di
Eduardo Zarelli.
«“Lei
conosce il conte Kuki Shuzo. Ha studiato molti anni con Lei”. “Rivolta al conte
Kuki rimane la mia memoria riconoscente”». Con queste parole, che si leggono in
un celebre libro di Heidegger, si può dire che affiori l’esistenza di Kuki
Shuzo in Occidente e lì rimanga sospesa, come il miraggio di un orientale «dal
cuore limpido e fine» che capiva il pensiero occidentale meglio degli
Occidentali.
Tutto
il pensare del conte Kuki Shuzo era rivolto a ciò che i Giapponesi chiamano
iki. “Ciò che questa parola dice ho potuto solo presagirlo da lontano nelle mie
conversazioni con Kuki”» aggiunge Heidegger. Concetto non scontato, sul crinale
del pensabile e dell’indicibile, solo poeticamente evocabile. Una difficoltà,
pensò Kuki, analoga a quella che deve affrontare chiunque tenti di tradurre il
termine Essere, fondamento del pensiero occidentale, in giapponese. Ma la
parola essere si incontra in Parmenide, mentre la parola iki appartiene al
gergo delle geishe. Già qui si accenna sottilmente al rapporto enantiodromico
tra Oriente-Occidente. Che cos’è dunque l’iki? Nel Giappone del periodo
Bunka-Bunsei (1804-1830), questa parola veniva usata per definire l’ineffabile
fascino della geisha, il suo stile sprezzante ma accattivante, ammiccante ma
riluttante, improntato a sensualità e rigore, inflessibilità ed eleganza, qual
specchio femminile della simmetrica virilità guerriera del samurai. L’”Iki” non
è in nessun modo qualcosa di vecchio, rimanda piuttosto al “classico”. In ogni
età, l’”Iki” esiste in una maniera adeguata a quell’epoca.
Così, l’”Iki” è qualcosa che consente a una
donna al passo coi tempi che può essere molto “moderna”, di dar abilmente vita
a un’emozione che in realtà è profondamente antica. Una parola quindi con uno
sguardo che ne individua i tratti distintivi e contemporaneamente congiunti
nella seduzione, nell’energia spirituale e nella rinuncia, la colloca in un
sistema estetico rigoroso; ne scopre le tracce nell’incedere, nei gesti e nelle
posture della geisha; nei motivi decorativi, nell’architettura essenziale,
nella musica per shamisen. Capire l’iki è come percepire la fragranza di
un’intera civiltà, tale perché si pone nella forma dell’Essere. Non si dà il
bello senza il suo disvelarsi: lo stile. La parola utilizzata da Heidegger per
questa conoscenza interiore della mente aperta è la parola greca aletheia. In
Essere e Tempo Heidegger scrive: “Il compito del pensiero sarà il pensiero
antecedente alla determinazione della cosa del pensiero”. Per cogliere il
significato proprio di aletheia egli scrive: “L’uomo assennato deve far
esperienza del cuore che non trema della disvelatezza” . Ma questo cosa
significa? Ancora Heidegger scrive che “la disvelatezza è per così dire
l’elemento in cui solo si danno tanto l’essere che il pensiero, come la loro coappartenenza”.
L’importanza
di apertura e presenza e la coappartenenza di essere e pensare indicano che la
dicotomia dell’intuizione svanisce nel momento assoluto. La realtà è identità
di essere e non essere. In un quaderno redatto a Londra nel 1942, poche
settimane prima di morire, Simone Weil annotava: «Tutte le volte che si
riflette sul bello, si è arrestati da un muro. Tutto ciò che è stato scritto al
riguardo è miserabilmente ed evidentemente insufficiente». Pur nella concisione
di un'espressione aforistica, ciò che la filosofa intendeva sottolineare può
essere proposto nei termini di un paradosso. Da un lato, pochi altri concetti
sono altrettanto variabili e soggettivi quanto lo è la bellezza. Ciò che a me
appare bello, ad un altro potrà sembrare brutto o indifferente. È ciò che
accade quando valutiamo un film o esprimiamo il nostro giudizio ad esempio su
un'opera dell'arte contemporanea. Dall'altro lato, vi sono alcune cose — lo
sguardo di un bambino, i colori di un tramonto, un'opera d'arte classica, una
sonata o una melodia — della cui intrinseca bellezza nessuno si sentirebbe di
dubitare. Per alcuni, insomma, la bellezza è legata alla soggettività del gusto
individuale. Per altri, invece, bello è ciò che corrisponde ad alcuni parametri
che possono essere definiti in termini oggettivi.
