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giovedì 15 marzo 2012

E venne Valle Giulia, Mario Merlino racconta.



di Giovanni Tarantino 
  
Qualche tempo fa Bruno Gravagnuolo sull’Unità aveva ironizzato sull’espressione «Sessantotto in camicia nera». Eppure, lo stesso Franco Piperno, uno dei leader della contestazione di allora, ha riconosciuto – nel suo libro ’68, l’anno che ritorna (Rizzoli) – che tra quegli studenti, i quali per darsi autorevolezza sfoggiavano «folte capigliature e lunghe barbe», c’erano «anche giovani neofascisti» e «qualche universitario colto di destra ». A riprova di tutto ciò c’è una foto datata al 1° marzo di quell’anno che in questi giorni sta riaprendo il dibattito su quegli episodi: una foto di gruppo, scolpita nella memoria di qualcuno, riproposta adesso – con tanto dei nomi di quasi tutti i fotografati – all’interno del libro di Nicola Rao Il sangue e la celtica, (Sperling e Kupfer, pp.458, euro 18), che sta facendo ragionare nuovamente sulla “natura” del Sessantotto e che vede contrapposti un manipolo di giovani alle camionette della polizia. «I giovani che in quel momento fronteggiavano le gip della Celere – ha scritto di recente Gianni Pennacchi sulGiornale – li conoscevo. Li conoscevano tutti, nel movimento studentesco romano. E che fossero fasci, in quel 1° marzo di quarant’anni fa, non scandalizzava nessuno».


Quella fotografia, che ritraeva i “fasci” in primo piano mentre fronteggiavano le forze dell’ordine divenne un maxiposter affisso nelle camere dalla maggior parte dei ragazzi per tutti gli anni Settanta. È la fotografia che immortalava il battesimo di massa del movimento studentesco a Roma e non solo. E adesso, proprio uno degli ex ragazzi che campeggia in prima fila in quell’immagine, Mario Michele Merlino, racconta la sua versione dei fatti con un’autobiografia in forma narrativa: E venne Valle Giulia (Settimo Sigillo, pp. 143, euro 15), un libro in cui in copertina c’è il fotogramma che ritrae l’autore estrapolato dalla foto di gruppo celebrata nel poster di Valle Giulia.

L’autore, da tempo docente di storia e filosofia, poeta e autore teatrale, ha già pubblicato diversi libri: la raccolta di versi Inattuale (Edizione Settecolori), Ezra Pound, testimone e poeta (Il Corallo), Ritratti in piedi (Settimo Sigillo) e, insieme a Rodolfo Sideri, i saggiInquieto Novecento e Strade d’Europa (ancora per Settimo Sigillo), oltre ad avere tradotto e curato la ristampa de I poemi di Fresnes di Robert Brasillach. Ma stavolta scende in prima persona, sul filo della narrativa: «Io racconto, raccontandomi – ha spiegato – di quella generazione che visse, un po’ stonata e con qualche sgrammaticatura di eccesso, la poesia del ventesimo secolo....». Merlino, insomma, dà voce al suo passato, ovvero alle vicende di «un ragazzaccio in camicia nera che racconta la storia di un percorso di mani levate, di piazze e di scontri, di sentimenti e di idee» spiegando atmosfere, parole e gesti di quel periodo vissuti da protagonista.

D’altronde già Adalberto Baldoni nel suo libro Sessantotto (edito dall’Istituto Luce) lo aveva definito come «uno dei personaggi più emblematici e singolari degli anni Sessanta ». Lui che «dopo avere aderito alla Giovane Italia, se ne distacca nel 1965» nella stagione italiana «del fenomeno hippy, delle filosofie orientali, delle comuni, delle riviste come Re Nudo a Milano, della lettura dei romanzi di Kerouac delle poesie di Ginsberg. Un insieme di cose tanto lontane dalla politica». E che «a ventun’anni si fa crescere barba e capelli, assumendo la fisionomia che in seguito lo caratterizzerà e lo accompagnerà per sempre… affascinato dalle opere di Kerouac, folgorato da On the road, per due anni gira il mondo con l’autostop, facendo lavori saltuari. Tornato in Italia frequenta gli ambienti del gruppo universitario del Fuan Caravella. Partecipa attivamente alle occupazioni delle facoltà, evitando di farsi trascinare nella contrapposizione destra-sinistra…».

Erano, in effetti, gli anni in cui, soprattutto a destra, si tentavano di sviluppare nuove sintesi e percorsi possibili oltre i vecchi steccati e un sentire “europeo”, ispirato probabilmente dalle teorie di Adriano Romualdi, di assoluta importanza per i ragazzi di destra di quegli anni, e dalle letture di Brasillach o Drieu La Rochelle, autori letti e metabolizzati da Merlino. Ma era o stesso il retaggio generazionale e il sentirsi giovani a prescindere dalle collocazioni politiche a rafforzare il superamento degli steccati ideologici. Lo ha spiegato bene, a suo tempo, il cantautore Francesco Guccini, in una sua riflessione a posteriori su quegli anni, aveva rivelato che: «Erano tutti goliardi a destra e a sinistra… Mentre facevo il militare mi comperai un eskimo… Gli anni Sessanta erano per noi gli anni del nouveau roman francese, avevamo la mania di Eliot e di Ezra Pound».
C’è da dire che tali esperienze subirono invettive e stroncature da parte di certi intellettuali. Pier Paolo Pasolini, ad esempio, che già si era schierato in favore dei poliziotti contro gli studenti in merito alla battaglia di Valle Giulia nella celebre poesia pubblicata su L’Espresso indirizzata ai tanto odiati «figli di papà», si scagliava anche contro i ragazzi che portavano l’eskimo e i capelli lunghi, facendo riferimento proprio «alle migliaia e centinaia di facce di giovani italiani che assomigliano sempre più alla faccia di Merlino». Ma d’altronde è stato questo è stato il Sessantotto, anno in cui, come fa notare lo stesso Merlino, «i ragazzi scoprirono la gioia di vivere. Anche questa, dono inaspettato, frattura con insulse e mediocri interpretazioni d’un fascismo cupo e funereo», lontano dalla memoria gioiosa e libertaria del fascismo anarchico già caro a Brasillach.

E non c’è da giudicarlo nostalgico, per questo. Merlino, quarant’anni dopo quegli eventi, ha la pretesa di essere ancora in cammino, fedele ai suoi ricordi, alle sue idee e ai suoi sentimenti. Da vagabondo, come egli stesso si ritiene. Certamente da spirito libero. «Ulteriore motivo – si legge in E venne Valle Giulia – per dare voce alla storia di un ragazzaccio in camicia nera. La pietas classica è la consapevolezza che vincitori e vinti abitano sotto lo stesso cielo, sovente sordo e muto».

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