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venerdì 22 giugno 2012

Una vita tecnologica priva di emozioni.



di Marcello Frigeri.

Chissà cosa penserebbe John Stuart Mill dell’uomo contemporaneo se ancora oggi calpestasse il suolo di questa terra. Il filosofo utilitarista vissuto nei primi 70 anni dell’Ottocento, infatti, era un pensatore che credeva fermamente nella bellezza e nella specialità della vita umana. Secondo il suo punto di vista l’uomo era una creazione della natura che nessuna diavoleria meccanica, nessuna macchina creata col fine di sottrarre l’uomo dalle proprie azioni quotidiane, poteva neanche lontanamente eguagliare. La sua vita si svolse interamente durante gli anni d’oro della rivoluzione industriale, dunque Mill subì prepotentemente l’evoluzione della catena di montaggio delle fabbriche, rudimentali agglomerati di ferraglie che compivano azioni, ripetitive e meccaniche, un tempo sbrigate dagli artigiani di bottega. Fu ilperiodo in cui il cielo plumbeo di Londra si ricoprì di un denso e nero strato di inquinamento atmosferico.

Stuart Mill passeggiava per le sue campagne, probabilmente con passo lento e riflessivo, e si fermava a guardare lo skyline grigiastro e fetido della città, poi i campi intorno, tutti quanti deformati e lavorati dall’aratro. “Qui – scriveva dalle colline dello Yorkshire – non potete spingere lo sguardo in una qualunque direzione senza vedere fumo; e le città che, viste in lontananza e specialmente da un’altura, costituiscono in genere gli elementi più belli del paesaggio, qui non sono altro che sorgenti di fumo nero gettato fuori a fiotti da alte ciminiere che sorgono come gli alberi delle navi in un bacino sovraffollato. Non avevo mai visto una città costruita per i suoi tre quarti di fabbriche, costruite a mezza strada tra la caserma e il carcere, ognuna delle quali contribuiva per la sua parte ad annerire il cielo e a rendere disgustosa l’aria che si respirava”. Poi Mill volgeva il pensiero agli uomini della sua contemporaneità, maledicendo il tempo in cui il freddo metallo delle macchine acquisì più valore dell’uomo stesso. Scriveva: “Tra le opere dell’uomo che la vita s’impegna a perfezionare e a abbellire, la prima per importanza è l’uomo stesso. Anche ammesso che fosse possibile costruire case, coltivare grano e combattere guerre per mezzo di macchine, sarebbe comunque una perdita rilevante sostituire con tali automi gli uomini e le donne, che sicuramente sono soltanto un pallido esemplare di ciò che la natura può produrre e produrrà nell’avvenire”.

Al volgere dell’Ottocento, nell’epoca bismarckiana dell’età degli Imperi, Stuart Mill non aveva fatto che descrivere il futuro degenerativo dell’umanità. Non c’è oggi settore della vita in cui la macchina non abbia sostituito la mano e l’inventiva dell’uomo, e la sostituzione dell’uomo con la macchina hacertamente reso più comoda l’esistenza, ma ha tolto a noi il sapore della vita stessa, e probabilmente anche la capacità dell’emozione. Un tempo non troppo lontano il mondo era fatto da “interminati spazi” e “sovrumani silenzi”, e non c’era tecnologia fotografica o aerei computerizzati e ultraveloci che potessero portare a conoscenza dell’uomo sedentario la bellezza del nostro pianeta. Soltanto il viaggio attraverso i pericolosi e inesplorati oceani (anch’essi un universo naturale) o a cavallo, ci dava la sensazione di essere parte del mondo, e non dominatore dello stesso. Chi rimaneva al proprio villaggio (la maggior parte della gente) ripercorreva con l’immaginazione ilracconto dell’esploratore. La terra, in sostanza, era un qualcosa di sconosciuto e misterioso. Oggi non c’è zona del globo che non sia stata sondata, vivisezionata, studiata: non serve più l’esplorazione, l’avventura perpetua, per sapere com’è fatta l’Australia o la criniera di un leone; gli animali esotici sono tutti rinchiusi allo zoo, e alla portata di chiunque (ma dov’è la bellezza della natura nel vedere una tigre in gabbia con una ciotola di metallo tra le zanne?); se le montagne sono prive di neve, si spara quella finta, e il sapere quando si manifesta un acquazzone ha una pretestuosa importanza: programmare i viaggi al mare. Siamo arrivati al punto da non sopportare la pioggia per il semplice motivo che ci si bagna.

