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domenica 15 luglio 2012

Tra Oriente e Occidente, l’ineffabilità dello stile.




di Eduardo Zarelli.

«“Lei conosce il conte Kuki Shuzo. Ha studiato molti anni con Lei”. “Rivolta al conte Kuki rimane la mia memoria riconoscente”». Con queste parole, che si leggono in un celebre libro di Heidegger, si può dire che affiori l’esistenza di Kuki Shuzo in Occidente e lì rimanga sospesa, come il miraggio di un orientale «dal cuore limpido e fine» che capiva il pensiero occidentale meglio degli Occidentali.

Tutto il pensare del conte Kuki Shuzo era rivolto a ciò che i Giapponesi chiamano iki. “Ciò che questa parola dice ho potuto solo presagirlo da lontano nelle mie conversazioni con Kuki”» aggiunge Heidegger. Concetto non scontato, sul crinale del pensabile e dell’indicibile, solo poeticamente evocabile. Una difficoltà, pensò Kuki, analoga a quella che deve affrontare chiunque tenti di tradurre il termine Essere, fondamento del pensiero occidentale, in giapponese. Ma la parola essere si incontra in Parmenide, mentre la parola iki appartiene al gergo delle geishe. Già qui si accenna sottilmente al rapporto enantiodromico tra Oriente-Occidente. Che cos’è dunque l’iki? Nel Giappone del periodo Bunka-Bunsei (1804-1830), questa parola veniva usata per definire l’ineffabile fascino della geisha, il suo stile sprezzante ma accattivante, ammiccante ma riluttante, improntato a sensualità e rigore, inflessibilità ed eleganza, qual specchio femminile della simmetrica virilità guerriera del samurai. L’”Iki” non è in nessun modo qualcosa di vecchio, rimanda piuttosto al “classico”. In ogni età, l’”Iki” esiste in una maniera adeguata a quell’epoca.

 Così, l’”Iki” è qualcosa che consente a una donna al passo coi tempi che può essere molto “moderna”, di dar abilmente vita a un’emozione che in realtà è profondamente antica. Una parola quindi con uno sguardo che ne individua i tratti distintivi e contemporaneamente congiunti nella seduzione, nell’energia spirituale e nella rinuncia, la colloca in un sistema estetico rigoroso; ne scopre le tracce nell’incedere, nei gesti e nelle posture della geisha; nei motivi decorativi, nell’architettura essenziale, nella musica per shamisen. Capire l’iki è come percepire la fragranza di un’intera civiltà, tale perché si pone nella forma dell’Essere. Non si dà il bello senza il suo disvelarsi: lo stile. La parola utilizzata da Heidegger per questa conoscenza interiore della mente aperta è la parola greca aletheia. In Essere e Tempo Heidegger scrive: “Il compito del pensiero sarà il pensiero antecedente alla determinazione della cosa del pensiero”. Per cogliere il significato proprio di aletheia egli scrive: “L’uomo assennato deve far esperienza del cuore che non trema della disvelatezza” . Ma questo cosa significa? Ancora Heidegger scrive che “la disvelatezza è per così dire l’elemento in cui solo si danno tanto l’essere che il pensiero, come la loro coappartenenza”.

L’importanza di apertura e presenza e la coappartenenza di essere e pensare indicano che la dicotomia dell’intuizione svanisce nel momento assoluto. La realtà è identità di essere e non essere. In un quaderno redatto a Londra nel 1942, poche settimane prima di morire, Simone Weil annotava: «Tutte le volte che si riflette sul bello, si è arrestati da un muro. Tutto ciò che è stato scritto al riguardo è miserabilmente ed evidentemente insufficiente». Pur nella concisione di un'espressione aforistica, ciò che la filosofa intendeva sottolineare può essere proposto nei termini di un paradosso. Da un lato, pochi altri concetti sono altrettanto variabili e soggettivi quanto lo è la bellezza. Ciò che a me appare bello, ad un altro potrà sembrare brutto o indifferente. È ciò che accade quando valutiamo un film o esprimiamo il nostro giudizio ad esempio su un'opera dell'arte contemporanea. Dall'altro lato, vi sono alcune cose — lo sguardo di un bambino, i colori di un tramonto, un'opera d'arte classica, una sonata o una melodia — della cui intrinseca bellezza nessuno si sentirebbe di dubitare. Per alcuni, insomma, la bellezza è legata alla soggettività del gusto individuale. Per altri, invece, bello è ciò che corrisponde ad alcuni parametri che possono essere definiti in termini oggettivi.

