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sabato 24 marzo 2012

Le sezioni, dove ognuno costruiva il suo sogno.



C’erano una volta le sezioni di partito. C’erano una volta i partiti, verrebbe da aggiungere. Quelli, tuttavia, ci sono ancora. Leggeri, come si usa dire. Liquidi, che è cosa diversa da trasparenti. Le sezioni, invece, no. Il circolo ne è il succedaneo, ma il sapore resta diverso e sfidiamo chiunque a sostenere che la margarina possa davvero sostituire il burro. Stesso discorso per il club, luogo neutro a metà tra l’ufficio di rappresentanza e quello di collocamento. I comitati elettorali, poi, sono tristemente estemporanei. Nascono, crescono e muoiono nell’arco di poche settimane: bruchi che non diventano farfalle. Alimentano suggestioni spudoratamente mirate al consenso e si spengono come fuochi fatui lasciando tracce di nastro adesivo sulle vetrine e santini eccedenti da smaltire. I militanti in crisi di vocazione vengono rimpiazzati, all’occorrenza, dalle hostess. I contenuti soppiantati dalla (bella) presenza.

Sembra passato un secolo e sono appena pochi lustri. Una stagione, quella della partecipazione politica, rimossa dall’immaginario collettivo, quasi sconosciuta dalle giovani generazioni. Quando la scelta elettorale presupponeva anche una relativa affiliazione sindacale, sportiva e ricreativa. Dopo lo sciogliete le righe di Tangentopoli, simboli e partiti con cui gli italiani avevano una lunga “familiare” consuetudine, sono stati archiviati. «Eppure dietro il simbolo sbarrato sullo Scudo Crociato, la Falce e il Martello, il Garofano Rosso, la Fiamma Tricolore, l’Edera Verde, il Sole Nascente, la Bandiera Tricolore con la scritta PLI, la Rosa nel Pugno, c’erano delle narrazioni, delle visioni del mondo, degli intenti pedagogici, delle agenzie di formazione e informazione».

Così scrive Andrea Pannocchia nel volume Quelli che… la sezione. La militanza politica in Toscana nella Prima Repubblica (Eclettica Edizioni, pp. 345 euro 16). Intendiamoci: quella di Pannocchia, dottore di ricerca in Sociologia della Comunicazione presso l’Università di Firenze, non è un’operazione vintage. Schiva, con l’obiettività dello studioso, la tentazione di farsi laudatores temporis acti, «adulatore di un passato che spesso si tende a considerare una sorta di Eden perduto».

La questione che pone è: si è buttato via, assieme all’acqua, anche il bambino? La mission del libro è cercare di ricostruire, attraverso la voce dei protagonisti, come si viveva la politica ai tempi della Prima Repubblica. Un viaggio a ritroso nel tempo, ma finalizzato a capire qualcosa di più sull’attualità e soprattutto sulle prospettive del nostro sistema partitico. Chi erano e che vita conducevano i militanti? Come si diventava dirigenti di partito e amministratori pubblici? Com’era stata vissuta la scomparsa dei rispettivi partiti e se e come vi era stata una ricollocazione nel nuovo sistema?

Pannocchia, aiutato da Fabio Calugi per la componente storiografica, ha lasciato che a rispondere fossero dieci politici locali, uno per ognuno dei dieci partiti e delle dieci province toscane presenti nel 1987, anno campione della ricerca. Anno in cui tutti erano contro tutti, senza alleanze precostituite e con il Pci a farla da padrone. Regione “rossa” per eccellenza, la Toscana, in cui in nove province su dieci il partito di gran lunga più forte era quello comunista, che arrivava dietro alla Dc solo in Provincia di Lucca.

