Il denaro d’argento di Carlo Magno aveva conquistato l’Europa, insieme al suo potere. Anche più dell’euro attuale: era arrivato perfino in Gran Bretagna. Tutto funzionava bene, finché il sistema non entrò in crisi: le diverse nazioni cominciarono a intraprendere percorsi economici diversi, come Firenze, Venezia e Genova, e allora coniarono monete proprie. Il denaro di Carlo Magno non era considerato abbastanza affidabile, e venne man mano lasciato da parte.
L’altra volta che abbiamo rinunciato all’euro è stato mille anni fa e non se n’è accorto nessuno. Anzi, alla fin fine è andata pure meglio, visto che quell’euro lì (che ovviamente non si chiamava euro) era una schifezza di gran lunga peggiore di quello attuale ed è stato sostituito da belle monetone d’argento che erano una libidine.
Mettiamola così: dopo la fine dell’impero romano la moneta è andata in soffitta. Nel Medioevo non ce n’era granché bisogno, bastava il baratto. E poi in quel giardino dei semplici che era la società di quel tempo i compiti erano molto chiari: si era divisi in tre. Al vertice stavano gli “oratores” (i monaci) che con le loro preghiere combattevano contro il diavolo, subito sotto c’erano i “bellatores” (i nobili) che con le loro spade combattevano contro i nemici della Chiesa e quindi si allargava l’enorme e indistinta massa dei “laboratores” (tutti gli altri) che con il loro lavoro avevano il compito di mantenere gli altri due gruppi, troppo impegnati a muovere la bocca o a mulinare la spada. Non c’era certo bisogno di denaro: chi produceva un tot di grano sapeva che doveva darne una parte consistente al proprio signore, tenerne da parte una quantità per seminare l’anno successivo e quel che gli avanzava, se gli avanzava, poteva usarlo per sfamare sé e la propria famiglia.
Qualcuno che usava i soldi in realtà c’era: i grandi mercanti. Ma per i loro bisogni al tempo piuttosto limitati bastavano e avanzavano i mancusi arabi e gli iperperi bizantini, monete d’oro che avevano una circolazione scarsa nel numero, ma estesa nello spazio, in tutta l’Europa occidentale. Non è difficile ritrovare qualcuna di queste monete orientali negli scavi archeologici dell’Europa settentrionale.
Poi arriva Carlo Magno e cambia tutto. Stabilisce che il Sacro romano impero debba avere una moneta degna del suo illustre predecessore, e decide di coniare il denaro. Usa l’argento (1,7 grammi a moneta, a 950 millesimi) e lo battezza con il medesimo nome che usavano i romani. Incidentalmente si ricorderà che con un libbra d’argento si coniavano 240 denari e quindi la gente comincerà a usare dire «una lira» anziché «240 denari» più meno nello stesso modo in cui noi, oggi, diciamo «100 chilometri» invece di «100.000 metri».
Carlo Magno comanda su un’impero vastissimo e il suo denaro d’argento, nel IX secolo, diventa di fatto una moneta unica europea, un euro dei suoi tempi. Anzi, a nord ha pure più successo dell’euro attuale perché riesce ad attraversare la Manica per essere usato nell’Inghilterra meridionale (dove giusto pochi anni prima Offa, re di Mercia, aveva coniato una monetina con un nome pure quello destinato al successo: il penny). A sud, invece, la moneta unica carolingia si ferma alla Toscana. L’Italia meridionale fa parte delle zone d’influenza degli arabi e dell’impero bizantino e lì il denaro non penetra. Roma sta in mezzo e, secondo i periodi, utilizza bisanti e mancusi, oppure denari, a fasi alterne.
Il sistema funziona senza intoppi per un po’. Ma poi ognuno va per i fatti suoi. Il Sacro romano impero si frantuma e le varie zecche si regolano come credono i vari signori a cui sono sottoposte. C’è bisogno di quattrini per finanziare una guerra? Il sistema è semplice: si abbassa il contenuto di argento fino nelle monete, si lucra su quello, e il gioco è fatto. In questo modo con una lira si conieranno più di 240 monete. Inizia così un’inflazione che uno storico come Carlo Maria Cipolla, ha considerato secolare: con una lira, moneta fantasma perché semplice unità di conto, ai tempi di Carlo Magno si comprava una collina con annesso boschetto, nell’Italia di fine Novecento con una lira non si comprava più nulla. La moneta era tornata a essere fantasma, solo che ora il suo valore era talmente ridotto da obbligare a utilizzarne soltanto i multipli.
Ma torniamo all’euro carolingio: all’inizio del X secolo, entra in una fase di secolare decadenza che lo porterà a scomparire. Attorno all’anno Mille in Italia funzionano soprattutto quattro zecche: Pavia, Milano,Verona e Lucca. La maggior parte delle monete in circolazione nell’Italia settentrionale viene coniata in una di queste città. Solo che dopo il disallineamento succede che una lira, poniamo, lucchese abbia un valore diverso dalla lira pavese. E quindi bisogna tenerne conto. Sappiamo che nel 1164 il denaro pavese contiene 0,2 grammi di argento fino; mentre 150 anni prima ne conteneva ancora un grammo. Le monetine del XI e XII secolo contengono sempre più rame e sempre meno argento, quindi diventano scure, tanto che le chiamano “bruni” o “brunetti”. Sono dischetti piccoli, scuri e brutti, tanto comuni che persino oggi, nel mercato numismatico, sono valutati pochissimo. Un migliaio d’anni più tardi gli effetti di quell’inflazione si fanno sentire ancora.
Nel frattempo però succede che Genova e Venezia diventino potenze commerciali internazionali. Il brutto e svilito euro carolingio non basta più a soddisfare le esigenze di quelle transazioni. Liguri e veneti se la cavano usando sempre di più le belle monete bizantine, ma arriva il momento in cui devono fare da soli. Genova inizia a battere moneta propria nel 1138, anno in cui re Corrado glielo concede; a Venezia fino al 1183 circola soprattutto denaro veronese, ma da quell’anno comincia a coniare denari in proprio.
È arrivato il momento della svolta: in un momento imprecisato tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo Genova e Venezia si mettono a coniare una nuova e bella moneta di buon argento a 965 millesimi, pesante 2,2 grammi. La chiameranno grosso e avrà presto un enorme successo, tanto da diventare il mezzo di scambio sui mercati internazionali. Via via seguono gli altri: dopo il 1230 anche tutte le zecche toscane battono grossi. La coniazione del grosso avviene in una congiuntura favorevole: al bisogno di una buona moneta si affianca la disponibilità d’argento grazie ai pagamenti in barre di metallo prezioso dei cavalieri franchi giunti a Venezia in attesa di imbarcarsi per la IV crociata (che nel 1204 invece di andare a Gerusalemme finirà per conquistare e saccheggiare Costantinopoli, ma questa è un’altra storia).
Nel 1252 Genova prima e Firenze poi, a distanza di pochi mesi, cominano a produrre una moneta d’oro: il genovino e il fiorino. Entrambe le monete pesano tre grammi e mezzo, hanno un titolo di oltre 950 millesimi e segnano la fine di un’epoca: quella del monometallismo argenteo, inaugurata da Carlo Magno mezzo millennio prima. L’euro carolingio finisce così definitivamente in soffitta.
Fonte: Linkiesta.it
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