Qualche
mese fa, all’inizio della crisi greca ch’è una crisi europea, mentre sembrava –
e, non c’illudiamo, continua a sembrare ancora – che le evidentemente ancor
fragili strutture dell’Europa scricchiolassero e qualcuno cominciava a parlare
con insistenza di “ritorno alla sovranità monetaria” (come se, tra le sovranità
che l’Italia ha perduto, ci fosse soltanto quella…), molti fra noi sono stati
invasi da un cupo, profondo senso di tristezza. Parlo soprattutto per me:
classe 1940, dichiaratamente europeista da qualcosa di più di mezzo secolo, per
quanto le formule federalistiche allora di moda non mi convincessero né mi
soddisfacessero. Quel che allora noi sognavamo, e dico “noi” perché non eravamo
poi tanto pochi, era un’Europa che, forte della coscienza della sua unità
culturale di fondo e delle tragedia che da troppi secoli aveva dovuto
sopportare a causa della sua divisione, riprendesse il cammino che la
Cristianità medievale le aveva indicato, quello dell’unità, e lo traducesse in
termini di identità comunitaria capace di misurarsi con il mondo moderno.
Non
che le forme del pensiero europeistico elaborate fra Otto e Novecento ci
soddisfacessero: non ci convincevano né Saint-Simon, né Thierry, né Michelet,
né Cattaneo (anche se la formula “Stati Uniti d’Europa” ci affascinava), né
Coudenhove-Kalergi, né Spinelli, né Schuman: qualcuno di noi (anch’io) guardò a
Thiriart, ma non era convincente nemmeno lui. Sentivamo che superare i vecchi
schemi nazionali non bastava, che cercar di fondare una specie di nuovo
“ipernazionalismo” sarebbe stata una follìa, ma che pur bisognava uscir prima o
poi dal truce dopoguerra di un continente europeo spaccato in due a causa e per
colpa senza dubbio d’una sciagurata guerra (cominciata peraltro non già nel
’39, bensì nel ’14) ma anche della volontà congiunta delle due superpotenze
che, in disaccordo su tutto, con i patti di Yalta si erano trovate d’accordo
però su una cosa, vale a dire che la parola Europa andava ridotta per sempre a
una pura espressione geografica. Per questo la nuova Europa
economico-finanziaria che cominciò a prender forma a partire dai primi Anni
Cinquanta non ci piaceva: la ritenevamo necessaria certo, ma non sufficiente;
né tanto meno primaria, in quanto ritenevamo che le istituzioni finanziarie e
monetarie dovessero accompagnare se non addirittura tener dietro, ma certo non
precedere quelle politiche, istituzionali, sociali e anche militari. Per questo la costosissima Unione Europea di
Bruxelles e di Strasburgo, con la sua pesante burocrazia e i suoi organi
parlamentari consultivi, non poteva né piacerci né bastarci.
La
crisi scoppiata già da qualche mese, e ancora in atto, ha rischiato di far
volare in pezzi anche quel poco che c’era: un “poco” pesante e pletorico, ma
insoddisfacente. Eppure, forse qualcosa si sta movendo. Qualcosa che ci
condurrà a prender concordi atto che quella “falsa partenza” ha servito se non
altro a farci prendere comune coscienza di un bisogno diffuso per quanto mai
evidenziato, mai approfondito dalle forze politiche dei paesi membri della Ue.
Non a caso, non abbiamo né una Costituzione – di cui non siamo stati capaci
nemmeno di redigere un preambolo -, né un esercito; abbiamo sì una bandiera,
anche bella, e un inno (preso dalla Nona di Beethoven) che però non possiamo
cantare in quanto manca di parole adeguate.
Eppure
oggi è successo un piccolo miracolo. Il Presidente del Parlamento Europeo,
Martin Schulz, ha inviato alla gente
siciliana dei comuni coinvolti dallo sbarco del 1943 un messaggio per rievocare
un evento accaduto sessantanove anni or sono. Un piccolo, doloroso evento: una
goccia di sangue versata nell’oceano che stava affogando il mondo di quei
giorni. Ma l’averlo ricordato oggi può rappresentare un giro di boa, il segno
dell’inizio di qualcosa di davvero rivoluzionario e profondo.
