Salviamo i nostri Marò

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lunedì 7 gennaio 2013

STRAGE DI ACCA LARENTIA: PER NON DIMENTICARE!


Come ogni anno, il 7 gennaio, con il cuore e la mente siamo a Roma, per ricordare una delle più brutte e infami pagine della nostra storia. Un fatto di sangue, di prepotenza, di assurda follia. Il simbolo di una stagione, quella degli "anni di piombo", che qualcuno vorrebbe riproporre senza immaginarne le conseguenze. Franco, Francesco e Stefano, quel 7 gennaio, furono le vittime di un agguato antifascista (i primi due) e del gesto folle di un rappresentante dello Stato (il terzo). Uno Stato che non si è autoprocessato per quel delitto. Non importa, tanto siamo ancora qua. Col nostro sorriso e con la nostra voglia di lottare, anche nel loro nome.
 
Abbiamo camminato insieme, lottato e sperato.
Qualcuno si è perso.
Molti si sono aggiunti.
Siamo ancora in cammino.
IL FUTURO E' IN NOI PRIMA CHE ACCADA!
Franco, Francesco, Stefano
di Padre in Figlio.
 

 
 
 
PRESENTE! PRESENTE! PRESENTE!
 
Paginr di Storia:

giovedì 19 luglio 2012

In Ricordo di Paolo Borsellino.



Nacque a Palermo, il 19 gennaio del 1940, da genitori farmacisti. Dopo aver frequentato le scuole dell'obbligo, Paolo Borsellino, si iscrisse al Liceo Classico "Giovanni Meli". Durante gli anni del liceo, diventò Direttore del giornale studentesco "Agorà". Nel giugno del 1958 si diplomò e nel settembre dello stesso anno si iscrisse all’Università presso la Facoltà di Giurisprudenza a Palermo. Proveniente da una famiglia con simpatie politiche di destra, nel 1959 si iscrisse al Fuan, organizzazione universitaria del Movimento Sociale Italiano, di cui divenne membro dell’esecutivo Provinciale e fu eletto rappresentante studentesco nella lista del Fuan “Fanalino” di Palermo. Nel giugno del 1962, all'età di ventidue anni, Paolo Borsellino, si laureò con centodieci e lode. Nel 1963 partecipò al concorso per entrare in Magistratura. Classificatosi venticinquesimo sui centodieci posti disponibili, con il voto di cinquantasette, divenne il più giovane magistrato d'Italia. Iniziò quindi il tirocinio come uditore giudiziario e lo terminò nel settembre del 1965 quando venne assegnato al Tribunale di Enna nella Sezione Civile. Nel 1967 fu nominato Pretore a Mazara del Vallo. Nel 1969 fu Pretore a Monreale, dove lavorò insieme ad Emanuele Basile, Capitano dei Carabinieri. Proprio qui ebbe modo di conoscere per la prima volta la nascente mafia dei corleonesi. Il 21 marzo del 1975 fu trasferito a Palermo ed il 14 luglio entrò nell'ufficio istruzione Affari Penali sotto la guida di Rocco Chinnici. Con Chinnici si stabilì un rapporto di "adozione" non soltanto professionale. Nel febbraio del 1980 Paolo Borsellino fece arrestare i primi sei mafiosi. Grazie all'indagine condotta da Emanuele Basile e Paolo Borsellino sugli appalti truccati a Palermo a favore degli esponenti di Cosa Nostra si scoprì il fidanzamento tra Leoluca Bagarella e Vincenza Marchese sorella di Antonino Marchese, altro importante Boss. Il 4 maggio del 1980 Emanuele Basile fu assassinato e fu decisa l'assegnazione di una scorta alla famiglia di Paolo Borsellino. In quell'anno si costituì il “Pool” antimafia nel quale sotto la guida di Rocco Chinnici lavorarono alcuni Magistrati come Giovanni Falcone, lo stesso Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello, Leonardo Guarnotta e Giovanni Barrile ma anche funzionari della Polizia di Stato come Cassarà e Montana. Il pool nacque per risolvere il problema dei giudici istruttori che lavoravano individualmente, separatamente senza che uno scambio di informazioni fra quelli che si occupavano di materie contigue potesse consentire, nell'interazione, una maggiore efficacia con un'azione penale coordinata capace di fronteggiare il fenomeno mafioso nella sua globalità. Tutti i componenti del pool chiedevano espressamente l'intervento dello Stato, che non arrivò. Qualcosa faticosamente giunse nel 1982 quando il Ministro dell'Interno, Virginio Rognoni, inviò a Palermo il Generale dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, che proprio in Sicilia e contro la mafia aveva iniziato la sua carriera di ufficiale, nominandolo Prefetto. E quando anche questi trovò la morte, cento giorni dopo, nella strage di via Carini, il Parlamento italiano riuscì a varare la cosiddetta "Legge Rognoni - La Torre" con la quale si istituiva il reato di associazione mafiosa, l'articolo 416 bis del codice penale, che il pool avrebbe sfruttato per ampliare le investigazioni sul fronte bancario, all'inseguimento dei capitali riciclati. Il 29 luglio del 1983 fu ucciso Rocco Chinnici, con l'esplosione di un'autobomba, e pochi giorni dopo giunse a Palermo Antonino Caponnetto. Il pool chiese una mobilitazione generale contro la mafia. Nel 1984 fu arrestato Vito Ciancimino, mentre Tommaso Buscetta catturato a San Paolo del Brasile ed estradato in Italia, iniziò a collaborare con la giustizia. Tommaso Buscetta descrisse in modo dettagliato la struttura della mafia, di cui fino ad allora si sapeva ben poco. Nel 1985 furono uccisi da Cosa Nostra, a pochi giorni l'uno dall'altro, il commissario Giuseppe Montana ed il Vice - Questore Ninni Cassarà. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino furono per sicurezza trasferiti nella foresteria del carcere dell'Asinara, nella quale iniziarono a scrivere l'istruttoria per il cosiddetto "maxiprocesso", che mandò alla sbarra quattrocentosettantacinque imputati. Paolo Borsellino chiese ed ottenne nel dicembre del 1986 di essere nominato Procuratore della Repubblica di Marsala. La nomina superava il limite ordinariamente vigente del possesso di alcuni requisiti principalmente relativi all'anzianità di servizio. Nel 1987, mentre il maxiprocesso si avviava alla sua conclusione con l'accoglimento delle tesi investigative del Pool e l'irrogazione di diciannove ergastoli e duemilaseicentosessantacinque anni di pena, Antonino Caponnetto lasciò il Pool per motivi di salute e tutti si attendevano che al suo posto fosse nominato Giovanni Falcone, ma il Consiglio Superiore della Magistratura non la vide alla stessa maniera e il 19 gennaio del 1988 nominò Antonino Meli; sorse il timore che il Pool stesse per essere sciolto. Paolo Borsellino chiese il trasferimento alla Procura di Palermo e l'11 dicembre del 1991 vi ritornò come Procuratore Aggiunto, insieme al sostituto Antonio Ingroia. Il pomeriggio del 19 maggio 1992, nel corso scrutinio delle elezioni presidenziali, i quarantasette Parlamentari del Movimento Sociale Italiano votarono per Paolo Borsellino come Presidente della Repubblica. Il 23 maggio del 1992 nell'attentato di Capaci persero la vita Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta, Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo. Il 19 luglio, cinquantasette giorni dopo Capaci, Paolo Borsellino fu ucciso insieme agli agenti della scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Dopo aver pranzato a Villa Grazia con la moglie Agnese e i figli Manfredi e Lucia, Paolo Borsellino si recò insieme alla sua scorta in via D'Amelio, dove viveva sua madre. Una Fiat centoventisei parcheggiata nei pressi dell'abitazione della madre con circa cento chili di tritolo a bordo, esplose al passaggio del Giudice. L'unico sopravvissuto fu Antonino Vullo, ferito mentre parcheggiava uno dei veicoli della scorta. Una settimana dopo la strage, la giovanissima testimone di giustizia, Rita Atria, per la fiducia che riponeva nel Giudice Paolo Borsellino, decisa a collaborare con gli inquirenti pur al prezzo di recidere i rapporti con la madre, si uccise.

mercoledì 18 luglio 2012

Giovane Italia Crotone, "Nutriamo la legalità".




