Salviamo i nostri Marò

Salviamo i nostri Marò
I nostri due militari devono tornare a casa

Siamo contro ogni genere di Discarica nel nostro Territorio!

sabato 16 giugno 2012

In ricordo di Francesco Cecchin.


Solo coloro che hanno Fede 
sfidano e rovesciano il destino


Siamo nel maggio del 1979 e la tensione nelle strade è molto alta, nel quartiere Trieste – Salario i militanti del Fronte della Gioventù e le loro sezioni sono più volte presi di mira da gruppi organizzati vicini al P.C.I. Questi “attivisti” infatti avevano causato nello stesso mese prima un attentato incendiario contro la sede del Fronte della Gioventù di viale Somalia e poi si erano resi protagonisti,  in più di un’occasione di minacce ed atteggiamenti aggressivi. Sono gli anni della violenza, della guerra civile nelle strade e nelle piazze, sono gli anni della lotta armata, sono gli anni dove i giovani  si uccidono a vicenda per le proprie idee, per i vestiti che indossano e per i quartieri dove vivono. Sono gli anni di piombo.
La sera del 28 maggio, intorno alle ore 20, quattro ragazzi del F.d.G., tra cui Francesco Cecchin, si recano in piazza Vescovio per affiggere manifesti, ma vengono subito notati da un gruppo di militanti della sezione comunista di via Monterotondo, che danno inizio ad una serie continua di provocazioni; gli attivisti del PCI sono una ventina capeggiati da Sante Moretti che si rivolge ai ragazzi del Fronte con affermazioni del tono seriamente minaccioso e alla fine dopo una discussione apostrofa direttamente lo stesso Francesco Cecchin  lanciandogli un messaggio chiarissimo” SE MI FAI ARRABBIARE TI POTRESTI FARE MALE!” sono le precise parole pronunciate dal Moretti al giovane missino.

La stessa sera, intorno alla mezzanotte, Francesco Cecchin scende di casa insieme alla sorella per una passeggiata fino a via Montebuono, dove un suo amico lavora in un ristorante; è già passata la mezzanotte e mentre i due ragazzi sono fermi davanti all’edicola di piazza Vescovio spunta una Fiat 850 bianca che inchioda davanti a loro, dall’auto scende un uomo che urla all’indirizzo di Francesco: “E’ lui, prendetelo!”.

Intuendo il pericolo e, probabilmente, riconoscendo l’aggressore, Francesco corre in direzione di via Montebuono,cercando di allontanarsi il più possibile dalla Fiat bianca e dai suoi occupanti. La sorella, intanto, si getta al loro inseguimento, urlando. Le sue grida vengono fortunatamente udite da un ragazzo che si trovava per strada in quel momento e che nota un uomo darsi alla fuga per poi salire sulla Fiat 850 bianca che si allontana velocemente. Dopo aver telefonato alla Polizia, il giovane viene raggiunto da un inquilino dello stabile di via Montebuono 5 che lo informa di aver trovato sul suo terrazzo, situato più in basso di cinque metri rispetto al piano stradale, un ragazzo che giace esanime al suolo perdendo sangue da una tempia e dal naso; il giovane, giunto sul posto, riconosce in quel ragazzo il suo amico Francesco Cecchin. Stringeva ancora nella mano sinistra un mazzo di chiavi, di cui una che spunta dalle dita è storta.

A questo punto, mentre sarebbe stato lecito attendersi immediate indagini da parte delle forze dell’ordine, si assiste invece all’affrettarsi di tutti a liquidare l’accaduto come un incidente. Secondo alcuni Francesco in preda al panico avrebbe scavalcato il muretto del cortile senza rendersi conto che al di sotto ci fosse un salto di cinque metri. Altri hanno addirittura negato che vi fosse stata una colluttazione tra il giovane e i suoi aggressori.

L’ipotesi che Francesco sia stato gettato di sotto viene inoltre avvalorata da altri  particolari: il trauma cranico, sintomo che il peso dell’impatto al suolo si è scaricato tutto sulla testa, e il fatto che questa si trovi più vicina al muro rispetto ai piedi, in posizione innaturale. La chiave piegata (sicuramente usata come arma di difesa contro i suoi assassini ) tra le dita di una mano e il pacchetto di sigarette nell’altra sono una prova ulteriore che gli aggressori hanno gettato il corpo di Francesco, già esanime, al di là del muretto che delimita il terrazzo: chi pensa di lanciarsi oltre un ostacolo cerca infatti di avere le mani libere. Non da ultimo bisogna poi dire che Francesco conosceva molto bene quel palazzo e il suo cortile, in quanto ci abitava un suo caro amico che lui frequentava spesso. Anche le ferite riscontrate su tutto il corpo confermano la tesi dell’aggressione, essendo queste di natura traumatica e riconducibili a colpi singolarmente assestati e non ad un unico impatto.

Ad avvalorare queste tesi altri concorre anche la successiva dichiarazione resa da alcuni testimoni che affermano di avere udito: “Un forte tonfo non accompagnato da nessun grido”. Risulta difficile credere che una persona possa gettarsi spontaneamente giù da un muro alto cinque metri senza fare nessun rumore.

Il 16 giugno, dopo 19 giorni di coma, Francesco muore.

Le indagini infine partirono ma era già passato troppo tempo, e tutto si conclude in un nulla di fatto. Gli alibi creati ad hoc dai militanti del P.C.I. interrogati ( tra i quali l’intestatario della Fiat 850 bianca) e la lentezza nel modo di procedere degli investigatori faranno si che non sarà più possibile fare piena luce sull’omicidio di Francesco.
Anche se la giustizia dei Tribunali e dei giudici non è mai arrivata, ancora oggi  33 anni dopo c’è una nuova generazione che continua a ricordare Francesco nel giorno del suo assassinio. Perché è questa l’unica cosa importante. L’unico modo affinché sia fatta veramente giustizia è non dimenticare mai la sua storia e il suo sacrificio, onorandolo ogni giorno con il nostro modo di vivere la vita che a lui è stata così ingiustamente tolta, e preparandoci ogni 16 di Giugno a gridare davanti a lui il nostro dissenso, per ricordare a tutti che nel nostro appello Francesco non mancherà, nè oggi nè mai.

FRANCESCO CECCHIN
 PRESENTE!


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