«Terra irriducibile ai cambiamenti esterni come il villaggio gallico di Asterix di fronte agli assalti dei romani», ma non per questo priva di vivacità. Il saggio di Pannocchia ne offre uno spaccato inedito: «I radicali ospitati, quasi come marziani, nelle Case del Popolo di Prato, i minatori missini di Ribolla che combattono battaglie di sopravvivenza politico-sindacale mentre i cislini della Lebole di Arezzo si mobilitano per non soccombere all’egemonia della Cgil, i repubblicani sfrontati che vanno ad attaccare manifesti a Turano, la frazione più rossa di Massa, i militanti di DP di Empoli che vogliono convincere i clienti della COOP a boicottare i prodotti israeliani, i fascisti grossetani sostenitori di Junio Valerio Borghese o che rimpiangono le imprese orbetellane di Italo Balbo; i socialisti di Pontedera che arrivano prima dei comunisti al domenica mattina alla Piaggio a distribuire L’Avanti».

Più che davanti a un saggio sembra di venire proiettati in un romanzo corale in cui non tutti gli “eroi” hanno un nome. Ci sono quelli che l’autore chiama «gli angeli del ciclostile», quelli che non sono mai stati eletti ma che non per questo hanno vissuto meno intensamente quegli anni. Forse non erano “tecnici”, ma ingegnosità e generosità ne avevano in abbondanza. Personaggi eccezionali nella loro normalità e talvolta picareschi nel vissuto politico quotidiano. Idealisti e cinici, manovratori di eserciti e avventurieri solitari. Esistenze divise tra momenti privati e istituzionali, passioni di parte e responsabilità di amministratori del territorio. Ognuno con una storia da raccontare, le cui parole, parole di militanti che in molti casi sono stati e sono importanti dirigenti e pubblici amministratori, aiutano il lettore a capire cosa significasse «aprire una sezione, condividere idealità, organizzare riunioni, formare decisioni e quanto una sezione potesse diventare anche uno spazio fisico e simbolico da difendere».

Perché chi decideva di fare politica, in particolar modo nel Msi, sapeva di mettere a repentaglio la propria vita. Senza, peraltro, avere alcuna prospettiva di “carriera”. La testimonianza di Andrea Agresti, classe 1953, consigliere regionale del PdL con un passato da militante della Giovane Italia e poi del Fronte della Gioventù – «segretario per carenza di militanti», si schernisce –  è esemplare. Dopo oltre vent’anni di consiglio comunale, ovviamente all’opposizione, nel 1997 divenne vice sindaco di Grosseto, carica che ha mantenuto per due mandati.  «Avrebbe mai pensato, da militante missino, di diventare un giorno vice sindaco della sua città?», gli domanda l’autore. « No, anzi non pensavo nemmeno di invecchiare», è la significativa risposta.

Il tempo, però, passa. La legge elettorale è cambiata, il venir meno delle preferenze sembrerebbe rendere l’organizzazione superflua, la selezione della classe dirigente non passa più per le sezioni ma avviene per mera cooptazione. Ed è un male, perché i giovani, grazie al confronto con i “vecchi”, i militanti più esperti, diventavano di norma uomini culturalmente più solidi e amministratori preparati. Certo, ci sono le nuove opportunità offerte dalle moderne tecnologie di comunicazione e altre forme di autorganizzazione dal basso. C’è Facebook. C’è Twitter. Con le epoche storiche cambiano modalità ideali e pratiche del fare politica. Se uno in un partito si trova in minoranza, piuttosto che misurarsi con gli altri, ne fa subito un altro. Con buona pace di chi l’ha votato.

Pannocchia non si iscrive nel novero degli apocalittici. La sfida con la modernità non si affronta alimentando velleitari ritorni al passato. Il che non toglie – conclude l’autore – «che non si costruisce niente senza un partito vero, un’organizzazione, una struttura fatta di militanza, di confronto fra la base e i vertici, uno scontro anche interno se necessario duro, una serie di regole democratiche per la selezione delle classi dirigenti. Senza dei valori, delle coordinate culturali, di un minimo comune denominatore. Senza precisi canali di partecipazione e processi di formazione incentrati su una lunga gavetta. E molto spesso senza un luogo in cui ritrovarsi e discutere». Le sezioni, per l’appunto. Dove sia ancora possibile costruire progetti, elaborare visioni, organizzare adeguate forme di militanza politica. Anche in tempo di antipolitica dilagante? Sì, perché costruire è meglio che demolire.

di Roberto Alfatti Appetiti

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