La Giovane Italia anche per quest'anno organizza la commemorazione del Giudice Paolo Borsellino e degli agenti della sua scorta, diventati eroi e pertanto bandiera della legalità. La manifestazione si svolgerà dalle ore 19,30 al giardino Falcone e Borsellino dove si terrà un breve momento di commemorazione. A venti anni dalla morte del Giudice ancora tanta è la strada da fare per debellare un cancro come la ndrangheta che ogni giorno impedisce alla nostra amata terra di svilupparsi, la politica mantiene ancora oggi zone d'ombra pericolose che scoraggiano sempre di più i cittadini della nostra terra, che ormai hanno perso fiducia nelle istituzioni. L'esempio lasciatoci da Paolo non dove essere soltanto una distaccata opera di repressione contro le mafie, ma un movimento culturale e morale che coinvolga tutti ed in particolar modo le giovani generazioni, "le più adatte a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell'indifferenza, della contiguità e quindi della complicità".
Come diceva il Giudice "Politica e mafia sono due poteri che vivono sul controllo dello stesso territorio: o si fanno la guerra o si mettono d'accordo" da questo concetto, poco ricordato da tutti, si deve partire per assicurare la totale estraneità delle forze politiche dalla ndrangheta e per farlo sono necessarie azioni e proposte di legge ad hoc che vadano in questa direzione. Invitiamo tutti i rappresentanti delle istituzioni, le forze politiche,i sindacati e le associazioni a partecipare alla commemorazione per schierarsi dalla parte di chi, con il proprio sacrificio, ci ha indicato la strada per ribellarci alle organizzazioni mafiose.

Giovane Italia
Circolo di Crotone.

martedì 17 luglio 2012

Giovane Italia lancia campagna nazionale sulla Legalità.




La Giovane Italia presenta in conferenza stampa la campagna nazionale sulla legalità e annuncia la mobilitazione nazionale per la fiaccolata del 19 luglio a Palermo, in ricordo della strada di Via d'Amelio.

"Questa campagna nasce dall'intenzione di richiedere verità e giustizia dopo 20 anni di omertoso silenzio dalle stragi dei giudici Borsellino e Falcone, ma allo stesso tempo abbiamo deciso di unire al ricordo, proposte di cambiamento per il bene della nostra Italia, per sconfiggere la mafia, per convincere la nostra generazione che esiste ancora una speranza. Crediamo che il primo apporto debba provenire dello Stato: chiediamo più vicinanza a chi denuncia, con il potenziamento del fondo di solidarietà per le vittime del racket e sgravi fiscali per gli imprenditori che decidono di denunciare.  Per un coinvolgimento più attivo nella lotta alla mafia da parte dei giovani, chiediamo che vengano assegnati proprio a questi ultimi i beni confiscati alla mafia. Ribadiamo l'importanza dell'inasprimento della pena per i mafiosi, e vogliamo politiche antiriciclaggio e più trasparenti nella gestione degli appalti. Da oggi troverete i nostri ragazzi in tutte le piazze, da settembre in tutte le scuole e le università, perché ovunque ci sarà un No alla mafia, noi ci saremo." Dichiara Annagrazia Calabria, coordinatore nazionale della Giovane Italia

"Naturalmente il primo e principale appuntamento sarà quello di Palermo il 19 luglio per la fiaccolata in memoria del giudice Borsellino, perché non a caso abbiamo scelto di lanciare questa campagna proprio nei giorni in cui si ricorda la strage di via d'Amelio. La nostra azione politica e umana non può che essere orientata sulle orme dei grandi uomini, come Falcone e Borsellino, che hanno testimoniato attraverso la loro vita, cosa significhi donare se stessi per amore della propria terra.  Il nostro impegno continuerà nei prossimi giorni, affinché questa campagna sia manifesto ideale di una generazione intera, che sogna e crede in un'Italia senza mafia. Oggi scegliamo di raccogliere idealmente quel testimone che anni fa il giudice Borsellino ha assegnato ai giovani nella lotta alla mafia: le negheremo il consenso, per amore nostro, dei nostri figli e della nostra terra." Dichiara Marco Perissa, presidente nazionale della Giovane Italia, Marco Perissa.

domenica 17 giugno 2012

In Ricordo di Giuseppe Mazzola e Graziano Giralucci - Padova 17 Giugno 1974.


