Ennesimo lutto per il contingente italiano in Afghanistan: il carabiniere scelto Manuele Braj, trentenne di Galatina (nel Leccese), effettivo al 13° Reggimento “Friuli-Venezia Giulia” è morto e altri due suoi commilitoni sono rimasti feriti in seguito a un’esplosione avvenuta in un campo addestrativo della polizia afghana, in Adraskan, nell’Afghanistan occidentale. Alle ore 8,50 locali (6,20 italiane), spiega una nota dello Stato maggiore della Difesa, all’interno del locale campo addestrativo della polizia afghana, si è verificata un’esplosione che ha interessato una garitta di osservazione installata nei pressi della linea di tiro del poligono, coinvolgendo i tre militari dell’Arma appartenenti al Police speciality training team.

Siamo contro ogni genere di Discarica nel nostro Territorio!
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martedì 26 giugno 2012
lunedì 4 giugno 2012
La fabbrica della guerra.
Il 6 febbraio del 2003 la performance all’Onu del segretario di stato Usa Colin Powell sul (falso) pericolo iracheno. Oggi, con molto ritardo, il vecchio soldato fa mea culpa. Ma la storia potrebbe ripetersi.
Queste righe non hanno, sia chiaro, alcuno scopo né provocatorio né tanto meno recriminatorio. Sono anzi un sincero e doveroso omaggio al coraggio e all’onestà – sia pure forse un po’ in ritardo sui tempi – di un uomo che ritengo corretto e rispettabile. E sono, semmai, una ennesima, inutile denunzia della disonestà dei nostri media e della scarsa e troppo corta memoria della nostra opinione pubblica.
Quasi dieci anni fa, il 6 febbraio 2003, il generale Colin Powell, allora segretario di stato del presidente statunitense George W. Bush jr., si presentò al Consiglio di sicurezza dell’Onu munito di provette, grafici, foto satellitari, registrazioni telefoniche e slides per comprovare ufficialmente le affermazioni del suo presidente nel discorso all’Onu del 12 settembre dell’anno prima, secondo le quali l’Iraq di Saddam Hussein stava perfezionando gli impianti per la produzione di armi batteriologiche, possedeva una flotta aerea in grado di lanciare armi chimiche sullo stesso territorio degli Stati Uniti, stava allestendo gli impianti nucleari distrutti anni prima dai raids israeliani, puntava alla produzione di uranio arricchito, di gas nervino e di antrace. Tutto ciò, insieme con altri particolari ancor più allarmanti, fu confermato dal rapporto segreto della Cia del giugno successivo.
Queste dichiarazioni erano obiettivamente contraddette dalle reiterate ispezioni Onu in territorio iracheno, guidate da Hans Blix (il quale, esasperato, alla fine si sarebbe dimesso) e da un denso dossier ufficiale del governo di Baghdad, 12.000 pagine delle quali però si tenne conto – sulla base di alcune marginali imprecisioni ivi contenute – solo per usarle come prova a carico di chi lo aveva redatto.
Era, quella, la famosa prova della “pistola fumante”, necessaria anzitutto per convincere una buona parte dell’opinione pubblica statunitense che ancora recalcitrava dinanzi all’idea di un prossimo conflitto per il quale era invece già cominciato un formidabile dispiegamento di forze tra Arabia Saudita e Golfo Persico.
Ora, a parte le dichiarazioni di Blix e del responsabile dell’Aiea Muhamad el Baradei, che contraddicevano le “prove” addotte dal segretario di stato, ci sarebbe davvero voluto poco per capire che in quell’ingente massa di materiale presentato all’Onu c’erano un sacco di cose che non tornavano, per non dir addirittura fasulle. Inoltre, Powell all’inizio della sua sceneggiata aveva ringraziato ufficialmente il governo britannico per aver fornito a quello statunitense un dettagliato rapporto che costituiva la fonte per la gran parte delle sue “rivelazioni”.
Peccato però che proprio il giorno dopo l’esplosiva performance del segretario di stato all’Onu un professore dell’Università di Cambridge, James Ranwala, segnalasse all’emittente britannica Channel 4 di aver esaminato il famoso dossier usato dagli statunitensi come fonte del rapporto Powell, rendendosi conto che si trattava del remaking della ricerca del giovane studioso arabocaliforniano Ibrahim al Marashi, pubblicata nel settembre 2002 sulla rivista Middle East Review of International Affairs e che peraltro riciclava abbastanza male del materiale di seconda mano raccolto soprattutto in Kuwait all’indomani della prima guerra del Golfo.
