrre e consumare, generalizza il regno dei valori mercantili, sradica le identità culturali e i modi di vita differenziati.

La ricerca del profitto materiale è l’unica molla di questa logica. Essa distrugge il legame sociale e smantella ogni valore simbolico a vantaggio del semplice valore monetario. A poco a poco, trasforma gli uomini stessi in oggetti.

Il risultato di questo capitalismo totale è l’annientamento del soggetto, il controllo sociale dei corpi, la manipolazione delle menti. Alain De Benoist difende il principio del diritto alla differenza. Ma questo principio, come tutti i principi, vale solo per la sua generalità.

Questo significa che siamo legittimati a difendere la nostra differenza solo se siamo capaci di difendere anche quella degli altri. Ciò che maggiormente minaccia la nostra identità non è dunque l’identità degli altri, ma ciò che mette oggi in pericolo tutte le identità: l’americanizzazione del mondo. L’apertura di un fast food o di un supermercato attenta alla nostra identità molto più della costruzione di una moschea!

Le sezioni, dove ognuno costruiva il suo sogno.



C’erano una volta le sezioni di partito. C’erano una volta i partiti, verrebbe da aggiungere. Quelli, tuttavia, ci sono ancora. Leggeri, come si usa dire. Liquidi, che è cosa diversa da trasparenti. Le sezioni, invece, no. Il circolo ne è il succedaneo, ma il sapore resta diverso e sfidiamo chiunque a sostenere che la margarina possa davvero sostituire il burro. Stesso discorso per il club, luogo neutro a metà tra l’ufficio di rappresentanza e quello di collocamento. I comitati elettorali, poi, sono tristemente estemporanei. Nascono, crescono e muoiono nell’arco di poche settimane: bruchi che non diventano farfalle. Alimentano suggestioni spudoratamente mirate al consenso e si spengono come fuochi fatui lasciando tracce di nastro adesivo sulle vetrine e santini eccedenti da smaltire. I militanti in crisi di vocazione vengono rimpiazzati, all’occorrenza, dalle hostess. I contenuti soppiantati dalla (bella) presenza.

Sembra passato un secolo e sono appena pochi lustri. Una stagione, quella della partecipazione politica, rimossa dall’immaginario collettivo, quasi sconosciuta dalle giovani generazioni. Quando la scelta elettorale presupponeva anche una relativa affiliazione sindacale, sportiva e ricreativa. Dopo lo sciogliete le righe di Tangentopoli, simboli e partiti con cui gli italiani avevano una lunga “familiare” consuetudine, sono stati archiviati. «Eppure dietro il simbolo sbarrato sullo Scudo Crociato, la Falce e il Martello, il Garofano Rosso, la Fiamma Tricolore, l’Edera Verde, il Sole Nascente, la Bandiera Tricolore con la scritta PLI, la Rosa nel Pugno, c’erano delle narrazioni, delle visioni del mondo, degli intenti pedagogici, delle agenzie di formazione e informazione».

Così scrive Andrea Pannocchia nel volume Quelli che… la sezione. La militanza politica in Toscana nella Prima Repubblica (Eclettica Edizioni, pp. 345 euro 16). Intendiamoci: quella di Pannocchia, dottore di ricerca in Sociologia della Comunicazione presso l’Università di Firenze, non è un’operazione vintage. Schiva, con l’obiettività dello studioso, la tentazione di farsi laudatores temporis acti, «adulatore di un passato che spesso si tende a considerare una sorta di Eden perduto».

La questione che pone è: si è buttato via, assieme all’acqua, anche il bambino? La mission del libro è cercare di ricostruire, attraverso la voce dei protagonisti, come si viveva la politica ai tempi della Prima Repubblica. Un viaggio a ritroso nel tempo, ma finalizzato a capire qualcosa di più sull’attualità e soprattutto sulle prospettive del nostro sistema partitico. Chi erano e che vita conducevano i militanti? Come si diventava dirigenti di partito e amministratori pubblici? Com’era stata vissuta la scomparsa dei rispettivi partiti e se e come vi era stata una ricollocazione nel nuovo sistema?

Pannocchia, aiutato da Fabio Calugi per la componente storiografica, ha lasciato che a rispondere fossero dieci politici locali, uno per ognuno dei dieci partiti e delle dieci province toscane presenti nel 1987, anno campione della ricerca. Anno in cui tutti erano contro tutti, senza alleanze precostituite e con il Pci a farla da padrone. Regione “rossa” per eccellenza, la Toscana, in cui in nove province su dieci il partito di gran lunga più forte era quello comunista, che arrivava dietro alla Dc solo in Provincia di Lucca.