Per cercare di uscire da queste antinomie, proviamo a vedere come era concepita la bellezza alle origini della tradizione culturale dell'Occidente. Nella cultura greca arcaica, il termine «kalós» — che abitualmente traduciamo con «bello» — non aveva originariamente un significato «estetico». Ad esempio, la poetessa Saffo parla di «kalé seléne», alludendo non alla «bella luna», come potremmo credere, ma al plenilunio. La luna è «kalé», è «bella», in quanto è piena, cioè è integra, compiuta, non manca di nulla. Bello è, insomma, secondo la cultura e la mentalità greca, ciò che si presenta con le caratteristiche di una forma compiuta. Scaturisce da questi presupposti una convinzione diffusa in tutta l'antichità greco-latina, e cioè l'idea che la perfezione, e quindi anche la bellezza, coincidano con la finitezza. Se belle devono essere considerate quelle cose che sono integre, a cui non manca nulla, è evidente allora che per essere bella una cosa non dovrà essere in-finita, senza fines, senza con-fini, ma che, al contrario, essa dovrà avere contorni ben definiti. Lo sottolinea anche Aristotele quando ad esempio nella Poetica afferma che, per essere bello, un animale non deve essere né troppo piccolo, perché allora non riusciremmo a distinguerne la fisionomia, né troppo grande, perché in questo caso non potremmo abbracciarlo tutto con lo sguardo. Un'affermazione analoga si ritrova anche nel celebre epitaffio di Pericle, raccontato da Tucidide, dove la principale virtù attribuita agli ateniesi è posta in stretta relazione con la compiutezza: «Noi amiamo il bello — scrive lo storico — ma con un buon compimento» («eutéleia»). Bello è ciò di cui si possa dire che non manca di nulla.

Il punto di partenza di questo periplo estetico consiste nel mettere in luce, lo specifico statuto morale che l’antichità greca attribuiva al bello, delle cui attenzioni la natura costituiva inopinabilmente l’oggetto precipuo. La bellezza naturale, sorta in Grecia nel segno della contemplazione e incarnata da Afrodite, “quale felice esito di un conflitto crudele, come il generarsi di un ordine a partire da un caos iniziale”, trascendeva in toto il campo dell’arte, a cui soprattutto Platone nellaRepubblica attribuiva lo statuto della mera apparenza, e assumeva piuttosto un carattere, per così dire, tecnologico o progettuale: essa, quale portatrice di armonia, simmetria ed euritmia, si proponeva come misura e ordine dell’essere e del mondo, una misura e un ordine che garantivano – in senso lato ecologico – l’abitabilità del cosmo e che, quindi, facevano, in ultimo, della bellezza il compendio della legalità cosmica. Se ne evince, pertanto, una concezione del bello come immagine ideale del bene e, quindi, come un alcunché di annoverabile tra i principi primi dell’essere, la cui valenza basilare è in tutto e per tutto metafisica. L’incontro tra l’ideale metafisico del bello naturale, coincidente con la grecità classica, e l’opera d’arte avviene per merito di Winckelmann, nella cui descrizione del gruppo del Laocoonte viene messa in luce la relazione della naturalità del bello a quell’equilibrio delle forze che è un naturale compendiarsi, nel quale non si avverte (o non dovrebbe avvertirsi) lo sforzo della costruzione.

Nobile semplicità e quieta grandezza sono gli aspetti che meglio qualificano, per Winckelmann, il gruppo del Laocoonte, in quanto descrivono il superamento del caos originario e l’eliminazione della dispersione energetica, rimandando a un concetto di forma quale ottimizzazione delle energie e contemperamento delle forze in un tutto equilibrato. D'altra parte, nella concezione greca di bellezza converge anche un'altra caratteristica fondamentale, vale a dire una particolare nozione di tempo: non il tempo chrono-logico, che misura l'incessante divenire di tutte le cose, ma neppure l'immutabile permanenza del «sempre-essente», chiamato appunto «aión», ma quella singolare dimensione di tempo espressa dal «kairós», il momento propizio, l'occasione buona, l'attimo fuggente. Ne è testimonianza una sentenza che ricorre con irrilevanti variazioni lungo un ampio arco di tempo, secondo la quale «tutto è bello nel momento opportuno». Da ciò risulta allora che definire «bello» qualcosa non implica un giudizio di «gusto», non esprime una preferenza soggettiva, ma si identifica piuttosto con una struttura oggettivamente identificabile. Se la bellezza di una cosa dipende dalle proporzioni, dall'armonia, dalla simmetria, dalla atemporalità, allora si dovrà concludere che essa dipende da qualcosa che resta invisibile, nel senso che a fondamento della bellezza di un oggetto visibile vi è qualcosa che invece sfugge alla vista.