Il plagio del rapporto Powell da quella ricerca era così affrettato e plateale che perfino alcuni errori e refusi presenti in questa erano passati in quella. Se uno studente del secondo anno di Scienze politiche in una mediocre università italiana avesse presentato come ricerca seminariale il rapporto Powell, sarebbe stato cacciato dall’aula a pedate nel sedere. Peraltro, che il dossier britannico passato a Powell fosse una bufala era affiorato e divenuto di pubblico dominio quasi subito: lo aveva ammesso il premier Tony Blair e ne avevano parlato Washington Post e Cnn. La notizia era rimbalzata anche su Le Figaro e sul Corriere della Sera.
Sarebbe bastato un rapido esame del materiale disponibile online al riguardo, per raccogliere prove sufficienti a destituire di credibilità la manovra della quale Powell era stato protagonista e che, invece, costituì la conclamata base giustificatrice dell’aggressione all’Iraq da parte degli Stati Uniti e degli stati complici che vi si aggregarono, Italia compresa.
Ricostruii e denunziai l’inghippo alle pagine 76-79 (con le dovute note documentarie) di un libro, Astrea e i Titani, pubblicato in quello stesso 2003 dalla Laterza e sul momento propagandato in “prima serata” da Rai e Mediaset, con dispiegamento di alcune primedonne televisive, in quanto si riteneva che uno “storico di destra” avrebbe fornito argomenti utili a sostenere la decisione di Bush ch’era oggetto di duri attacchi. Se quelle primedonne si fossero date la pena di scorrere il libro che stavano producendo come supporto all’aggressione, si sarebbero accorte che stavano dandosi la zappa sui piedi. Ma è gente che non legge granché e che non dispone di collaboratori troppo preparati. Accortesi della gaffe, quelle emittenti televisive non trovarono di meglio che comminare il bando perpetuo all’autore del libro che li «aveva tratti in inganno». Tale embargo continua a tutt’oggi, mentre alcune centinaia di copie di Astrea e i Titani, che probabilmente l’editore fu a suo tempo dissuaso dal distribuire, giacciono malinconicamente invendute nei depositi della Laterza.
Un bell’esempio di Italian story che non varrebbe oggi la pena di rivangare, sappiamo bene come s’informi nel nostro paese la pubblica opinione e con quanto interesse essa esiga d’essere informata. Senonché, il diavolo insegna a far le pentole ma non i coperchi. Esce ora l’autobiografia di Powell, It worked for me. In life and leadership, nella quale egli dichiara che Bush decise l’aggressione da solo, senza neppur consultare il National Security Council, e confessa di aver prestato la sua credibilità di buon soldato – era stato capo di stato maggiore interforze durante la prima guerra del Golfo – per rendersene complice.
Chapeau. Onore al vecchio soldato pentito, che confessa la sua menzogna e se ne vergogna. Lo ha fatto con un ritardo di dieci anni: ma meglio tardi che mai. Ci sono fior di politici e di giornalisti, anche nel nostro paese, che dovrebbero far pubblica mea culpa per le infamie e le idiozie dette in quella circostanza e invece continuano imperterriti e strapagati a imbonirci. E allora, perché ricordare quella vecchia incresciosa storia? Semplicemente per il déjà vu che si sta ripetendo in questi momenti. Per ora ancor in sordina, di qui a qualche settimana o a pochissimi mesi apertamente, tornano a soffiare sul Vicino Oriente e sul Golfo persico venti di guerra che, mutatis mutandis, ricordano quelli di un decennio fa. È ora la volta dell’Iran, che starebbe fabbricando la sua “bomba” e che acquisterebbe missili a testata atomica dalla Corea del Nord. L’Italia è coinvolta: si stanno acquistando a carissimo prezzo decine di aerei da guerra, i droni sono arrivati a Sigonella e il vertice della Nato sta mettendo a punto un programma di “scudo missilistico” che il governo russo ha ufficialmente comunicato di ritenere una minaccia alla sua sicurezza. La preparazione mediatica di un nuovo conflitto è alle porte: e le tecniche di persuasione-disinformazione sembrano analoghe a quelle di dieci anni fa. State in campana.
di Franco Cardini.
mercoledì 28 marzo 2012
Silvestri, eroe per la Patria.