Per
cercare di uscire da queste antinomie, proviamo a vedere come era concepita la
bellezza alle origini della tradizione culturale dell'Occidente. Nella cultura
greca arcaica, il termine «kalós» — che abitualmente traduciamo con «bello» —
non aveva originariamente un significato «estetico». Ad esempio, la poetessa
Saffo parla di «kalé seléne», alludendo non alla «bella luna», come potremmo
credere, ma al plenilunio. La luna è «kalé», è «bella», in quanto è piena, cioè
è integra, compiuta, non manca di nulla. Bello è, insomma, secondo la cultura e
la mentalità greca, ciò che si presenta con le caratteristiche di una forma
compiuta. Scaturisce da questi presupposti una convinzione diffusa in tutta
l'antichità greco-latina, e cioè l'idea che la perfezione, e quindi anche la
bellezza, coincidano con la finitezza. Se belle devono essere considerate
quelle cose che sono integre, a cui non manca nulla, è evidente allora che per
essere bella una cosa non dovrà essere in-finita, senza fines, senza con-fini,
ma che, al contrario, essa dovrà avere contorni ben definiti. Lo sottolinea
anche Aristotele quando ad esempio nella Poetica afferma che, per essere bello,
un animale non deve essere né troppo piccolo, perché allora non riusciremmo a
distinguerne la fisionomia, né troppo grande, perché in questo caso non
potremmo abbracciarlo tutto con lo sguardo. Un'affermazione analoga si ritrova
anche nel celebre epitaffio di Pericle, raccontato da Tucidide, dove la
principale virtù attribuita agli ateniesi è posta in stretta relazione con la
compiutezza: «Noi amiamo il bello — scrive lo storico — ma con un buon
compimento» («eutéleia»). Bello è ciò di cui si possa dire che non manca di
nulla.
Il
punto di partenza di questo periplo estetico consiste nel mettere in luce, lo
specifico statuto morale che l’antichità greca attribuiva al bello, delle cui
attenzioni la natura costituiva inopinabilmente l’oggetto precipuo. La bellezza
naturale, sorta in Grecia nel segno della contemplazione e incarnata da
Afrodite, “quale felice esito di un conflitto crudele, come il generarsi di un
ordine a partire da un caos iniziale”, trascendeva in toto il campo dell’arte,
a cui soprattutto Platone nellaRepubblica attribuiva lo statuto della mera
apparenza, e assumeva piuttosto un carattere, per così dire, tecnologico o
progettuale: essa, quale portatrice di armonia, simmetria ed euritmia, si
proponeva come misura e ordine dell’essere e del mondo, una misura e un ordine
che garantivano – in senso lato ecologico – l’abitabilità del cosmo e che,
quindi, facevano, in ultimo, della bellezza il compendio della legalità
cosmica. Se ne evince, pertanto, una concezione del bello come immagine ideale
del bene e, quindi, come un alcunché di annoverabile tra i principi primi
dell’essere, la cui valenza basilare è in tutto e per tutto metafisica.
L’incontro tra l’ideale metafisico del bello naturale, coincidente con la
grecità classica, e l’opera d’arte avviene per merito di Winckelmann, nella cui
descrizione del gruppo del Laocoonte viene messa in luce la relazione della
naturalità del bello a quell’equilibrio delle forze che è un naturale
compendiarsi, nel quale non si avverte (o non dovrebbe avvertirsi) lo sforzo
della costruzione.
Nobile
semplicità e quieta grandezza sono gli aspetti che meglio qualificano, per
Winckelmann, il gruppo del Laocoonte, in quanto descrivono il superamento del
caos originario e l’eliminazione della dispersione energetica, rimandando a un
concetto di forma quale ottimizzazione delle energie e contemperamento delle
forze in un tutto equilibrato. D'altra parte, nella concezione greca di
bellezza converge anche un'altra caratteristica fondamentale, vale a dire una
particolare nozione di tempo: non il tempo chrono-logico, che misura
l'incessante divenire di tutte le cose, ma neppure l'immutabile permanenza del
«sempre-essente», chiamato appunto «aión», ma quella singolare dimensione di
tempo espressa dal «kairós», il momento propizio, l'occasione buona, l'attimo
fuggente. Ne è testimonianza una sentenza che ricorre con irrilevanti
variazioni lungo un ampio arco di tempo, secondo la quale «tutto è bello nel
momento opportuno». Da ciò risulta allora che definire «bello» qualcosa non
implica un giudizio di «gusto», non esprime una preferenza soggettiva, ma si
identifica piuttosto con una struttura oggettivamente identificabile. Se la
bellezza di una cosa dipende dalle proporzioni, dall'armonia, dalla simmetria,
dalla atemporalità, allora si dovrà concludere che essa dipende da qualcosa che
resta invisibile, nel senso che a fondamento della bellezza di un oggetto
visibile vi è qualcosa che invece sfugge alla vista.