Veramente, compiutamente, genuinamente bello non è ciò che appartiene al nostro mondo, ma ciò che rinvia ad una realtà inattingibile. Le cose che giudichiamo belle non testimoniano una presenza, ma una mancanza. Alludono ad un «oltre», verso il quale possiamo soltanto tendere, senza alcuna possibilità di raggiungerlo. Già accennata in Platone, in particolare nel Fedro e nel Simposio, questa tensione è poi esplicitata e condotta alle conseguenze più rigorose da Plotino e dalla successiva tradizione neoplatonica, fino all'Umanesimo italiano, e poi a Goethe e a Schelling. Emerge qui un'alternativa che non riguarda soltanto il piano estetico, ma coinvolge più complessive e pervasive scelte di vita. Come si legge nelle Enneadi, di fronte alla bellezza sensibile dei corpi possiamo scegliere se comportarci come Narciso o come Ulisse. Nel primo caso, ignorando che ciò che vediamo è semplicemente un riflesso, una traccia o un'ombra, perderemo la nostra vita inseguendo una semplice immagine. Nel secondo caso, non ci lasceremo ingannare da ciò che appare, e impegneremo incessantemente ogni nostra energia per ritornare alla «cara patria» — la bellezza in se stessa — che è il fondamento delle molte cose belle.

Tutto ciò comincia a svanire con il Romanticismo, in particolar modo con le inevitabili conseguenze che derivano dalla distinzione kantiana tra giudizio estetico e giudizio teleologico e dal predominio – momentaneo – del primo sul secondo. La supremazia del giudizio estetico determina il passaggio cruciale in cui l’estetica si avvia a divenire filosofia dell’arte, da cui segue il sorgere dell’arte autonoma quale istituzione a sé stante e il mutamento della bellezza da naturale e metafisica ad artistica tout court: in altre parole, l’arte è venuta così definitivamente sostituendosi alla natura nelle gerarchie della bellezza. È proprio nel trascendimento della natura che, il bello in quanto ideale si avvia a perdere il suo punto di orientamento primario e quindi all’inevitabile tramonto che l’attende nella contemporaneità, e l’arte, da par sua, resasi consapevole di tutta la sua insufficienza a dar voce alla bellezza, si condanna – per il suo carattere costruito e artificioso – alla mortalità di hegeliana memoria: la bellezza, infatti, facendosi bellezza artistica e quindi prendendo forma nell’esclusivo ambito dell’arte, perde la sua qualità morale di misura dell’essere e cade, una volta acquisito un carattere di mera marginalità cosmica, in intima contraddizione con se stessa. Nel momento in cui si riveste definitivamente di un aspetto tecnico-costruttivo, facendosi opera e incarnandosi in un manufatto, la bellezza edifica se stessa e, pertanto, giunge all’ultima tappa del suo cammino, al paradosso, cioè, di una misura che diviene misura di sé.

Il declino del bello nella sua valenza principalmente naturale e morale, che si avvia nell’Ottocento, non può quindi che andare di pari passo con la crisi metafisica, accertata soprattutto da Nietzsche e da Spengler, della ragione morfologica di modello goethiano. Con la frattura insanabile che caratterizza il rapporto tra antico e moderno, si perviene man mano alla dissoluzione della forma quale analogia della bellezza, goethianamente intesa come sorgente da un processo formativo o come genesi che, dinamicamente, riesce a raccogliere e a dare equilibrio alle spinte centrifughe e centripete che contraddistinguono il suo divenire, fino al raggiungimento ultimo di un’armonica compiutezza. A far confluire il romanticismo nell’avanguardia è proprio la progressiva configurazione di forme dai tratti conflittuali, aperte e anticlassiche, che, perduta la capacità di contenere e di aggregare, spingono l’arte autonoma alla sua decadenza: a uno svuotamento infinito, che dovrebbe infine ricongiungerle a quella vita dalla quale esse hanno preteso di emanciparsi.