Un “operatore di pace”, un militare che “distribuiva cibo alla povera gente”. E’ l’estremo saluto pronunciato dall’ordinario militare, monsignor Vincenzo Pelvi, in memoria del sergente Michele Silvestri, la cinquantesima vittima italiana in Afghanistan, morto sabato scorso nell’attacco a colpi di mortaio che ha colpito la base ‘Ice’, avamposto della missione italiana nel Gulistan. Presente ai funerali solenni, nella basilica di Santa Maria degli Angeli, anche il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, che ha abbracciato i parenti del soldato. La salma del soldato, 33 anni, è giunta in mattinata all’aeroporto di Ciampino avvolta nel tricolore. Ad accoglierla, oltre ai familiari, il ministro della Difesa, Giampaolo Di Paola, il capo di Stato Maggiore della Difesa, generale Biagio Abrate e i più alti vertici delle forze armate. Gli onori militari sulla pista sono stati resi da un picchetto del 21/o Genio Guastatori di Caserta, cui apparteneva Silvestri. Alle 16 è stata allestita la camera ardente all’ospedale Celio. Nel pomeriggio i funerali solenni. La basilica era gremita: tanti i militari presenti, ma anche gente comune. Tra le autorità, oltre a Napolitano e Di Paola, il presidente del Senato, Renato Schifani, il presidente della Consulta Alfonso Quaranta, i ministri Elsa Fornero, Pietro Giarda, Corrado Passera, il presidente del Copasir, Massimo D’Alema, il sindaco di Roma, Gianni Alemanno. La bara, portata a spalla dai commilitoni, è stato deposta di fronte all’altare; sopra, una foto del soldato, il berretto ed una Bibbia.
Sono stazionarie, intanto, le condizioni dei due soldati rimasti feriti in modo grave nell’attacco alla base Ice: il caporal maggiore Monica Graziana Contrafatto ed il maresciallo Carmine Pedata. Non sono in pericolo di vita, sono stabili ed in terapia intensiva nell’ospedale da campo americano Role 3 a Baghram. Non appena le loro condizioni lo permetteranno, saranno trasferiti in Germania, presso l’ospedale militare di Ramstein.
mercoledì 14 marzo 2012
Il solito copione.
Già da piccoli, gli adulti ci insegnano a prenderci la responsabilità delle nostre azioni: soprattutto se sbagliate. Non dev’essere pratica diffusa negli Stati Uniti, a giudicare da quest’ennesima vicenda che vede protagoniste le truppe di occupazione yankee e vittime civili afghane. Stavolta, però, si sfiora addirittura l’assurdo: con gli americani che tentano di giustificare una vera e propria strage (palesemente premeditata) come l’atto folle di un singolo. Peccato solo che qualche sopravvissuto alla strage abbia identificato non una sola persona, ma una squadra d’assalto statunitense. Non mancherà - già lo immaginiamo - la smentita Usa che identificherà come “talebana” ogni precisazone sui dettagli della strage.
Tutta colpa di un sergente maggiore in esaurimento nervoso o colpito da stress per la lunga permanenza in zona di combattimento la strage compiuta in due villaggi del distretto di Panjiwayi, nella provincia di Kandahar, nella quale sono state uccisi e bruciati 16 civili afghani, quasi tutti donne e bambini.
Due le versioni sulla dinamica del massacro che divergono tra loro fondamentalmente per un aspetto: gli statunitensi e il comando Nato www.isaf.nato.int affermano che l’eccidio è stato compiuto da un solo militare uscito di nascosto dalla sua base, una Forward Operating Base (Fob) posta a meno di un chilometro dalle quattro case assaltate nel cuore della notte e colpite dalla furia omicida.
Dopo aver compiuto la strage il sergente si sarebbe consegnato ai suoi commilitoni nella base stessa e ora si trova sotto custodia in attesa quasi certamente di venire rimpatriato e processato negli Stati Uniti.
Secondo testimoni afghani a sparare sui civili c’erano diversi soldati americani, “ubriachi” che “ridevano” e “sparavano all’impazzata” secondo i testimoni locali, fra i quali un uomo, Haji Samad, che ha perso undici parenti nella strage e afferma che i soldati “hanno versato liquido infiammabile sui corpi e tentato di dare loro fuoco”. Una versione compatibile con il resoconto della France Presse che ha inviato un suo corrispondente sul posto e che ha potuto visitare gli edifici e contare 16 cadaveri. “Sono stati uccisi e bruciati. Ho visto almeno due bambini di età fra i due e i tre anni che erano stati bruciati”.
Il vicecomandante delle forze alleate, generale Adrian Bradshaw, ha ammesso che “uno dei nostri soldati ha ucciso e ferito un certo numero di civili in un villaggio adiacente alla sua base”, aggiungendo di non essere “in grado di spiegare le ragioni del suo gesto” e che “un’inchiesta è in corso”.