In estrema sintesi viviamo la vita senza però vivere ogni suo singolo attimo: a suo modo, infatti, il bisogno incessante di modellare tempo ed esistenza attraverso l’uso della tecnologia, che senza dubbio e con ritmi sempre più frenetici hasostituito le azioni umane, ci ha allontanato dall’essere parte di un mondoche ha sempre avuto le sue regole naturali: là dove un tempo era la natura a dettare i modi del vivere, e l’uomo si limitava a conviverci rispettandola, oggi essa è dominata e manipolata, e l’uomo contemporaneo ha finito con l’essere sempre più ciò che ha e sempre meno ciò che è. Ma che sapore può avere l’esistenza se è tutto qui, a portata di mano? Anche la guerra, che in una certa misura ha la sua filosofia e che comunque è aspetto esclusivo dell’essere umano, è oggi priva delle sue antiche caratteristiche: un tempo nel campo di battaglia ci si affrontava a viso aperto, ed era un contatto tra condannati che dava un senso alla morte o alla paura di morire, e per questo, sempre in una certa misura, si portava rispetto per chi veniva dilaniato dai colpi inferti. In Afghanistan, oggi, la guerra è combattuta dalla Nato per mezzo di droni computerizzati e guidati migliaia di chilometri lontano dalle zone di battaglia. Si pigia un bottone in Texas e muoiono centinaia di uomini a Kabul: così agendo non si percepisce la sofferenza e la tragedia della morte che, perdendo valore, toglie valore anche alla vita. Le attuali società primitive sono la prova provata che l’uomo contemporaneo, con ilmito del progresso, abbia sovvertito il mondo naturale. In queste tribù tutto è magico e sacro, di conseguenza le attività profane che modellano la natura per i bisogni elementari sono, appunto, causa di profanazione, e non hanno senso nella vita di tutti i giorni.

Ci viene detto che queste civiltà primitive sono schiave delle loro stesse credenze. Ma è tanto diverso per noi, che siamo schiavi delle nostre? “Non c’è molta soddisfazione – conclude in uno dei suoi illuminanti passi Mill – nel contemplare un mondo in cui nulla sia lasciato all’attività spontanea della natura, dove ogni zolla di terra in grado di produrre cibo per gli esseri umani sia messa in coltura, ogni distesa fiorita e ogni pascolo naturale arato, ogni animale o uccello non addomesticato per l’uso dell’uomo sterminato come un rivale nella lotta per il cibo, ogni siepe o albero non utile sradicato, e non rimanga quasi luogo dove un cespuglio selvatico o un fiore possa crescere senza essere strappato come erbaccia in nome del progresso”. E qui la sua speranza: “Se la terra è destinata a perdere gran parte della bellezza che le deriva da quelle cose che la crescitaillimitata della popolazione e della ricchezza estirperebbe da essa, al solo scopo di metterla in grado di sostentare una popolazione più ampia, ma non migliore o felice, io spero in tutta sincerità, per il bene dei posteri, che essi si accontenteranno dello stato stazionario assai prima che la necessità ve li costringa”.

Il voler sostituire un’azione naturale con la macchina equivale al voler sostituire la natura con un mondo fittizio e a misura d’uomo (quando in realtà dovrebbe essere l’uomo a misura della natura). Tutto questo è possibile, e lo vediamo soprattutto oggi. Ma ha un senso? Un senso umano, intendo.

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