Giuseppe Mazzola e Graziano Giralucci
La sede del Movimento Sociale Italiano a Padova, si trovava in via Zabarella al numero civico ventiquattro, in pieno centro città. Alcuni giorni prima della tragedia, un uomo, con false generalità, si era presentato in sede, per chiedere alcune informazione. In realtà si trattava di una visita di ricognizione per portare a termine un’operazione da parte di alcuni terroristi comunisti. L’obiettivo era di dimostrare che le sedi del Movimento Sociale Italiano non erano inviolabili e di prelevare documenti per acquisire informazioni concrete sulla destra veneta e padovana. La mattina del 17 giugno 1974 alle ore nove e trenta, un commando di cinque persone fece irruzione negli uffici del partito di Giorgio Almirante. Il primo uomo, era in macchina pronto per la fuga; il secondo, faceva da palo restando fuori all’edificio; il terzo, si trattò poi di una donna camuffata da una parrucca, attendeva sulle scale dell’edificio e infine gli ultimi due, muniti di pistole con silenziatori, fecero irruzione bloccando due militanti missini, Graziano Giralucci e Giuseppe Mazzola. Sotto la minaccia dei terroristi, i due missini furono prima perquisiti e poi costretti a spostarsi in un’altra stanza. Per niente intimoriti, Graziano Giralucci e Giuseppe Mazzola, tentarono di disarmare i terroristi. Ne scaturì una furibonda colluttazione con l’esplosione di alcuni colpi di pistola. Graziano Giralucci fu colpito alla spalla mentre Giuseppe Mazzola alla gamba destra. Feriti ma vivi, si accasciarono al suolo ormai inermi e freddati con un colpo di pistola alla testa. Graziano Giralucci, ventinove anni, nacque a Villanova di Camposampiero in provincia di Padova il 7 dicembre del 1944, faceva l’agente di commercio per articoli idraulici e sanitari. Ex giocatore di rugby e fondatore di due squadre “Excelsior” e “Cus Padova Rugby”, marito di Bruna Vettorato e padre di una bambina, Silvia, di tre anni. Si iscrisse al Movimento Sociale Italiano da ragazzo in seguito all’invasione dell’Ungheria nel 1956 ed era molto vicino alla corrente di Giorgio Pisanò. Giuseppe Mazzola, invece, sessant’anni, nacque a Telgate in provincia di Bergamo il 21 aprile del 1914 monarchico e Carabiniere in pensione, marito di Giuditta Caccia e padre quattro figli. Si avvicinò al Movimento Sociale Italiano quando Giorgio Almirante diede vita alla Destra Nazionale. Non iscritto al partito, si propose di tenere la contabilità della sede e il disbrigo della posta. Il giorno dei funerali, la città di Padova, era avvolta da un’atmosfera spettrale. Le forze dell’ordine erano pronte ad intervenire per evitare qualunque incidente. In strada non si vedeva anima viva, gli scuri erano abbassati e sui tetti si intravedevano le sagome dei cecchini della Polizia. Anche le disposizioni del Movimento Sociale Italiano furono tassative. Nessun gesto folcloristico o nostalgico era ammesso. Nella cattedrale, in Piazza del Duomo, migliaia di persone e delegazioni da tutto il paese parteciparono commossi alle esequie per dare l’ultimo saluto. Il giorno successivo all’azione terroristica, un volantino fu fatto recapitare a Padova e Milano con una telefonata al Corriere della Sera. Una grande scritta in stampatello maiuscolo “Brigate Rosse” al centro una stella con cinque punte asimmetriche schiacciate. Una rivendicazione chiara, netta, dettagliata e soprattutto firmata, eppure nessuno credeva seriamente alla nascita di una nuova organizzazione criminale. Mentre la Magistratura brancolava nel buio più totale, i giornali di sinistra, quali il Manifesto, l’Avanti e l’Unità, iniziarono una controinformazione, ipotizzando casi più assurdi. Uno per tutti la fantomatica “Pista Nera” che giustificava il duplice omicidio come un regolamento di conti interno al Movimento Sociale Italiano. Per i primi sei anni, l’azione di depistaggio fu considerata attendibile e ottenne grande successo. Solo negli anni ottanta, in seguito ad alcune confessioni di pentiti e indagini più serrate nei confronti delle Brigate Rosse, il procedimento procedurale per l’omicidio di Graziano Giralucci e Giuseppe Mazzola fu riaperto. Susanna Ronconi, la donna con la parrucca, pentita e dissociata dall’organizzazione terroristica, rilasciò un’ampia confessione sui fatti accaduti in via Zabarella. La prima azione violenta avvenne nell’aprile del 1974 con il rapimento del Procuratore Mario Sossi a Genova, ma l’omicidio di Graziano Giralucci e Giuseppe Mazzola fu il battesimo di fuoco effettuato e rivendicato a nome delle Brigate Rosse. Roberto Ognibene e Fabrizio Pelli furono gli esecutori materiali dell’azione, Susanna Ronconi con funzione di retroguardia e recupero documenti, Martino Serafini con funzioni di sentinella esterno all’edificio e Giorgio Semeria con funzione di autista. Nel processo, Fabrizio Pelli, non fu coinvolto in quanto già deceduto in carcere per leucemia nell’agosto del 1979. Oltre ai membri del commando esecutore furono individuati anche i mandanti dei vertici dell’organizzazione come Renato Curcio, Mario Moretti e Alberto Franceschini per concordo morale in duplice omicidio. Nel maggio del 1990 la Corte d’Assise confermò la colpevolezza degli esecutori e mandanti con pene che andavano dai diciotto a sei anni di reclusione. Nell’agosto del 1991 il Presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, propose la concessione della Grazia a Renato Curcio. Ovviamente, le famiglie delle vittime si opposero fortemente chiedendo addirittura la sospensione dallo status di cittadinanza italiana. Solo nel dicembre del 1991 la Corte d’Assise di Venezia emise definitivamente la sentenza che inasprì le pene per tutti gli imputati. Il Comune di Padova, nel 1992, dedicò alle due vittime l’intitolazione di due vie cittadine. Cosa strana avvenne invece nel palazzo di via Zabarella. Infatti mentre l’amministrazione cittadina diede il via libera, il condominio si oppose alla collocazione di una targa di bronzo commemorativa sulle sue mura. Forse per paura di rappresaglie o forse per dissenso politico, la targa fu posta su un paletto ma rasente al palazzo.


Giuseppe Mazzola e Graziano Giralucci
Presente!


mercoledì 23 maggio 2012

Gli uomini passano, le idee restano.



23 Maggio 1992 - 23 Maggio 2012

A 20 anni dal sacrificio di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Antono Montinaro, Vito Schifani e Rocco Di Cillo

Che il loro sorriso e la loro tenacia siano sempre da esempio per la nostra e tutte le nuove generazioni, Giovanni e Paolo non volevano diventare eroi, volevano solo fare il loro dovere per lasciare a noi e a tutti una Sicilia e un Italia migliore.
Il ricordo che deve restare indelebile nella nostra mente viene da queste parole:

Occorre compiere fino in fondo il proprio dovere, qualunque sia il sacrificio da sopportare, costi quel che costi, perché è in ciò che sta l'essenza della dignità umana.

"Gli uomini passano,le idee restano. Restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini". 
Giovanni Falcone.

domenica 20 maggio 2012

La Giovane Italia compatta contro la strage.



La Puglia si ferma e riflette sulla tragedia che ha colpito Brindisi, la perdita di Melissa e della strage non lascia spazio a dubbi: “c’è bisogno di fare giustizia”. E i ragazzi della Giovane Italia, Azione Universitaria e del Movimento Studentesco Nazionale danno voce al loro dolore.

Luciano Cavaliere Dirigente nazionale Giovane Italia: “La notizia lascia un senso di nausea, non si puó morire a 16 mentre si va a scuola. Far esplodere una bomba dinanzi ad una scuola è la peggior cosa che una mente umana, se così può essere definita, possa arrivare a pensare. Lo Stato intervenga con determinazione per estirpare questo schifo”.

Antonio Rodio Dirigente nazionale Azione Universitaria: “Quanto accaduto stamattina presso l’Istituto Professionale “Falcone” è allarmante e deve farci preoccupare. Politici da strapazzo che inneggiano alla violenza e che dicono che la mafia non uccide…, sono parole che non devono essere dette e nemmeno pensate. I ragazzi di Azione Universitaria Puglia con i ragazzi di Movimento Studentesco Nazionale, chiedono “Giustizia” dura e ferma per i colpevoli senza sconti di pena. Ci sentiamo vicini ai genitori e parenti delle vittime ed esprimiamo la nostra solidarietà e vicinanza.  è l’ora di dire BASTA ai criminali ed a tutte le loro organizzazioni, Brindisi e tutta la provincia non meritano tali gesti e azioni.

Davide Basso Presidente provinciale Giovane Italia bat: “La piena solidarietà e vicinanza va ai nostri fratelli di Brindisi. Il terribile episodio ha scosso il paese intero soprattutto per le tante coincidenze che fanno pensare alla mano della criminalità. Purtroppo anche le nuove generazioni hanno oggi vissuto quanto è vile, codarda e bastarda la mafia. La mafia si combatte e si vince soprattutto nella scuola e nell’educazione: tocca a tutti noi essere sempre vigili, continuare e rafforzare il nostro impegno per sconfiggerla. Ci aspettiamo da subito una risposta forte dallo Stato e dalla politica per sottolineare la fiducia reciproca tra i cittadini e le istituzioni. Anche il sacrificio di Melissa non rimarrà vano e siederà nei nostri cuori, accanto ai martiri che ricorderemo sempre.”

Fabrizio Sotero Presidente regionale Giovane Italia: “Esprimo dolore profondo per la famiglia della ragazza 16enne deceduta a seguito di un vile attentato. Un pensiero di vicinanza alle famiglie dei 7 feriti. Allo stesso tempo bisogna avere la massima cautela nell’esprimere qualunque giudizio sulla matrice dell’attentato. Al momento il sentimento che prevale è il dolore profondo per una giovane vita stroncata.”

Nicola Donno  Presidente Provinciale Giovane Italia Salento: “Quello accaduto a Brindisi e’ un atto di violenza cieca e folle, un gesto spregevole e barbaro che rappresenta un attentato al simbolo del futuro e della speranza: i più giovani.

E’ difficile trovare le giuste parole per commentare una vicenda così drammatica: sdegno, tristezza,  ingiustizia per una ragazzina che se ne va via attanagliano i nostri cuori oltre che un sentimento di assoluta impotenza e insicurezza.

Ora è indispensabile capire chi e’ il nemico che ha messo in piedi questo attentato e combatterlo con fermezza e determinazione.