In passato, dopo la morte di civili per mano degli alleati, le testimonianze degli afghani si sono rivelate imprecise e spesso palesemente false ma questa volta è la versione statunitense e alleata a essere poco convincente. Chiunque abbia frequentato basi alleate in Afghanistan sa che è molto difficile se non impossibile uscirne di nascosto sia perché si verrebbe rivelati dai sensori posti a protezione del perimetro sia perché telecamere e sentinelle coprono ogni centimetro del perimetro. Anche uscire dall’ingresso principale adducendo una scusa è impossibile perché dalle basi esce solo il personale autorizzato, al quale è stata assegnata una determinata missione e in ogni caso mai nessun militare potrebbe lasciare la base da solo per ovvie ragioni di sicurezza.
Risulta poi difficile pensare che un uomo solo entri in quattro case in due villaggi diversi, sparando all’impazzata e bruciando i cadaveri, il tutto a poche centinaia di metri dalla base americana senza che nessuno intervenga. Un’azione più alla portata di una squadra (sette uomini guidati da un sergente) che di un singolo.
Fonte: IlSole24Ore.
martedì 21 febbraio 2012
Si ribalta un ‘Lince’: morti tre militari italiani in Afghanistan.
Tre militari italiani sono morti in Afghanistan in seguito ad un incidente stradale ieri mattina avvenuto nei pressi della località Shindand. Un quarto militare è ricoverato in ospedale per ipotermia ma non è in pericolo di vita. La tragedia si è consumata nel corso di una missione di recupero di un’unità bloccata dalle condizioni meteo particolarmente avverse quando il ‘Lince’ sul quale erano a bordo i militari si è ribaltato mentre attraversava un corso d’acqua a circa 20 Km a sud-ovest di Shindand.
I militari deceduti – come informa lo Stato Maggiore della Difesa – sono il caporal maggiore capo Francesco Currò, nato il 27 febbraio 1979 a Messina, il primo caporal maggiore Francesco Paolo Messineo, nato il 23 maggio 1983 a Palermo, e il primo caporal maggiore Luca Valente, nato l’8 gennaio 1984 a Gagliano del Capo (Lecce). Sono le prime vittime italiane del 2012 in Afghanistan.
Gli uomini appartenevano al 66esimo Reggimento fanteria Trieste che ha sede a Forlì, inquadrato nella brigata aeromobile Friuli di Bologna e quasi interamente schierato nell’ovest dell’Afghanistan.
Numerosi i messaggi di cordoglio da parte delle Istituzioni e della politica. Il Capo dello Stato, Giorgio Napolitano ha diffuso una nota nella quale ha espresso “i suoi sentimenti di solidale partecipazione al dolore dei famigliari dei caduti, rendendosi interprete del profondo cordoglio del Paese”. Il presidente del Consiglio Mario Monti, “appreso con dolore il grave incidente in Afghanistan nel quale hanno perso la vita tre militari italiani ed esprime il suo cordoglio alle famiglie, partecipando con commozione al loro lutto”.
Mentre l'on. Giorgia Meloni commenta così la triste notizia:
"E’ mio desiderio esprimere profondo cordoglio alle famiglie dei militari deceduti in Afghanistan. E’ purtroppo un episodio che rinnova il dolore di una nazione intera, impegnata -proprio per onorare la memoria dei soldati morti e non vanificarne il sacrificio- a garantire la sicurezza globale e un futuro migliore a popolazioni oppresse. La conta dei caduti, sia in combattimento che in incidenti come quello di oggi, è un momento che rimane penoso e che non deve mai essere banalizzato. Seguo sempre con trepidazione gli eventi che si succedono laddove sono impegnate le nostre Forze Armate e anche in questa dolorosa occasione voglio rinnovare la mia gratitudine e la mia ammirazione per le migliaia di giovani italiani che stanno manifestando con uno spirito di sacrificio straordinario tutta la passione per il proprio lavoro e l’amore per l’Italia".
ONORE A VOI!
lunedì 17 maggio 2010
Due soldati italiani uccisi in Afghanistan.
Un ordigno "ad altissimo potenziale" è scoppiato sotto un blindato italiano diretto nell'avamposto di Bala Murghab, nell'ovest del'Afghanistan, zona calda al confine con il Turkmenistan: morti due alpini, il sergente Massimiliano Ramadù, di 33 anni, ed il caporal maggiore Luigi Pascazio, di 24.
Feriti gli altri due occupanti del mezzo: gamba fratturata per il caporal maggiore Gianfranco Scirè; di 28 anni; più serie le condizioni di una soldatessa, il caporale Cristina Buonacucina, di 26 anni, che non corre pericoli di vita.