È possibile invertire la tendenza descritta? Tornare alla definitiva contemplazione del bello in sé? In un’epoca nella quale domina l’artificio e la superficialità, basata sull’inganno patinato in modo che l’occhio non possa scorgere la profondità, il cammino filosofico dell’oltrepassamento postmoderno consiste nello smascherare l’inganno della banalizzazione utilitaristica: per spingerci dentro le cose, per discernere la manifestazione dell’essere nella narcotica ridondanza consumista. L’architettura – in questa prospettiva - può aiutarci nell’aderire all’identità profonda tra cultura e natura: ascoltando l’anima del luogo, facendo in se stessa un vuoto ricettivo, non sovrapponendo la sua razionalità strumentale, le sue intenzioni soggettive, all’autenticità del luogo, all’oggettività cosmogonica. Che parla da sé. La natura indica perentoriamente, il senso del limite, la sobrietà, la forma. L’economicismo, la devastazione ambientale, i comportamenti interessati, il gigantismo, l’anonimato delle metropoli e l’insignificanza dei suoi (non) luoghi, l’anestetico arredamento razionalista sono alcuni dei sintomi della repressione della bellezza effettuata dal pragmatismo: sono un derivato della perdita di quel sentimento di misura e di armonia cosmica, di pudore e di grazia, che rivela l’essenza e accende l’eros, l’amore per l’anima in tutte le sue manifestazioni. Il Sé - per dirla con James Hillman - può manifestarsi solo come «interiorizzazione della comunità», da un lato, e come continuità con il cosmo, dall’altro. Ciò che ci allontana da noi stessi, ciò che ci estranea a noi stessi, è la perdita di contatto con ciò che siamo e soprattutto con ciò che sentiamo: una sorta di anestesia. Comparabilmente, ciò che ci allontana dall’anima di un luogo è questa stessa anestesia, l’essere privi di quella sensibilità che ci fa accorgere di ciò che lo deturpa, lo imbruttisce, lo sotterra e cementifica. Solo l’amore per l’ineffabile può arrischiarsi “oltre la linea” del già vissuto, del banale, dello scontato, del seriale.

Martin Heidegger concepisce un continuo contrapporsi di Mondo e Terra come vera lotta “nella quale i contendenti - l’un l’altro - si elevano all’autoaffermazione della propria essenza” . Nella lotta ognuno porta l’altro al di sopra di ciò che esso è. Mondo e terra sono sempre in contrapposizione e in conflitto, poiché solo come tali prendono il loro posto nella lotta di illuminazione e nascondimento. Terra e mondo sono aderenti alle forze primordiali rappresentate dai trigrammi taoisti dello Yin e dello Yang, che sono rispettivamente “k’un” il ricettivo associato all’oscurità della terrra, "ch’ien" il creativo associato all’apertura del cielo.

Terra dunque come Yin, l’assidua infaticabile non costretta, la coprente custodente che destina al fallimento ogni tentativo di penetrare in essa. Yin, significa originariamente il nuvoloso, l’oscuro. In contrasto Heidegger parla di apertura del mondo. Mondo come Yang, il dischiudersi dell’apertura. Yang che significa originariamente ‘vessillo che sventola al sole’, dunque cose illuminate e chiare. Come per Terra e Mondo anche tra Yin e Yang si instaura quella lotta che per Eraclito è “padre di tutte le cose, di tutte è re” . La lotta qui considerata è un conflitto originario in quanto anzitutto origina i combattenti come indispensabili l’uno all’altra. La lotta cioè delinea ciò che non è stato fino allora né detto né pensato, e sempre scaturisce come origine, come mito. Questa lotta che porta al continuo rovesciamento, non è priva di senso, in quanto è soggetta alla legge che tutto permea, cioè il Tao, la “via”, lo stile, per cui indipendentemente dall’esito, è fondante come si vive, non il perire, il cristallizzarsi. Quando si dà la preferenza ad un solo aspetto, la razionalità, non ascoltiamo l’interiorità, l’empatia, l’intuizione, l’Essere e dimentichiamo che il Mondo chiama e reclama la Terra e viceversa. Micro e macrocosmo intrecciano la via del bello, la misura dell’appropriato perché, con Eraclito: «Più potente è l’armonia nascosta di quella che appare» .

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