A noi tutti spetta il compito di stringerci attorno alla città di Brindisi e alle famiglie dei giovani colpiti cercando di non essere cittadini di un’Italia che si ricorda di stare unita solo quando si muore.”

lunedì 16 aprile 2012

16 Aprile 1973 Rogo di Primavalle - Stefano e Virgilio aspettano Giustizia.



Erano circa le tre e dieci del mattino del 16 aprile 1973, quando alcuni aderenti all'organizzazione extraparlamentare di estrema sinistra Potere Operaio versarono del liquido infiammabile sotto la porta dell'appartamento abitato dalla famiglia composta da Mario Mattei, dalla moglie Annamaria e i figli, al terzo piano delle case popolari di via Bernardo da Bibbiena. Divampò un incendio che distrusse rapidamente l'intero appartamento. La madre Annamaria e i due figli più piccoli, Antonella di nove anni e Giampaolo di soli tre anni, riuscirono a fuggire dalla porta principale. Altre due figlie si salvarono. Lucia, di quindici anni, aiutata dal padre Mario, si calò dal balconcino del secondo piano e da lì si buttò, presa al volo ancora dal padre. Silvia, diciannove anni, si gettò dalla veranda della cucina e riportando incredibilmente solo qualche frattura. Due dei figli, Virgilio di ventidue anni, militante missino nel corpo paramilitare dei Volontari Nazionali, e il fratellino Stefano di otto anni morirono carbonizzati, non riuscendo a gettarsi dalla finestra. Il dramma avvenne davanti ad una folla che si era radunata nei pressi dell'abitazione, e assistette alla progressiva morte di Virgilio, rimasto appoggiato al davanzale, e di Stefano, scivolato all'indietro dopo che il fratello maggiore che lo teneva stretto con sé. Mario Mattei, era un ex volontario della Repubblica Sociale Italiana e Segretario della sezione Giarabub del Movimento Sociale Italiano. Insieme al figlio Virgilio reggevano le sorti di una sezione collocata in un quartiere dove la sinistra extraparlamentare era ben radicata sul territorio. Fu un vero e proprio attentato ad una famiglia missina. Gli attentatori lasciarono sul selciato una rivendicazione della loro azione. “Brigata Tanas – Guerra di classe – Morte ai fascisti – La sede del Movimento Sociale Italiano – Mattei e Schiavoncin colpiti dalla giustizia proletaria”. Le indagini da parte della Magistratura romana furono indirizzate agli ambienti della sinistra extraparlamentare anche se furono compiuti numerosi tentavi di depistaggio verso la pista della faida interna. Il 18 aprile del 1973 fu arrestato Achille Lollo come presunto responsabile e subito dopo rinviati a giudizio per strage anche Marino Clavo e Manlio Grillo, tutti appartenenti al movimento di Potere Operaio. Fu redatto un opuscolo denominato “Controinchiesta”, in cui la colpa fu attribuita ad alcuni esponenti di destra, mentre nel libro scritto da Giulio Savelli e intitolato “Primavalle: incendio a porte chiuse” si sosteneva la completa estraneità dei tre militanti. Molti gli intellettuali ed i giornali si schierarono a difesa degli imputati. Tra i più autorevoli quotidiani ci fu il Messaggero, molto diffuso nella Capitale, cui editore Alessandro Perrone era il padre di Diana, militante di Potere Operaio e successivamente coinvolta nelle indagini. Alla campagna innocentista contribuirono anche alcuni autorevoli personaggio della sinistra come il Senatore comunista Umberto Terracini, il Deputato socialista Riccardo Lombardi, lo scrittore Alberto Moravia e l’esponente dell’organizzazione “Soccorso Rosso Militante” Franca Rame. Al di fuori del Palazzo di Giustizia di Roma, durante tutte le udienze, ci furono manifestazioni della sinistra che chiedevano il proscioglimento dei tre militanti di Potere Operaio. Il 28 aprile del 1975, alla fine della quarta udienza del processo, vi furono scontri tra simpatizzanti di destra e sinistra, lo studente greco Mikis Mantakas, militante del Fronte Universitario di Azione Nazionale, fu ucciso a colpi di pistola da estremisti di sinistra in via Ottone. Il processo di primo grado iniziò il 24 febbraio del 1975, quasi due anni dal rogo. Inizialmente l’accusa fu di strage e la Pubblica Accusa richiese la pena dell’ergastolo. Dopo tre mesi il processo si concluse con l’assoluzione per insufficienza di prove degli imputati dalle accuse di incendio doloso e omicidio colposo. Quando il processo di secondo grado si concluse con la condanna a diciotto anni di reclusione per omicidio preterintenzionale, Achille Lollo, Marino Clavo e Manlio Grillo avevano lasciato il suolo italiano. Achille Lollo, si rifugiò prima in Angola e poi in Brasile, a Rio De Janeiro, Manlio Grillo, si rifugiò prima a Stoccolma e poi in Nicaragua, infine, Marino Clavo, si rifugiò a Stoccolma, arrestato ma mai estradato. Nel 2004, la Corte di Appello di Roma dichiarò estinta la pena per intervenuta prescrizione su istanza dell’Avvocato Francesco Romeo, difensore di Marino Clavo. Ma il 10 febbraio del 2005, Achille Lollo, in una videointervista al corrispondente del Corriere della Sera, ammise la sua colpevolezza, rivelò i nomi di altri tre militanti che parteciparono all’attentato e ammise di aver ricevuto aiuti dall’organizzazione di Potere Operaio. Il 12 febbraio, Oreste Scalzone, ex dirigente di Potere Operaio, rilasciò sul caso una intervista a Rainews24 in cui dichiarò di aver aiutato due colpevoli a fuggire. Il 13 febbraio, Franco Piperno, ex Segretario Nazionale di Potere Operaio, rilasciò una intervista sul quotidiano La Repubblica confermando che il vertice di Potere Operaio fu informato di tutto, seppur solo dopo il fatto. Il 17 febbraio, anche Manlio Grillo ammise, per la prima volta, in una intervista pubblicata su La Repubblica, la propria responsabilità. La Procura di Roma, ritenne opportuno riaprire il caso sulla base di nuovi indizi e di iscrivere sul registro degli indagati anche Paolo Gaeta, Diana Perrone e Elisabetta Lecco con l’accusa di strage. Sempre nello stesso anno, la famiglia Mattei sporse denuncia indicando come mandanti dell’attentato Franco Piperno, Lanfranco Pace e Valerio Morucci. Quest’ultimo, scrisse un libro dal titolato “Ritratto di un terrorista da giovane” in cui ammise che il vertice del movimento era perfettamente informato dell’accaduto e lui stesso incaricato a svolgere un interrogatorio ottenendo l’ammissione di responsabilità da parte di Marino Clavo. Tutti gli organizzatori, esecutori e comprimari della strage, ancora oggi sono a piede libero e taluni svolgono anche compiti di rilievo nell’informazione pubblica e della pubblicistica. Solo trenta anni dopo il “Rogo di Primavalle”, il Comune di Roma dedicò alle due vittime un parco, il parco “Stefano e Virgilio Mattei”, in via Battistini. Giampaolo Mattei, scampato miracolosamente all’incendio, nel 2005 fondò “Associazione Fratelli Mattei” dedita ad attività sociali e politico - culturali. Nel 2008, dopo un lungo e intenso lavoro, pubblicò il libro dal titolo “La notte brucia ancora – Il rogo che ha distrutto la mia famiglia” nel quale racconta un doppio dolore: quello silenzioso e quotidiano dell'assenza e quello sordo e impotente della giustizia negata.



Oggi come ieri
ONORE AI FRATELLI MATTEI!

domenica 15 aprile 2012

Senza memoria… senza vergogna!