«Terra irriducibile ai cambiamenti esterni come il villaggio gallico di Asterix di fronte agli assalti dei romani», ma non per questo priva di vivacità. Il saggio di Pannocchia ne offre uno spaccato inedito: «I radicali ospitati, quasi come marziani, nelle Case del Popolo di Prato, i minatori missini di Ribolla che combattono battaglie di sopravvivenza politico-sindacale mentre i cislini della Lebole di Arezzo si mobilitano per non soccombere all’egemonia della Cgil, i repubblicani sfrontati che vanno ad attaccare manifesti a Turano, la frazione più rossa di Massa, i militanti di DP di Empoli che vogliono convincere i clienti della COOP a boicottare i prodotti israeliani, i fascisti grossetani sostenitori di Junio Valerio Borghese o che rimpiangono le imprese orbetellane di Italo Balbo; i socialisti di Pontedera che arrivano prima dei comunisti al domenica mattina alla Piaggio a distribuire L’Avanti».

Più che davanti a un saggio sembra di venire proiettati in un romanzo corale in cui non tutti gli “eroi” hanno un nome. Ci sono quelli che l’autore chiama «gli angeli del ciclostile», quelli che non sono mai stati eletti ma che non per questo hanno vissuto meno intensamente quegli anni. Forse non erano “tecnici”, ma ingegnosità e generosità ne avevano in abbondanza. Personaggi eccezionali nella loro normalità e talvolta picareschi nel vissuto politico quotidiano. Idealisti e cinici, manovratori di eserciti e avventurieri solitari. Esistenze divise tra momenti privati e istituzionali, passioni di parte e responsabilità di amministratori del territorio. Ognuno con una storia da raccontare, le cui parole, parole di militanti che in molti casi sono stati e sono importanti dirigenti e pubblici amministratori, aiutano il lettore a capire cosa significasse «aprire una sezione, condividere idealità, organizzare riunioni, formare decisioni e quanto una sezione potesse diventare anche uno spazio fisico e simbolico da difendere».

Perché chi decideva di fare politica, in particolar modo nel Msi, sapeva di mettere a repentaglio la propria vita. Senza, peraltro, avere alcuna prospettiva di “carriera”. La testimonianza di Andrea Agresti, classe 1953, consigliere regionale del PdL con un passato da militante della Giovane Italia e poi del Fronte della Gioventù – «segretario per carenza di militanti», si schernisce –  è esemplare. Dopo oltre vent’anni di consiglio comunale, ovviamente all’opposizione, nel 1997 divenne vice sindaco di Grosseto, carica che ha mantenuto per due mandati.  «Avrebbe mai pensato, da militante missino, di diventare un giorno vice sindaco della sua città?», gli domanda l’autore. « No, anzi non pensavo nemmeno di invecchiare», è la significativa risposta.

Il tempo, però, passa. La legge elettorale è cambiata, il venir meno delle preferenze sembrerebbe rendere l’organizzazione superflua, la selezione della classe dirigente non passa più per le sezioni ma avviene per mera cooptazione. Ed è un male, perché i giovani, grazie al confronto con i “vecchi”, i militanti più esperti, diventavano di norma uomini culturalmente più solidi e amministratori preparati. Certo, ci sono le nuove opportunità offerte dalle moderne tecnologie di comunicazione e altre forme di autorganizzazione dal basso. C’è Facebook. C’è Twitter. Con le epoche storiche cambiano modalità ideali e pratiche del fare politica. Se uno in un partito si trova in minoranza, piuttosto che misurarsi con gli altri, ne fa subito un altro. Con buona pace di chi l’ha votato.

Pannocchia non si iscrive nel novero degli apocalittici. La sfida con la modernità non si affronta alimentando velleitari ritorni al passato. Il che non toglie – conclude l’autore – «che non si costruisce niente senza un partito vero, un’organizzazione, una struttura fatta di militanza, di confronto fra la base e i vertici, uno scontro anche interno se necessario duro, una serie di regole democratiche per la selezione delle classi dirigenti. Senza dei valori, delle coordinate culturali, di un minimo comune denominatore. Senza precisi canali di partecipazione e processi di formazione incentrati su una lunga gavetta. E molto spesso senza un luogo in cui ritrovarsi e discutere». Le sezioni, per l’appunto. Dove sia ancora possibile costruire progetti, elaborare visioni, organizzare adeguate forme di militanza politica. Anche in tempo di antipolitica dilagante? Sì, perché costruire è meglio che demolire.

di Roberto Alfatti Appetiti