Nulla da fare per Ramadù e Pascazio, morti subito: feriti principalmente alle gambe gli altri due occupanti del mezzo, che sono stati subito evacuati in elicottero verso l'ospedale da campo spagnolo di Herat. Mentre Scirè, il fuciliere che stava in ralla, ha riportato la frattura di una gamba, Cristina Buonacucina, la radiofonista del mezzo, ha subito fratture multiple alle gambe ed alle vertebre. Nel pomeriggio è stata quindi trasferita nel più attrezzato ospedale americano di Baghram dove è stata sottoposta ad accertamenti. Si sospettano lesioni alla colonna vertebrale, anche se comunque riesce a muovere le gambe. La donna ha riportato anche una compressione epatica, un versamento ematico e fratture alle caviglie. In serata è stata stabilizzata dai medici.
Ancora gli ordigni artigianali improvvisati, dunque, il pericolo numero uno per gli italiani in Afghanistan. Un pericolo ben chiaro ai vertici militari, ma subdolo e difficile da contrastare efficacemente. Gli alpini della Taurinense del generale Claudio Berto, che da circa un mese guida la Regione Ovest di Isaf, hanno schierato un intero battaglione di artificieri per affrontare al meglio la minaccia. I Lince, pur potenziati nei loro dispositivi anti-mina, non garantiscono l'incolumità dei passeggeri nel caso di elevate quantità di esplosivo, come si è visto oggi. Sono quindi in arrivo - saranno in Afghanistan a giugno insieme ai mille uomini di rinforzo che porteranno a 4.000 il numero degli militari italiani nell'Ovest del Paese - i nuovi superblindati Freccia: 'bestioni' da 28 tonnellate, con otto ruote motrici, che possono raggiungere 105 chilometri orari. Sono tecnologicamente avanzati e digitalizzati, con un livello di protezione balistica ed antimina superiore a quello dei Lince. Sono meno manovrabili di questi ultimi, ma piu' sicuri.
L'attacco di oggi è avvenuto in un'area, quella di Bala Murghab, dove è in corso un consistente sforzo da parte di Isaf per allargare la 'bolla' di sicurezza. E' infatti un'area molto difficile, al confine con il Turkmenistan, crocevia di traffici illeciti, dalla droga alle armi. Che insorgenti, talebani e altri criminali sono ben decisi a non lasciare nelle mani delle forze Nato. Si inserisce in questo quadro l'operazione che oggi portava rinforzi nel fortino Columbus, dove ci sono italiani, spagnoli, americani e afghani.
Domani mattina alla base di Herat sarà allestita una camera ardente per i due militari morti. Le salme verranno rimpatriate nella mattinata di mercoledi'. Domani il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, farà un'informativa alla Camera sull'accaduto. Intanto, arriva la solidarietà del Pentagono. "La loro opera - dice il portavoce - non è stata vana. Continueremo a impegnarci per vincere. Il loro sacrificio non sarà dimenticato". Il segretario generale della Nato, Anders Fogh Rasmussen, elogia i soldati italiani che "stanno facendo un eccellente lavoro in Afghanistan e la Nato apprezza molto il contributo italiano alla missione, nonche' il solido impegno politico che ha sempre dimostrato". La situazione nel Paese è sempre critica: oltre agli italiani, oggi sono morti anche altri due militari Nato per l'esplosione di ordigni.
Noi vogliamo esprime il nostro cordoglio per nosrti EROI caduti nell'ottemperanza del loro servizio. Allo stesso modo esprimiamo la nostra vicinanza e sentite condoglianze alle famiglie di questi nostri soldati.
La nostra Patria è là dove si lotta per la Libertà!
venerdì 16 ottobre 2009
Addio Rosario, Il tuo ricordo resterà vivo!
Il ministro della Gioventù, Giorgia Meloni, esprime il suo cordoglio alla notizia della morte del militare italiano in forza al reggimento degli alpini paracadutisti di Bolzano “Sono profondamente addolorata per la morte a Herat del caporalmaggiore Rosario Ponziano.
In questo momento di dolore e di lutto voglio essere vicina alla sua famiglia e ai suoi commilitoni, che con profondo senso del dovere continuano a prestare la loro meritoria opera. Il lavoro svolto da nostri militari in Afghanistan e nei difficili teatri dove le forze armate italiane sono attualmente chiamate a portare il proprio contributo in difesa della democrazia, della libertà e della pace è motivo d’esempio e di orgoglio per tutti i giovani d’Italia”.
circolo "Giorgio Almirante"
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