Dopo 23 anni dall’ammissione di Gorbaciov che dichiarò il massacro di Katin in Polonia di 3000 ufficiali dell’esercito polacco una responsabilità dei comunisti c’è chi ancora in occidente cerca di celare e sviare la realtà, continuando a sostenere che l’eccidio sia stato opera dei nazionalsocialisti. I padroni della storia, gli stessi per cui le Foibe non sono mai esistite e i partigiani erano tutti gente per bene. La vergogna non alberga in certe coscenze.

Massacro di Katyn, un mistero svelato due volte sempre nello stesso giorno

Tredici aprile 1943, 13 aprile 1990, 47 anni esatti per ammettere le proprie responsabilità. Tanti ne corrono infatti da quando Radio Berlino annunciò il ritrovamento di miglia di polacchi assassinati e sepolti in fosse comuni nelle foreste di Katyn presso Smolensk a quando Michail Gorbacëv riconoscerà il massacrò come opera dei soldati con la falce e martello e non la croce uncinata. In mezzo decenni di menzogne, accuse reciproche e mezze ammissioni, con mezzo mondo comunista ancora convinto che la strage, circa 22mila persone uccise con un colpo alla nuca, sia stata commessa dai nazisti e la confessione dei russi frutto di mero opportunismo.
In effetti nella primavera del 1940 a Katyn fu consumato uno dei peggiori crimini contro l’umanità per la sua dimensione, la scientificità con cui venne portato a termine e l’inumano cinismo che stava alla sua base. Ma per capire le premesse del massacro bisogna però fare un passo indietro, esattamente al agosto 1939 quando a Mosca venne firmato il patto russo-tedesco tra i ministri degli Esteri Vjaceslav Molotov e Joachim von Ribbentrop. Esso prevedeva la spartizione della Polonia tra comunisti e nazisti, mano libera alle mire espansionistiche della Germania verso ovest e a quelle sovietiche verso nord. L’immediata conseguenza fu l’ingresso nel territorio polacco dei tedeschi il 1° settembre e dei sovietici il 17 settembre.
Il patto russo tedesco resistette per quasi due anni fino a quando il 22 giugno 1941 Adolf Hitler diede il via all’operazione Barbarossa, aggredendo l’Unione sovietica. Un’invasione che passò anche attraverso l’occupazione della parte polacca sotto dominazione russa. E nell’aprile dell’anno dopo, su indicazione di alcuni abitanti, l’esercito tedesco scoprì i primi corpi. E il 13 aprile Radio Berlino annunciò al mondo il ritrovamento: «È stata trovata una grossa fossa, lunga 28 metri e ampia 16, riempita con dodici strati di corpi di ufficiali polacchi, per un totale di circa 3.000. Essi indossavano l’uniforme militare completa, e mentre molti di loro avevano le mani legate, tutti avevano ferite sulla parte posteriore del collo causata da colpi di pistola. L’identificazione dei corpi non comporterà grandi difficoltà grazie alle proprietà mummificanti del terreno e al fatto che i Bolscevichi hanno lasciato sui corpi i documenti di identità delle vittime. È già stato accertato che tra gli uccisi c’è il generale Smorawinski di Lublino.»
Mosca negò e contrattaccò accusando a sua volte i tedeschi della strage. Le vittime, secondo la versione di Mosca, sarebbero stati polacchi fatti prigionieri dai russi, quindi impiegati in opere di costruzione ad ovest di Smolensk e infine catturati e giustiziati dalle unità tedesche nell’agosto 1941. Una versione subito smentita da una commissione medica indipendente, 12 esperti di altrettanti Paesi, che esaminò i corpi e fece risalire la loro morte al 1940 quando appunto la zona era sotto influenza sovietica. Rimasero tuttavia delle ambiguità perché i russi avevano usato armi e proiettili tedeschi, forse già pensando di far ricadere la colpa sulla Germania in caso di scoperta. E di fatti per 50 anni la vicenda rimase in una sorta di limbo, l’intero mondo comunista, anche in occidente, pronto ad accusare di «propaganda antisovietica» chiunque osasse sfiorare Mosca con il solo sospetto. Primo tra tutti lo stesso governo polacco.
Bisognerà attendere un altro 13 aprile, quello del 1990 quando finalmente, in piena Perestrojka, Gorbacëv, riusumò le carte segrete dell’Nkdv, il vecchio nome del Kgb, la terribile polizia segreta. Si scoprì così che il 19 settembre 1939, due giorni dopo l’invasione, Lavrentij Berija aveva già iniziato ad approntare campi di concentramento per i prigionieri polacchi. Probabilmente in vista del massacro che si svolse poi tra 3 aprile e il 19 maggio 1940. militari, guide, gendarmi, poliziotti e agenti penitenziari, vennero fatti uscire dai campi di Ostashkov, Kozielsk e Starobielsk. Kozielsk e Starobielsk, in tutto 22mila persone circa, di cui 8mila ufficiali. Portati a piccole gruppi nella foresta di Katyn, vicino al villaggio di Gnezdovo, a breve distanza da Smolensk, vennero giustiziati con un colpo alla nuca e sepolti in fosse comune.
Agghiacciante il motivo: indebolire ulteriormente la Polonia appena conquistata.
Poiché il meccanismo di leva polacca prevedeva infatti che ogni laureato divenisse ufficiale della riserva, il massacro avrebbe eliminato automaticamente la classe dirigente del Paese. Ma ancora oggi, a 23 anni dall’ammissione dell’ex Unione sovietica, molti comunisti in occidente, in particolare in Italia, negano questa versione. Per loro Michail Gorbacëv e un «agente della Cia» che ha svenduto la rivoluzione all’Occidente e per meglio infangare i 30 anni di stalinismo e i 70 di comunismo, ha confessato un crimine mai commesso.


venerdì 13 aprile 2012

Strage di Bologna. L'ora della verità!


Sono più di due anni che Carlos chiede incessantemente di parlare con la magistratura italiana, per rivelare la verità sulla strage di Bologna del 2 agosto 1980 e anche “di altre stragi”.  Ma i nostri pubblici ministeri non sembrano avere tempo per la delicata questione: saranno forse troppo impegnati negli scandali dei nostri politici!?

Carlos pronto a parlare: “Tutta la verità sulla strage del 2 agosto”

Bologna, 6 aprile 2012 - CARLOS lo Sciacallo torna a farsi vivo. E lancia un messaggio forte: «Sono pronto a dire tutto ciò che so per trovare i veri responsabili della strage del 2 agosto». Ilich Ramirez Sanchez, 62 anni, venezuelano, il terrorista più famoso del mondo, è attualmente detenuto nel carcere di massima sicurezza di Poissy, a Parigi, e proprio da lì ha mandato due lettere a un avvocato bolognese, Gabriele Bordoni, per nominarlo quale difensore di fiducia ed esprimere la propria posizione sulla bomba alla stazione e non solo.Sulla strage la Procura ha da tempo aperto un fascicolo bis e, di recente, c’è stata una svolta clamorosa. Il pm Enrico Cieri ha infatti indagato i due terroristi di sinistra Christa Margot Frolich e Thomas Kram, tedeschi, entrambi ex membri del gruppo di Carlos. Si tratta della cosiddetta ‘pista palestinese’, per la quale la bomba fu la punizione dei palestinesi all’Italia che aveva violato il ‘lodo Moro’. Per la strage, va ricordato, la magistratura ha invece condannato in via definitiva i terroristi ‘neri’ Giusva Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini.
Carlos, dal canto suo, ha un’idea diversa. Per lui furono la Cia e il Mossad, ma non ha mai voluto fornire prove.

QUANDO Cieri è andato a interrogarlo, anni fa, si è fermato subito: «Voglio parlare davanti a una commissione d’inchiesta in Italia». Ora fa molti passi avanti: si dice pronto a parlare ai magistrati e a dire tutto ciò che sa, chiedendo di essere trasferito in Italia (di recente, peraltro, la giustizia francese l’ha condannato per uno dei numerosi attentati di cui è accusato).

