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domenica 18 marzo 2012

Pensieri in controtendenza su quarant’anni di conformismo di massa.



Il ’68 è al potere e ci controlla.
La febbre corrosiva del ’68, l’ultimo virus che attraversò le giovani generazioni occidentali, è ben presente nella nostra epoca.
I rivoluzionari di quel periodo e i loro seguaci dominano nel mondo della cultura, della politica, dei sindacati, dell’istruzione, dei media e, ahimé, della magistratura.
I principi dominanti di quella cultura (io ritengo subcultura) sessantottina, che voleva essere rivoluzionaria, si è svilita a conformismo di massa e criterio di vita.
Quella spinta contestatrice ha distrutto i valori della tradizione, dell’educazione, della religione, disintegrando i due pilastri sociali fondamentali: scuola e famiglia. Ci ha lasciato l’eredità di un’ideologia libertina e permissiva sul piano dei valori, dei doveri, dei costumi ma intollerante e repressiva verso chi, come il sottoscritto, non si riconosce in quel movimento libertario e verso chi non vuole adottare quei codici o quei modelli.
Leggendo alcuni scritti di chi ha studiato il ’68 e cito Pietrangelo Buttafuoco, Giampiero Mughini e Marcello Veneziani in primis, discorrendo con chi ha vissuto l’esaltazione fallimentare di quel periodo, a quarant’anni di distanza è arrivato il momento di trarre le conclusioni attraverso una rivisitazione critica ed un’inversione di rotta rispetto al pensiero dominante.
La rivoluzione sognata dal ’68 non ha rovesciato gli assetti di potere, i rapporti di classe, ma solamente i valori e i costumi.
Il movimento sessantottino cercò di far scoppiare un incendio e si è ritrovato in una nuvola di fumo. Fumo ideologico di una generazione che correva dietro fumose utopie. Fumo di molotov e di P38. Fumo di spinelli e allucinogeni.
Gli effetti sociali furono un disastro, devastanti, la scuola, l’università, la chiesa, le istituzioni tutte, la famiglia uscirono peggio di com’erano entrate: demotivate e culturalmente ed eticamente peggiorate.
Alcuni intellettuali come Marcello Veneziani ritengono, con argomenti importanti, che il ’68 non fu nemmeno una novità ma solo un vecchio rigurgito anarchico.
Si cercò di imporre una società fondata sul principio del piacere. S’impose la liberazione sessuale che coincise con l’uso commerciale e consumistico della donna. A tale proposito, vale la pena di sottolineare che coloro che oggi condannano acidamente questa tendenza sono i medesimi che all’epoca la volevano ad ogni costo.
I professori, gli insegnanti delle scuole e università, che un tempo godevano di prestigio, autorevolezza, sono ridotti al rango di animatori o colf. Il professore, oggi, costituisce un antimodello, denigrato in una scala sociale bassa ed esempio di ciò che i ragazzi non vogliono diventare.
Il ’68 ha rinnegato e sbeffeggiato il principio fondante della scuola e cioè che essa si fonda sulla tradizione. Non può esserci scuola se non c’è nulla da trasmettere, da tramandare. La scuola è connessione ad una rete di saperi ed esperienze tra generazioni.
Lo sfascio familiare ha creato una nuova figura tragica (tra l’altro neanche aiutata dal legislatore nel caso sia un padre), errabonda, grottesca: lo sfamiglio (cito testualmente Veneziani), che non è semplicemente un single, ma un profugo, un superstite di un’esplosione che ha devastato la cellula fondamentale della società, la famiglia, appunto.
La famiglia, in questa deflagrazione, è considerata ormai inutile e non il passaggio naturale dalla natura alla civiltà, ciò che dà un senso a quanto creato dalla natura, una prospettiva.
Insomma, né single né sposati, con tutto ciò che negativamente segue, con l’esaltazione della trasgressione intesa come la normalità.
Il ‘68 vide come attori falliti la maggior parte degli antifascisti che fecero la Resistenza e non volevano la libertà ma un’altra dittatura, quella comunista. Portavano avanti il sogno di un totalitarismo più compiuto rispetto a quello fascista, che abolisse proprietà, disuguaglianze, mercato e religione.
Questo egocentrismo generazionale, raggomitolato sulle proprie utopie, ha fallito, proprio come rivoluzione politica, soprattutto laddove pensava di poter rovesciare i rapporti di classe, gli assetti di potere, mentre invece è riuscito nell’unico intento di distruggere i valori della tradizione.

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