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lunedì 12 marzo 2012

Paure e incubi dell’uomo macchina.



Quali sono le paure più diffuse in questo “tempo della crisi”? A giudicare da quanto si vede in psicoterapia, la paura della povertà è presente ma non sempre genera malessere psichico. Quella l’uomo la conosce (magari nel racconto familiare), anche se non l’ama; sa che ci si può convivere.
La paura che fa star male, e che oggi si diffonde, è quella di venir trattati sul lavoro e nella società come cose. Ciò spiega anche buona parte della riluttanza giovanile a inserirsi nelle aziende.
Giovani pieni di buona volontà, che si cimentano con ambite (anche se assai esigenti) opportunità di lavoro, di notte sognano di diventare gradualmente macchine, robot, o di venire divorati dagli squali.
Raramente si tratta di persone viziate, con poca voglia di lavorare sodo. Sono in genere intelligenti, ambiziosi, con forte senso del dovere, tanto da accettare ritmi di lavoro superiori alle 10 ore al giorno, come è ormai corrente nei posti “importanti” delle grandi città. Non hanno vizi, né nevrosi particolari.
La psiche, però, si ribella di fronte a situazioni lavorative che, in un certo senso, non la riconoscono. Che guardano all’uomo solo come “funzionario” come chi svolge una funzione, senza considerarne l’anima, il suo bisogno di relazione, di essere visto (anche senza fronzoli o sentimentalismi) come persona. E’ una situazione del tutto inedita, da molte generazioni.
Charles Dickens descrive, certo, nei suoi romanzi e racconti il capitalismo spietato della Londra dell’ottocento; ma da allora tutto, in Occidente, è molto cambiato. Gli sviluppi del liberalismo e dei movimenti socialisti, assieme alla crescente creazione di ricchezza e diffusione di cultura, hanno riparato a quell’“eclisse della persona” manifestatasi in Europa con la crescita dell’industrializzazione, ricreando così reti di relazioni sociali più propriamente umane. Gli anni della globalizzazione, però, hanno cambiato molte cose.
Le imprese occidentali si sono trovate a competere con aziende che pagavano in altre zone del mondo salari ridicoli, quasi senza oneri sociali. Spesso hanno chiuso gli stabilimenti in Europa o Usa, trasferendo la produzione altrove.
La negazione della persona umana è tornata in Occidente, sotto la forma degli attivi economici dei paesi che usavano i lavoratori come macchine. Contemporaneamente, anche il pensiero occidentale sposava la visione tecnoscientifica, affascinata dall’immagine di un uomo-macchina, dotato di veri e propri pezzi di ricambio e capace di riprodursi artificialmente, mentre della sua anima non parlava più nessuno.
Anche nei metodi educativi l’approccio tecnico, basato su test e valutazioni quantitative sta soppiantando l’incontro personale, l’attenzione alle potenzialità dell’individuo, che passano necessariamente dalle sue passioni, reali o potenziali.
Viviamo, ha scritto Pietro Barcellona, nell’epoca delle “passioni negate”. Senza passioni, però, diventiamo macchine. Una prospettiva che, anche se insistentemente proposta dalle tecnoscienze e dai media che se ne fanno portatori, ripugna profondamente all’umano, che non è “fabbricato” come le macchine, ma essere vivente, profondamente legato al mondo della natura, ed a quello dello spirito, che si manifesta anche nella psiche, nei suoi malesseri, e nei suoi momenti di felicità.
Perdere la propria umanità, la ricchezza del proprio mondo relazionale, gli aspetti “inutili”, non direttamente produttivi, della propria creatività, è il vero timore che serpeggia oggi tra i giovani più attenti, come anche in molti adulti che riflettono sulle proprie esperienze. Il domani passa anche da qui.

di Claudio Risè

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