Scrive lo Sciacallo, in inglese:

«Egregio signore, ho appena ricevuto la sua lettera del 12 marzo scorso. Vorrei aiutarla ad eliminare gli ostacoli al fine di trovare i veri responsabili dell’attacco terroristico di Bologna. Sono inoltre pronto a rilasciare dichiarazioni sotto giuramento alla magistratura italiana competente».
Non si ferma solo alla strage di Bologna, Carlos, ma promette rivelazioni su altre stragi: «Tuttavia — continua —, dovremo incontrarci qui di persona non appena possibile al fine di preparare il miglior approccio tecnico per smantellare il muro di bugie che hanno bloccato la verità degli anni di sanguinari massacri di civili innocenti avvenuti in Italia. Qui le allego una lettera in francese, designandola come mio avvocato difensore per tutte le mie faccende in Francia… per prevenire ogni conflitto che potrebbero impedire la sua difesa degli interessi della famiglia Signorelli».

Paolo Signorelli, morto nel 2010, ideologo ‘nero’ accusato e poi scagionato per la strage, era assistito proprio da Bordoni. Conclude Carlos: «Ci faccia sapere con largo anticipo la data della sua visita». Poi la firma: «Vostro nella Rivoluzione, Carlos». L’altra lettera, in francese, è la designazione ufficiale dell’avvocato bolognese.

BORDONI sta già studiando le prossime mosse: «Carlos già nel settembre 2010 mi fece arrivare un messaggio, tramite il collega Sandro Clementi, dopo aver letto un articolo del Carlino. L’intenzione mia è da tempo quella di andarlo a sentire in Francia. L’ho chiesto alla Procura, ma il pm ha ritenuto non fosse utile. Mi sono rivolto inutilmente al magistrato di collegamento italo-francese e al nostro ministero. Per questo alla fine l’unica strada era quella della nomina. Domani (oggi; ndr) tornerò dal pm e gli chiederò di andare insieme a Parigi, visto che Carlos dice di avere nuovi elementi e di volerli rivelare. In caso negativo, ci andrò io e raccoglierò le sue indicazioni». La parola, ora, passa alla Procura.

di Gilberto Dondi.


mercoledì 4 aprile 2012

La resistenza accusata di genocidio.



La malinconica profezia espressa da Piero Buscaroli nel suo bel libro, Dalla parte dei vinti (Mondadori) secondo la quale la memoria degli sconfitti del 1945 sarebbe stata per sempre condannata all’oblio non si avvererà.

Luis Moreno Ocampo, procuratore capo della Corte penale internazionale dell’Aia ha accolto la domanda che chiede l’apertura di un’inchiesta per la morte di Lodovico Tiramani (milite scelto della Guardia nazionale repubblicana) e di altri quattrocento appartenenti alla Repubblica sociale, trucidati dalle bande partigiane. L’ipotesi di reato è genocidio. Il Tribunale dell’Aia ha risposto così al figlio di Tiramani, Giuseppe, che, attraverso la consulenza del suo legale Michele Morenghi, ha chiesto l’apertura del procedimento tramite una memoria dove si sostiene che: «Mio padre fu prelevato nei pressi di casa sua a Rustigazzo nel piacentino nel luglio del ’44 da un gruppo partigiano della brigata Stella Rossa, fu processato e condannato a morte senza un giudice, senza un comandante partigiano e senza una sentenza a verbale. Fu fucilato poche ore dopo nei pressi del Monte Moria. Mia madre lo trovò crivellato di colpi. Io non voglio vendette, ho già perdonato tutti coloro che uccisero mio padre, abitavano nel mio paese e li ho conosciuti personalmente dopo la guerra. Chiedo sia fatta giustizia per il suo caso e per tutti gli altri combattenti della Repubblica sociale uccisi in quegli anni nel piacentino».

Luis Moreno Ocampo, procuratore capo della Corte penale internazionale dell’Aia ha accolto la domanda che chiede l’apertura di un’inchiesta per la morte di Lodovico Tiramani (milite scelto della Guardia nazionale repubblicana) e di altri quattrocento appartenenti alla Repubblica sociale, trucidati dalle bande partigiane. L’ipotesi di reato è genocidio. Il Tribunale dell’Aia ha risposto così al figlio di Tiramani, Giuseppe, che, attraverso la consulenza del suo legale Michele Morenghi, ha chiesto l’apertura del procedimento tramite una memoria dove si sostiene che: «Mio padre fu prelevato nei pressi di casa sua a Rustigazzo nel piacentino nel luglio del ’44 da un gruppo partigiano della brigata Stella Rossa, fu processato e condannato a morte senza un giudice, senza un comandante partigiano e senza una sentenza a verbale. Fu fucilato poche ore dopo nei pressi del Monte Moria. Mia madre lo trovò crivellato di colpi. Io non voglio vendette, ho già perdonato tutti coloro che uccisero mio padre, abitavano nel mio paese e li ho conosciuti personalmente dopo la guerra. Chiedo sia fatta giustizia per il suo caso e per tutti gli altri combattenti della Repubblica sociale uccisi in quegli anni nel piacentino».

Eppure autorevoli testimoni di quella guerra fratricida, che si trasformò in tiro al piccione, sapevano. Sapevano e tacquero. Benedetto Croce, ad esempio. Dalla lettura dei Taccuini di guerra del vecchio filosofo, editi solo nel 2004, emerge con forza il timore che la guerra partigiana possa trasformarsi in una rivoluzione «comunistico-socialista», che, in breve, avrebbe consegnato l’Italia a un altro totalitarismo, forse più spietato, come andava dimostrando con abbacinante chiarezza la «liberazione» di Polonia, Ungheria e degli altri paesi danubiani e balcanici, operata dalle truppe sovietiche, coadiuvate dalle formazioni partigiane comuniste. La rivelazione della strage di Katyn, avvenuta da parte dell’Armata Rossa, tra marzo e maggio del 1940, confermava in Croce questo timore, quando anche in Italia si era appreso dell’«eccidio fatto dai russi di migliaia di ufficiali polacchi, che erano loro prigionieri». La minaccia di una sovietizzazione imposta con la violenza, scriveva il filosofo, si avvicinava anche al nostro paese. Era già attiva nelle regioni orientali esposte alle violenze delle «bande di Tito». La si scorgeva serpeggiare nella gestione dell’epurazione antifascista delle strutture statali «maneggiata dai commissari comunisti» che tentavano di attuare «un’infiltrazione del comunismo», perpetrata «contro le garanzie statutarie, conto le disposizioni del codice, per modo che nessuno è più sicuro di non essere a capriccio fermato dalla polizia, messo in carcere, perquisito».

Tutto questo avveniva, in ossequio alla «rivoluzione vagheggiata e sperata». E sempre in ossequio a quel progetto eversivo, le regioni settentrionali dell’Italia, controllate dagli elementi estremisti del Cnl, divenivano il teatro di stragi di massa contro fascisti, ma più spesso contro vittime del tutto innocenti. L’8 agosto 1945 la famiglia Croce riceveva la visita di un conoscente «che ci ha commossi col racconto del fratello incolpevole, non compromesso col fascismo, ucciso con molti altri a furia di popolo a Bologna». Nella stessa pagina del diario, si annotava: «In quella città gli uccisi sono stati due migliaia e mezzo, tra questi trecentocinquanta non identificati».

Tra il vero antifascismo e resistenza si scavava, con questa testimonianza, un abisso profondo. Si alzava uno steccato, che soltanto la costruzione di una memoria contraffatta di quegli anni terribili ha potuto per molto tempo celare.

di Eugenio Di Rienzo

venerdì 23 marzo 2012

Pagine di Storia ...


L'IMBOSCATA DI VIA RASELLA

di Ivaldo Giaquinto.



