di Alain de Benoist (Diorama)
La parola «popolo» può avere due significati diversi, a seconda che lo si consideri come un tutto (un territorio e l'insieme degli abitanti che lo occupano, l'insieme dei membri del corpo civico) oppure come una parte di quel tutto (le «classi popolari»). Nella lingua francese, «peuple» ha in un primo momento designato un insieme di persone legate da una comunità di origine, di habitat, di costumi e di istituzioni. È il significato che il termine riveste quando fa la sua comparsa nel IX secolo, in particolare nei Serments (giuramenti) de Strasbourg (842). Ma ben presto si è diffusa la seconda accezione: il popolo "popolare", per contrasto con le élites dominanti, è la "piccola gente", la "gente da poco", quel "popolo minuto", come si diceva nel XVIII secolo, la cui definizione non si riduce affatto a una semplice dimensione economica (contrariamente aí "diseredati" o ai "più bisognosi"). Questa ambivalenza è estremamente antica.
Risale alla Grecia arcaica, dato che il termine demos è già attestato nel sillabario miceneo (da-mo). In origine, il demos rappresenta un modo di pensare la comunità in rapporto stretto con il territorio che gli è proprio e sul quale si esercita l'autorità dei suoi dirigenti (da ciò il "deme", circoscrizione territoriale e amministrativa). Questa dimensione territoriale del demos è direttamente legata alla sua dimensione politica. Già nei testi omerici, il demos non si confonde assolutamente con l'ethnos. Si distingue altresì dal laos, che si riferisce piuttosto ad un gruppo di uomini posti sotto l'autorità di un capo. A Sparta, attraverso la nozione di demos si costituisce l'ideale del cittadino-soldato. Ad Atene, il demos si riferisce all'insieme dei cittadini, cioè alla comunità politica che forma l'elemento umano della polis. In quanto soggetto del,—/ l'azione collettiva, è esso a creare Io spazio comune sulla cui base si può svolgere un'esistenza sociale propriamente politica.
A partire dal V secolo príma della nostra era, il termine demos designa anche la democrazia, ed acquista nel contempo una risonanza peggiorativa per coloro che stigmatizzano l'esercizio del kratos da parte del demos. Ma designa altresì un "partito popolare", equivalente della plebs romana, di cui si trova traccia già nei testi di Solone.
Il principio della democrazia non è quello dell'eguaglianza naturale degli uomini fra di loro, bensì quello dell'eguaglianza politica di tutti i cittadini. La "competenza" a partecipare alla vita pubblica non ha altra fonte al di fuori del fatto dí essere cittadini. Scrive Hannah Arendt: «Noi non nasciamo eguali, diventiamo eguali in quanto membri di un gruppo, in virtù della nostra decisione di garantirci reciprocamente eguali diritti». Il popolo, in democrazia, con il suo voto non esprime opinioni che siano più vere di altre.
Fa sapere dove vanno le sue preferenze e se sostiene oppure sconfessa i suoi dirigenti. Come scrive molto giustamente Antoine Chollet, «in una democrazia, ii popolo non ha né torto né ragione, ma decide». E il fondamento stesso della legittimità democratica. È proprio per questo che la domanda «chi è cittadino?» — e chi non lo è — è l'interrogativo che fonda ogni prassí democratica. Allo stesso modo, la definizione democratica della libertà non è l'assenza di costrizione, come nella dottrina liberale o in Hobbes («the absence of external impediment», si legge nel Leviathan, 14), ma si identifica con la possibilità per ciascuno di partecipare alla definizione collettiva delle costrizioni sociali. Le libertà, sempre concrete, si applicano ad ambiti specifici e a situazioni particolari. Un popolo può anche essere considerato composto da una moltitudine di singolarità, ma ciò non gli impedisce di formare un tutto, e quel tutto ha qualità specifiche indipendenti da quelle che ritroviamo negli individui che lo compongono. E perché il popolo forma un tutto che il bene comune non si identifica con un "interesse generale" che non sia nient'altro che la somma di interessi individuali. Il bene comune è irriducibile a qualunque sorta di suddivisione. Non richiede una definizione morale, ma una definizione politica.
In ogni governo rappresentativo vi è un'evidente inflessione antidemocratica, cosa che Rousseau aveva ben visto («Nell'istante in cui il popolo si dà dei rappresentanti, non è più libero», Contratto sociale, III, 15). La partecipazione politica vi è infatti limitata esclusivamente alle consultazioni elettorali, il che significa che il demos non raggruppa più degli attori, ma solamente degli elettori. Vi si afferma implicitamente che il popolo non può prendere da sé la parola, non deve fornire direttamente il suo punto di vista sui problemi del momento o su decisioni che chiamano in causa il suo futuro, che addirittura vi sono argomenti che devono essere sottratti al suo parere, dato che le decisioni e le scelte devono essere esercitate soltanto dai rappresentanti che esso designa, vale a dire da élites che non hanno mai cessato di tradire coloro dai quali avevano ricevuto il potere, élites alla cui testa si collocano gli esperti, che confondono regolarmente i mezzi con i fini. La percezione sociale del popolo si trasforma a partire dal XVIII secolo, nel momento in cui viene inventata la "società". Da un lato, si teorizza l'«anima del popolo» ( Volksseele), dall'altro si vede nel popolo —le classi popolari — un nuovo attore sociale capace di rimettere in discussione le antiche gerarchie. Nel XIX secolo, la destra conservatrice difende prima di tutto il popolo come totalità — con un netto scivolamento dal demos all'ethnos—, nel momento stesso in cui sviluppa una mistica dell'unità nazionale che giunge fino all'"unione sacra", mentre i socialisti difendono le classi popolari. E una dissociazione profondamente artificiale, dal momento che la "gente de popolo na sempre formato un'ampia maggioranza del "popolo". Il popolo deve infatti essere difeso in tutte le sue dimensioni.
L'esempio della Comune di Parigi è, da questo punto di vista, particolarmente notevole, giacché quel movimento ha coagulato nel contempo una reazione patriottica (la paura di assistere all'ingresso delle truppe prussiane a Parigi) e una reazione proletaria (il timore di una reazione monarchica contro il risultato delle elezioni del febbraio 1871).
Nel corso di quelle giornate, che termineranno nel sangue, il popolo parigino insorto prende il potere. In poche settimane, riesce a riversare le sue parole d'ordine in programmi, ad abbozzare al di là dei provvedimenti d'urgenza un'inedita forma istituzionale. In materia di rappresentanza, la Comune elegge da sé i propri delegati e proclama la revocabilità dei mandati. Sul piano sociale, sopprime le ammende sui salari, prevede la gratuità della giustizia e l'elezione dei magistrati. Decide inoltre la separazione tra la Chiesa e lo Stato, stabilisce il principio dell'insegnamento gratuito e obbligatorio, si pronuncia perfino per il «governo del mondo delle arti da parte degli artisti». L'ispirazione generale è quella del federalismo proudhoniano. L'associazione dei lavoratori viene posta come principio basilare dell'organizzazione della produzione. I versagliesi impediranno a quel programma di realizzarsi. «Il cadavere è a terra, ma l'idea è in piedi», dirà Victor Hugo.
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