Veramente,
compiutamente, genuinamente bello non è ciò che appartiene al nostro mondo, ma
ciò che rinvia ad una realtà inattingibile. Le cose che giudichiamo belle non
testimoniano una presenza, ma una mancanza. Alludono ad un «oltre», verso il
quale possiamo soltanto tendere, senza alcuna possibilità di raggiungerlo. Già
accennata in Platone, in particolare nel Fedro e nel Simposio, questa tensione
è poi esplicitata e condotta alle conseguenze più rigorose da Plotino e dalla
successiva tradizione neoplatonica, fino all'Umanesimo italiano, e poi a Goethe
e a Schelling. Emerge qui un'alternativa che non riguarda soltanto il piano
estetico, ma coinvolge più complessive e pervasive scelte di vita. Come si
legge nelle Enneadi, di fronte alla bellezza sensibile dei corpi possiamo
scegliere se comportarci come Narciso o come Ulisse. Nel primo caso, ignorando
che ciò che vediamo è semplicemente un riflesso, una traccia o un'ombra,
perderemo la nostra vita inseguendo una semplice immagine. Nel secondo caso,
non ci lasceremo ingannare da ciò che appare, e impegneremo incessantemente
ogni nostra energia per ritornare alla «cara patria» — la bellezza in se stessa
— che è il fondamento delle molte cose belle.
Tutto
ciò comincia a svanire con il Romanticismo, in particolar modo con le
inevitabili conseguenze che derivano dalla distinzione kantiana tra giudizio
estetico e giudizio teleologico e dal predominio – momentaneo – del primo sul
secondo. La supremazia del giudizio estetico determina il passaggio cruciale in
cui l’estetica si avvia a divenire filosofia dell’arte, da cui segue il sorgere
dell’arte autonoma quale istituzione a sé stante e il mutamento della bellezza
da naturale e metafisica ad artistica tout court: in altre parole, l’arte è
venuta così definitivamente sostituendosi alla natura nelle gerarchie della
bellezza. È proprio nel trascendimento della natura che, il bello in quanto
ideale si avvia a perdere il suo punto di orientamento primario e quindi
all’inevitabile tramonto che l’attende nella contemporaneità, e l’arte, da par
sua, resasi consapevole di tutta la sua insufficienza a dar voce alla bellezza,
si condanna – per il suo carattere costruito e artificioso – alla mortalità di
hegeliana memoria: la bellezza, infatti, facendosi bellezza artistica e quindi
prendendo forma nell’esclusivo ambito dell’arte, perde la sua qualità morale di
misura dell’essere e cade, una volta acquisito un carattere di mera marginalità
cosmica, in intima contraddizione con se stessa. Nel momento in cui si riveste
definitivamente di un aspetto tecnico-costruttivo, facendosi opera e
incarnandosi in un manufatto, la bellezza edifica se stessa e, pertanto, giunge
all’ultima tappa del suo cammino, al paradosso, cioè, di una misura che diviene
misura di sé.
Il
declino del bello nella sua valenza principalmente naturale e morale, che si
avvia nell’Ottocento, non può quindi che andare di pari passo con la crisi
metafisica, accertata soprattutto da Nietzsche e da Spengler, della ragione
morfologica di modello goethiano. Con la frattura insanabile che caratterizza
il rapporto tra antico e moderno, si perviene man mano alla dissoluzione della
forma quale analogia della bellezza, goethianamente intesa come sorgente da un
processo formativo o come genesi che, dinamicamente, riesce a raccogliere e a
dare equilibrio alle spinte centrifughe e centripete che contraddistinguono il
suo divenire, fino al raggiungimento ultimo di un’armonica compiutezza. A far
confluire il romanticismo nell’avanguardia è proprio la progressiva
configurazione di forme dai tratti conflittuali, aperte e anticlassiche, che,
perduta la capacità di contenere e di aggregare, spingono l’arte autonoma alla
sua decadenza: a uno svuotamento infinito, che dovrebbe infine ricongiungerle a
quella vita dalla quale esse hanno preteso di emanciparsi.