Nella ricorrenza del venticinquesimo anniversario della fondazione dei Fasci di combattimento, avvenuta a Milano il 23 marzo 1919, un gruppo del movimento clandestino di resistenza romano preparò e attuò un temerario attentato contro i tedeschi, che ebbe tragiche conseguenze di sangue per la popolazione romana e scosse profondamente la coscienza nazionale.
Il 23 marzo 1944 alle ore 15 circa, nell'interno della città aperta di Roma, in pieno centro storico, in via Rasella, all'altezza di palazzo Tittoni, mentre passava un reparto di 156 uomini della 11a Compagnia del Reggimento "Bozen", comandato dal maggiore Helmut Dobbrick - che da quindici giorni era solito percorrere quella strada per rientrare in caserma dopo le esercitazioni - scoppiava una bomba a miccia ad alto potenziale collocata in un carrettino per la spazzatura urbana, confezionata con 18 chilogrammi di esplosivo frammisto a spezzoni di ferro. La tremenda esplosione causò la morte di trentadue militari tedeschi e di due civili italiani di cui un bambino di dieci anni.
Subito dopo lo scoppio una squadra di appoggio, che sostava tra via del Boccaccio e via del Traforo, lanciava delle bombe a mano contro la coda del reparto per disorientare i militari e quindi si dileguava verso via dei Giardini allontanandosi rapidamente dalla zona.
Coloro che presero parte all'azione furono: Rosario Bentivegna che, travestito da spazzino, trasportò la bomba con la carretta; Franco Calamandrei, che si tolse il berretto per indicare a Bentivegna che il reparto aveva imboccato via Rasella e che la miccia per l'esplosione doveva essere accesa; Carla Capponi, che aspettava Bentivegna all'angolo di via delle Quattro Fontane; e poi Carlo Salinari, Pasquale Balsamo, Guglielmo Blasi, Francesco Cureli, Raoul Falciani, Silvio Serra e Fernando Vitagliano. Questi giovani (tra i 20 e i 27 anni) facevano parte di uno dei tanti gruppi denominati di Azione Patriottica (Gap) e dipendevano dalla Giunta militare, emanazione del Comitato di Liberazione Nazionale (Cln), di cui erano responsabili Giorgio Amendola (comunista), Riccardo Bauer (azionista) e Sandro Pertini (socialista). L'ordine di eseguire l'imboscata di via Rasella, preparata nei minimi particolari da Carlo Salinari, fu dato dai responsabili della Giunta militare. Successivamente Bauer e Pertini dichiararono di non essere stati preventivamente informati e che l'ordine venne dato da Amendola a loro insaputa. Amendola stesso, qualche tempo dopo, confermò la versione, rivendicando a se stesso la responsabilità di aver dato ai "gappisti" l’ordine operativo per l'attentato.
La sera del 26 marzo i giornali pubblicarono il testo del comunicato ufficiale germanico. In uno stile freddo, burocratico, la cittadinanza romana viene a sapere che: "Nel pomeriggio del 23 marzo 1944 elementi criminali hanno eseguito un attentato con lancio di bombe contro una colonna tedesca di polizia in transito per via Rasella. In seguito a questa imboscata trentadue uomini della polizia tedesca sono stati uccisi e parecchi feriti. La vile imboscata fu eseguita da comunisti-badogliani. Sono ancora in atto indagini per chiarire fino a che punto questo fatto è da attribuirsi ad incitamento anglo-americano. Il Comando tedesco è deciso a stroncare l'attività di questi banditi scellerati. Il Comando tedesco ha perciò ordinato che per ogni tedesco ammazzato dieci comunisti-badogliani saranno fucilati: quest'ordine è stato eseguito".
Processo Kappler. Tribunale Militare di Roma, 20 luglio 1948. Momento drammatico di alta tensione in aula quando, nel corso dell'udienza, esce dal pubblico una voce straziante di donna che investe violentemente Rosario Bentivegna presente in aula in qualità di testimone: "Assassino, codardo! Ho la mia creatura alle Fosse Ardeatine, perché non ti sei presentato, vigliacco?". È un’invettiva che esce dal cuore lacerato di una madre. Scottante, crudele. Essa pone il problema morale della guerriglia e solleva un dubbio atroce: si poteva evitare la rappresaglia dei tedeschi? In altre parole, se i responsabili materiali dell'attentato si fossero presentati, il Comando tedesco avrebbe ugualmente deciso la rappresaglia?
Il presidente del Tribunale, gen. Euclide Fantoni, pone la domanda a uno dei protagonisti presenti, Rosario Bentivegna, appunto. Il teste risponde che la presentazione degli attentatori non fu esplicitamente richiesta dai tedeschi. “Se ci fosse stata - afferma - mi sarei presentato". E aggiunge: "la colonna tedesca costituiva un obiettivo militare. Facevano rastrellamenti e operavano arresti. Erano soldati. Ho avuto l'ordine di attaccarli e li ho attaccati".
"No, - ribatte Kappler - l’eccidio avrebbe potuto essere evitato se si fosse presentato l'attentatore o se fosse venuta un'offerta della popolazione. D’altra parte, da mesi erano affissi manifesti per gli attentati con l'indicazione della rappresaglia da uno a dieci".
"No, - dice l'accusa - i manifesti di cui parla l'imputato Kappler erano stati affissi due mesi prima e lasciati esposti per soli due giorni".
Il punto da chiarire, quindi, non era tanto quello di sapere se la rappresaglia ci sarebbe stata oppure no. Era noto alle autorità politiche e amministrative, e a larga parte della popolazione, che ad ogni attentato le rappresaglie c'erano sempre, puntualmente. Quello che bisognava appurare era se un avviso, un comunicato fosse stato diramato dal Comando tedesco agli esecutori dell'attentato per invitarli a presentarsi onde evitare una strage di persone innocenti. Come abbiamo visto dagli atti del processo, Bentivegna lo esclude.  Ma Domenico Anzaldi di Roma, in una lettera al settimanale "Panorama" (n. 414 del 28 marzo 1974) afferma: "Senza voler entrare nella polemica sulle responsabilità della strage delle Fosse Ardeatine, desidero testimoniare che la sera dell'attentato di via Rasella è stato affisso sui muri di Roma, e io l'ho letto, un manifesto preannunciante che il Comando tedesco avrebbe fatto uccidere dieci «comunisti badogliani» per ogni militare tedesco morto" .
 In una intervista Bentivegna dichiara: "Non credo che se mi fossi costituito la rappresaglia non sarebbe avvenuta..." ("Oggi" n. 52 del 24 dicembre 1946).
Ma due avvenimenti tragicamente analoghi a quello di via Rasella, al contrario di quello sublimati dall'olocausto di quattro innocenti, mettono in una luce diversa l’affermazione di Bentivegna. Quello di Palidoro, in provincia di Roma, avvenuto nel settembre 1943, è noto. Avendo i tedeschi catturato ventidue ostaggi per consumare su di essi la rappresaglia in seguito allo scoppio di una bomba nella locale caserma, il vicebrigadiere dei Carabinieri, Salvo d'Acquisto, con grande eroismo e coraggio si presentò al Comando tedesco dichiarandosi, sebbene innocente, autore dell'attentato. Venne fucilato, ma col suo sacrificio salvò la vita di ventidue innocenti che stavano per essere fucilati; medaglia d'oro al valor militare. Meno noto è quello di Fiesole, in provincia di Firenze, svoltosi nell'agosto 1944. Tre carabinieri della locale stazione - Vittorio Marandola, Alberto La Rocca e Fulvio Sbarretti - per salvare le vite di dieci innocenti ostaggi si presentarono ai nazisti che li fucilarono immediatamente contro un muro dell'albergo Aurora; medaglie d'oro al valor militare.
