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lunedì 26 marzo 2012

Nel silenzio del mondo, il Tibet muore.



C’è un pesante velo di silenzio che i media hanno gettato sulla questione tibetana solo perchè oggi la Cina è la maggiore potenza commerciale al mondo e l’unica capace di reggere i destini del capitalismo. Se contro Gheddafi sono stati inviati i bombardieri, contro l’Iran e la Siria sono state imposte sanzioni e nelle Seychelles sono arrivate prontamente le delegazioni diplomatiche, viceversa nessuno si preoccupa per il Tibet.
La Cina sta svolgendo una vera e propria puliza etnica in quel Paese che risulta sotto pesante occupazione militare. Le persone, soprattutto monaci e monache vengono arrestati senza motivo apparente e reclusi nei “centri di rieducazione” cinesi mentre enormi orde dell’etnia cinese Han vengono inviate a colonizzare il territorio tibetano. L’unica preoccupazione per la Cina è il fenomeno delle auto-immolazioni, in uso da qualche settimana, che vede i monaci tibetani darsi fuoco agli incroci delle strade con la polizia che non riesce a fermarli e non ne capisce le gesta. La comunità internazionale? In silenzio, come se nulla fosse: forte con i deboli (Gheddafi) e debole con i forti (la Cina).

Intervista a Karma Dorjee, giornalista di Radio Free Asia che tutti i giorni è a contatto con chi abita nel Tibet occupato e che il governo cinese ha chiuso al resto del mondo. «Hanno circondato monasteri e città, chiuso strade e scuole, sequestrato persone. Non le fanno neanche uscire di casa e non restituiscono i cadaveri delle vittime alle famiglie».