È
possibile invertire la tendenza descritta? Tornare alla definitiva
contemplazione del bello in sé? In un’epoca nella quale domina l’artificio e la
superficialità, basata sull’inganno patinato in modo che l’occhio non possa
scorgere la profondità, il cammino filosofico dell’oltrepassamento postmoderno
consiste nello smascherare l’inganno della banalizzazione utilitaristica: per spingerci
dentro le cose, per discernere la manifestazione dell’essere nella narcotica
ridondanza consumista. L’architettura – in questa prospettiva - può aiutarci
nell’aderire all’identità profonda tra cultura e natura: ascoltando l’anima del
luogo, facendo in se stessa un vuoto ricettivo, non sovrapponendo la sua
razionalità strumentale, le sue intenzioni soggettive, all’autenticità del
luogo, all’oggettività cosmogonica. Che parla da sé. La natura indica
perentoriamente, il senso del limite, la sobrietà, la forma. L’economicismo, la
devastazione ambientale, i comportamenti interessati, il gigantismo,
l’anonimato delle metropoli e l’insignificanza dei suoi (non) luoghi,
l’anestetico arredamento razionalista sono alcuni dei sintomi della repressione
della bellezza effettuata dal pragmatismo: sono un derivato della perdita di
quel sentimento di misura e di armonia cosmica, di pudore e di grazia, che
rivela l’essenza e accende l’eros, l’amore per l’anima in tutte le sue
manifestazioni. Il Sé - per dirla con James Hillman - può manifestarsi solo
come «interiorizzazione della comunità», da un lato, e come continuità con il
cosmo, dall’altro. Ciò che ci allontana da noi stessi, ciò che ci estranea a
noi stessi, è la perdita di contatto con ciò che siamo e soprattutto con ciò
che sentiamo: una sorta di anestesia. Comparabilmente, ciò che ci allontana
dall’anima di un luogo è questa stessa anestesia, l’essere privi di quella
sensibilità che ci fa accorgere di ciò che lo deturpa, lo imbruttisce, lo
sotterra e cementifica. Solo l’amore per l’ineffabile può arrischiarsi “oltre
la linea” del già vissuto, del banale, dello scontato, del seriale.
Martin
Heidegger concepisce un continuo contrapporsi di Mondo e Terra come vera lotta
“nella quale i contendenti - l’un l’altro - si elevano all’autoaffermazione
della propria essenza” . Nella lotta ognuno porta l’altro al di sopra di ciò
che esso è. Mondo e terra sono sempre in contrapposizione e in conflitto,
poiché solo come tali prendono il loro posto nella lotta di illuminazione e
nascondimento. Terra e mondo sono aderenti alle forze primordiali rappresentate
dai trigrammi taoisti dello Yin e dello Yang, che sono rispettivamente “k’un”
il ricettivo associato all’oscurità della terrra, "ch’ien" il
creativo associato all’apertura del cielo.
Terra
dunque come Yin, l’assidua infaticabile non costretta, la coprente custodente
che destina al fallimento ogni tentativo di penetrare in essa. Yin, significa
originariamente il nuvoloso, l’oscuro. In contrasto Heidegger parla di apertura
del mondo. Mondo come Yang, il dischiudersi dell’apertura. Yang che significa
originariamente ‘vessillo che sventola al sole’, dunque cose illuminate e
chiare. Come per Terra e Mondo anche tra Yin e Yang si instaura quella lotta
che per Eraclito è “padre di tutte le cose, di tutte è re” . La lotta qui
considerata è un conflitto originario in quanto anzitutto origina i combattenti
come indispensabili l’uno all’altra. La lotta cioè delinea ciò che non è stato
fino allora né detto né pensato, e sempre scaturisce come origine, come mito.
Questa lotta che porta al continuo rovesciamento, non è priva di senso, in
quanto è soggetta alla legge che tutto permea, cioè il Tao, la “via”, lo stile,
per cui indipendentemente dall’esito, è fondante come si vive, non il perire,
il cristallizzarsi. Quando si dà la preferenza ad un solo aspetto, la
razionalità, non ascoltiamo l’interiorità, l’empatia, l’intuizione, l’Essere e
dimentichiamo che il Mondo chiama e reclama la Terra e viceversa. Micro e
macrocosmo intrecciano la via del bello, la misura dell’appropriato perché, con
Eraclito: «Più potente è l’armonia nascosta di quella che appare» .
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