Dice Bentivegna: "La colonna tedesca costituiva un obiettivo militare. Facevano rastrellamenti e operavano arresti. Erano soldati. Ho avuto l'ordine di attaccarli e li ho attaccati". Al processo Kappler si apprese, invece, che il reparto di 156 militari preso di mira dai "gappisti" romani non era di truppe combattenti, ma era formato da riservisti altoatesini che non operavano rastrellamenti e arresti ma erano destinati a compiti di ordine pubblico, compatibili con le norme che regolavano il funzionamento della città aperta di Roma.
In un giornale di Milano, nell'edizione romana del 19 febbraio 1978, in un servizio dal titolo: "Parla uno dei partigiani di via Rasella per l'attentato del 23 marzo 1944", Pasquale Balsamo sottolinea: "È stata universalmente riconosciuta una azione di guerra". Il Tribunale Militare di Roma, che il 20 luglio 1948 condannò Kappler all'ergastolo, pur stigmatizzando duramente il massacro perpetrato alle Cave Ardeatine, sia per la sua sproporzione che per l'inaudita crudeltà e ferocia usata verso le inermi e innocenti vittime, trattate peggio delle bestie da mattare, dovette prendere atto che, secondo il diritto internazionale (art. I della Convenzione dell'Aia del 1907), l’attentato di via Rasella fu un fatto illegittimo. Chi invece considerò l'imboscata di via Rasella "un'azione legittima di guerra" fu la Magistratura ordinaria, che con sentenza della Corte di Cassazione dell' 11 maggio 1957 non accolse le richieste di risarcimento avanzate dai parenti delle vittime, già respinte dal Tribunale e dalla Corte d'Appello civili di Roma, e sentenziò definitivamente che ogni attacco contro i tedeschi costituiva un “atto di guerra". In seguito, l’attentato fu sempre rivendicato come azione di guerra da tutte le autorità dello Stato.
La condanna all'ergastolo inflitta a Kappler dalla Magistratura militare fu invocata non per la rappresaglia seguita all'azione di via Rasella; non per aver fatto uccidere dieci italiani per ognuno dei trentadue "tedeschi" morti in via Rasella, eseguendo un ordine superiore, ma per il delitto di omicidio volontario per aver fatto fucilare 15 persone in più: 335 anziché 320. Dieci per il trentatreesimo militare altoatesino deceduto successivamente in ospedale (senza aver ricevuto specifico ordine dal gen. Maeltzer, suo superiore diretto), e cinque per errore contabile sul numero delle persone contenuto in una lista delle vittime designate. Nella condanna fu anche considerato il reato di requisizione arbitraria di beni per avere, nel settembre del 1943, estorto agli ebrei romani 50 chilogrammi di oro.
Scrive Jo Di Benigno nel suo libro "Occasioni mancate": "Era ormai cosa nota a tutti che per ogni tedesco ucciso, dieci italiani venivano sacrificati. L'attentato di via Rasella non ha nulla di glorioso".
Ripa di Meana scrive sull'organo clandestino della Resistenza "L'ltalia nuova" del 4 aprile 1944: "Per Roma intera la deplorazione dell'attentato fu unanime; perché assolutamente irrilevante ai fini della guerra contro i tedeschi nella quale il nostro paese è impegnato; perché insensato, dato che il maggior danno ne sarebbe certamente derivato alla popolazione italiana; per quell'ampio senso di umanità che distingue noi latini e che non si estingue neppure durante gli orrori di una guerra e per il quale ogni inutile strage non può trovare la sua giustificazione nell'odio ma solo nella necessità".
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    Alla onesta imparziale ricostruzione che Ivaldo Giaquinto ha scritto per "Volontà", desideriamo aggiungere qualche nota a seguito di quanto s'è detto nella ricorrenza del cinquantenario di quel triste episodio. Soprattutto desideriamo evidenziare gli sforzi che qualcuno, come lo scrittore Paolo Volponi, fa ancora nel tentativo di giustificare l'attentato di via Rasella per levarsi dallo stomaco il peso di tanti morti innocenti. Scrive ("Corriere della sera" del 25 marzo 1994) Volponi: “L'agguato di via Rasella è stato quindi un vero e proprio atto di guerra, coraggioso e ben condotto", concludendo "Nessun soldato ha mai dovuto provare la necessità di espiare per le morti seminate in battaglia": ma quale microscopica mistificazione, quale vera presa in giro è mai questa. Soldato è quello in divisa, è quello che si riconosce e in battaglia si trova di fronte a un soldato nemico a sua volta in divisa, e i due sono uno contro l'altro, cioè tu cerchi di prevalere su di me ed io cerco di fare altrettanto su di te.
    L'assassino invece è in abiti borghesi e ti ammazza perché tu non sai che è un assassino, altro che "morti seminate in battaglia"! Del resto, sullo stesso quotidiano milanese (23 marzo 1994), Sergio Quinzio è stato in proposito molto chiaro: "Se i tedeschi infierirono - scrive - con una rappresaglia al di là dei limiti imposti dalla legge di guerra, gli attentatori, facendo saltare un reparto di soldati tedeschi non impegnati in combattimento, compiendo cioè un'azione più dimostrativa che di reale portata militare e sapendo bene la sproporzione che avrebbe avuto la rappresaglia, avrebbe dovuto, se proprio avessero deciso in quel modo, uscire allo scoperto e pagare il prezzo della loro azione con la loro vita". Coraggiosamente, invece, gli attentatori fuggirono subito e si tennero ben nascosti, lasciando che i tedeschi uccidessero - come era stato previsto in precedenza in casi del genere - centinaia di innocenti, ma non come scrive "Sette" del 24 marzo 1994 perché "colpevoli soltanto di essere italiani" bensì vittime inconsapevoli degli attentatori come lo erano stati, senza possibilità di difendersi, i 35 altoatesini del reparto tedesco obbiettivo degli attentatori.
    Le centinaia di morti, altoatesini compresi, dovrebbero pesare sulla coscienza soprattutto del principale protagonista dell’episodio, invece Rosario Bentivegna - per questa...gloriosa azione addirittura decorato di medaglia d 'argento - oggi docente di medicina del lavoro non esita a dichiarare che rifarebbe tutto.
    Adesso il quotidiano di lingua tedesca "Dolomiten" parlando di via Rasella scrive di "un'azione insensata sul piano politico e su quello militare... e come ogni altro atto di viltà, essa rappresenta tutt'altro che un attestato di gloria per la Resistenza italiana". E "L'Osservatore romano", a sua volta, condannando l'azione già cinquant'anni fa scriveva essersi trattato di "una manovra politicamente e militarmente insensata...e di una diretta sfida a Pio Xll". Nel giugno del 1980 Marco Pannella si chiedeva pubblicamente se i morti di via Rasella fossero da attribuire alla necessità della guerra partigiana o non piuttosto al tornaconto del partito comunista. Pannella in quell'occasione si chiedeva testualmente: "Quale fu la verità di via Rasella? È vero che gran parte dei quadri antifascisti e anche comunisti non direttamente organizzati dal PCI, che lo stesso comando ufficiale della Resistenza romana erano contrari all'ipotesi dell'azione terroristica e furono contrari ai comportamenti successivi dei dirigenti del PCI? Come mai l'argomento è rimasto tabù anche per gli storici democratici?".
    È l'eroico (?) Bentivegna, cercando di giustificare la sua viltà nel libro da lui scritto "Achtung Banditen! Roma 1944" ha affermato "era nostro dovere non presentarci a un bando del nemico che ci avesse offerto la vita degli ostaggi in cambio della nostra", quanto dire "meglio che muoiano loro che noi".
    Meno disonesto Amendola che "non riusciva a liberarsi dalla sensazione di una responsabilità personale" perché, ricordando l'episodio recentemente ha scritto Silvio Bertoldi, "lo avevano deciso i comunisti del CLN, con l'assenso del loro leader Giorgio Amendola ".