«Le autorità cinesi non sanno come reagire alle auto immolazioni, non capiscono quello che sta succedendo. Per precauzione, secondo i nostri informatori, hanno inviato nelle aree tibetane migliaia e migliaia di soldati, hanno circondato monasteri e città, chiuso strade, scuole, università, sequestrato persone». Sapere che cosa succede in Tibet in questi giorni è quasi impossibile. Nelle principali città tibetane come Lhasa, dove un tempo risiedeva il Dalai Lama, e in quelle dove la tensione è più alta come Aba, in Sichuan, nessuno può entrare: né i cinesi, né tanto meno i giornalisti. Nell’ultima settimana, infatti, tre persone si sono date fuoco per protestare contro la repressione fisica e culturale dei tibetani da parte di Pechino e il governo ha letteralmente sigillato le aree più sensibili. Sono già 26 le persone che dal 2009 si sono uccise auto immolandosi.
Se possibile, negli ultimi giorni, la dittatura comunista ha aumentato le restrizioni alla libertà dei tibetani. Il 10 marzo, infatti, è l’anniversario della grande rivolta del 1959 repressa nel sangue dal regime, che ha ucciso più di 80 mila persone costringendo il Dalai Lama a fuggire in India. Ma sempre il 10 marzo Pechino ha represso nel 2008 una manifestazione pacifica che ha fatto esplodere la rabbia dei tibetani. Negli scontri con la polizia dei giorni seguenti, più di 100 tibetani sono rimasti uccisi. «È difficile dire se ci saranno scontri anche quest’anno» dichiara a tempi.it Karma Dorjee, giornalista di Radio Free Asia che ogni giorno è in contatto con fonti che si trovano nelle aree tibetane che la Cina ha chiuso al resto del mondo. «Però sappiamo come si sta preparando la Cina».
Quali precauzioni ha preso il governo cinese?
Per evitare proteste di massa, secondo informazioni che abbiamo appena ricevuto, le autorità hanno bloccato tutte le vie che portano alla città di Lhasa e alla parte occidentale del Tibet. Hanno anche chiuso le strade principali di città come Lhasa o Aba. Nessuno potrà recarsi in quei luoghi per almeno una settimana. Le università nella capitale della Regione autonoma tibetana, inoltre, sono state chiuse venerdì scorso e gli studenti che risiedono lì sono stati messi in quarantena all’interno del campus universitario e non potranno uscire per diversi giorni. Anche le scuole e i monasteri sono stati letteralmente circondati dalla polizia. Tutto questo, ovviamente, in aggiunta alle normali misure di sicurezza.
Per saperne di più
LEGGI - «Ecco perché i tibetani si danno fuoco»
Quali sono le “normali” misure di sicurezza?
Hanno inviato migliaia di soldati a presidiare le zone più a rischio, hanno imprigionati tantissimi tibetani e studenti a Lhasa. Non sappiamo per quanto ma secondo alcune informazioni che abbiamo ricevuto saranno tenuti in prigione almeno fino alla fine di marzo, qualcuno anche fino a maggio. A molti tibetani che si trovano in altre parti della Cina, non è stato concesso di tornare a casa per il nuovo anno. Senza contare che a loro è proibito muoversi liberamente da un’area all’altra, monaci e monache nei monasteri sono presi di mira e anche gli studenti hanno poca libertà di movimento.
Non ci sono rivolte?
La settimana scorsa, a causa di queste restrizioni, in una scuola di una città di cui non posso fare il nome una studentessa ha protestato e si è data fuoco. Quella scuola è stata circondata dalla polizia e non hanno permesso ai familiari di contattare i loro figli, così come ai loro figli non è permesso di uscire. Succedono spesso cose come questa e forse sono ancora adesso chiusi lì dentro. In più, i genitori hanno richiesto alle autorità il corpo della figlia ma la polizia ha risposto che se volevano il corpo, dovevano firmare una lettera in cui dichiaravano che quel gesto non era stato commesso per ragioni politiche, altrimenti non gliel’avrebbero restituita. Chissà quante altre cose succedono, ma è difficile saperlo visto che nessuno può entrare in quelle città. Dopo l’incidente la città è stata chiusa dai militari.
Perché le auto immolazioni sono aumentate così tanto negli ultimi mesi?
Per tutti i tibetani, ma soprattutto per quelli che abitano in città come Aba o Tangu, sembra che non ci sia alternativa. Quello che i tibetani vogliono davvero è praticare la loro religione tranquillamente, vivere pacificamente ed essere liberi, dovunque si trovino. Quando questi desideri non vengono corrisposti e vedendo che ogni volta che hanno protestato in gruppo sono stati schiacciati, uccisi e portati via, l’unica alternativa per loro sembra darsi fuoco e provare così a creare un caso per inviare un messaggio forte al governo cinese e a tutto il mondo. I cinesi non capiscono bene quello che sta succedendo ma se non fanno i conti con quello che vogliono i tibetani, le auto immolazioni aumenteranno.
Il governo è solito accusare «la cricca del Dalai Lama» per le auto immolazioni. Pechino sostiene che la guida spirituale del Tibet non ha rispetto della vita umana e incita le persone a darsi fuoco.
Il Dalai Lama è in India, le auto immolazioni avvengono in Tibet. Lui non c’entra niente, anzi, di solito chiede alle persone di non agire in questo modo. L’unica cosa che ha detto ultimamente durante una visita in Giappone è che i tibetani sono portati ad uccidersi a causa della politica cinese e che l’unica soluzione è un cambiamento da parte di Pechino.
C’è stato qualche passo avanti nel dialogo tra il governo tibetano in esilio in India e il regime comunista?
No, nessuno. Non c’è spazio per il dialogo. Il Dalai Lama ora si è ritirato dalla scena politica ma il primo ministro tibetano, che è il capo del governo in esilio, non è riconosciuto dalla Cina e quindi non c’è neanche la possibilità del dialogo. È un vicolo senza uscita, non vedo nessuna possibilità per il futuro.
Però la Cina è preoccupata dal fenomeno delle auto immolazioni.
Certo, perché non sa come fermarlo. I cinesi sono abbastanza confusi, provano ad arginare questo fenomeno ma non ci riescono perché sono i singoli individui che si danno fuoco, senza danneggiare nessuno se non loro stessi e non portano armi. Esprimono solo la loro sofferenza. Ed è per questo che Wen Jiabao ha addirittura chiesto al Panchen Lama (la seconda autorità spirituale dopo il Dalai Lama per il buddismo tibetano, ndr) di farli smettere. Ma è inutile perché i tibetani non riconoscono “quel” Panchen Lama, che è stato nominato da Pechino (mentre il vero Panchen Lama, Gedhun Choekyi Nyima, nominato dal Dalai Lama si trova in una prigione sconosciuta dal 1995, ndr). Non sanno quindi come fare a fermare le auto immolazioni. L’unico modo sarebbe abbandonare il loro orgoglio e il loro ego.
La maggior parte delle auto immolazioni è partita dal monastero Kirty.
Sì, è uno dei maggiori monasteri tibetani e si trova nella prefettura di Aba. Qui vivono, o meglio vivevano, circa 2.500 monaci e hanno subito una dura repressione dopo che l’anno scorso, a marzo, un monaco di nome Phuntsog è uscito per protesta dal monastero, si è seduto in mezzo a un incrocio e si è dato fuoco. Allora le autorità hanno reagito, hanno messo in sicurezza il monastero, l’hanno circondato, sono entrati e hanno arrestato e portato via più di 300 monaci. Oggi in Aba vige la legge marziale e c’è un’ingente presenza di militari nell’area, ci sono barricate e strade bloccate.
Che cosa succede ai monaci arrestati?
Di solito vengono detenuti e subiscono sessioni di rieducazione politica. Monaci e monache devono leggere degli opuscoli e sono costretti ad affermare che il Tibet è una parte storica della Cina, devono ammettere che i tibetani sono progrediti moltissimo da quando la Cina li ha occupati nel 1950 e devono criticare il Dalai Lama per la sua attività di separatista. Poi devono firmare tutte queste dichiarazioni. Bisogna pensare che queste cose sono molto difficili e dolorose per un monaco o una monaca, se si considera l’importanza per loro del Tibet e della figura del Dalai Lama, la loro guida spirituale.
Il monachesimo tibetano è a rischio?
Sì. In Tibet il governo cinese ha posto restrizioni, così che un monastero non può ospitare più di un certo numero di monaci. Sotto i 18 anni i giovani sono obbligati ad andare a scuola e non possono entrare in monastero. Anche quelli che sono già monaci devono registrarsi e ricevere un numero identificativo, devono portare una carta di riconoscimento.
Anche cultura e lingua tibetane sono in pericolo?
In Tibet ci sono scuole per cinesi di etnia han, che il governo manda in massa in quelle zone perché le conquistino “culturalmente”, per tibetani e istituti misti. L’anno scorso è passata una legge che stabilisce che materie come scienze, letteratura, matematica o geografia non possono essere insegnate in tibetano ma solo in cinese. Gli insegnanti e gli studenti hanno protestato in massa l’anno scorso per questo, senza ottenere alcun risultato. L’obiettivo del governo comunista è quello di far scomparire la lingua e le tradizioni tibetane.

Fonte: Tempi.it

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