Martin
Schulz si è simbolicamente unito a un piccolo gruppo di cittadini riuniti per
ricordare, con un semplice cippo, un evento doloroso e un crimine di guerra. Il
massacro senza ragione, contro le leggi di guerra e contro le leggi umane e
divine, di un gruppo di soldati italiani che si erano arresi da parte di
un’unità delle forze armate statunitensi sbarcate in Sicilia. Un atto non solo
inutile, ma anzitutto arbitrario e crudele.
Ma
perché ricordarlo solo adesso? Si chiederà qualcun altro. E che cosa volete che
significhi quell’episodio, nel mare di ferocia di una guerra che assisté
addirittura a veri e propri genocidi? Rifletterà qualcun altro.
Qui
sta appunto la sconvolgente novità. Sempre, dopo le guerre, si tende a
criminalizzare i vinti e ad assolvere i vincitori. È una legge antica forse
quanto il mondo: ma divenuta, all’indomani delle prima e soprattutto della
seconda guerra mondiale, un dogma inviolabile. In tempi recenti, qualche stato
ha addirittura proposto ed emanato leggi demenziali tese a derubricare a
crimine passibile di pena qualunque
parere, comunque espresso, che potesse venir interpretato come un tentativo di
rivedere alcune pagine storiche e di
ridistribuire, magari alla luce di nuovi elementi e documenti, alcune
responsabilità. Si è indiscriminatamente e istericamente parlato di
“revisionismo” e di “negativismo”, si è confuso tra ricostruzione dei fatti e
critica di essi, ci si è abbandonati a un terrorismo che in qualche caso ha
lambito anche sedi politiche ed accademiche elevate.
Oggi,
Martin Schulz rompe l’omertà: e definisce per quel che è, un crimine, quel
lontano atto di viltà e di ferocia che sarebbe stato chissà quante volte
ricordato e stigmatizzato se fosse stato compiuto da soldati della parte che ha
perduto la seconda guerra mondiale; mentre, per il fatto di essere stato
commesso dai vincitori, era stato per troppi decenni “dimenticato”, rimosso.
Certo,
il presidente fa quel che può. Molte altre lapidi, sparse un po’ dappertutto in
Europa, parlano analogo criptico linguaggio. I crimini commessi dalle forze del
Terzo Reich sono stigmatizzabili come “barbarie nazista”. Per gli altri,
aggettivi qualificativi politically correct mancano. Quale barbarie ha reso
possibile i bombardamenti di Dresda e di Hiroshima? Schulz risponde in modo
corretto, pur senza infrangere le regole vigenti: “la barbarie della seconda
guerra mondiale”, che ci ha insegnato a tenderci di nuovo la mano, a
riconoscerci come fratelli. Ed è su ciò che bisogna costruire quell’unità
europea per la quale poco di effettivo fino ad oggi è stato fatto, come giorni
fa ha sottolineato la stessa cancelliera Angela Merkel. Ma per far questo
occorre una reale volontà unitaria: che cominci dai giovani, dalla scuola.
Mezzo
secolo fa noialtri giovani universitari invocavamo la nascita di una scuola
unitaria europea, nella quale tutti i ragazzi degli stati membri studiassero,
nella loro lingua rispettiva, la medesima storia e accedessero a una misura
comunitaria della cultura europea, nella quale Shakespeare non fosse più un
semisconosciuto a tutti meno che ai ragazzi britannici e Cervantes un semignoto
a chiunque non fosse spagnolo. Mezzo secolo fa chiedevamo che in tutta Europa
si abolissero le intitolazioni delle
piazze e strade alle vittorie nazionali e le si sostituissero con
l’intitolazione alla concordia europea; che si smettesse di studiare la
ristretta storia nazionale e si accedesse a un più ampio e comprensivo studio
della storia europea. Perché dalla conoscenza nasce la coscienza, e dalla
coscienza l’amore. Sono partiti i programmi Socrates ed Erasmus, importanti ma
non sufficienti: poi, non si è fatto altro. Riprendiamo il cammino: partendo
stavolta non dall’economia che ci ha dato l’Eurolandia, bensì dalla scuola,
dalla cultura, dalla politica, dalla coscienza che un’Europa unita è più che
mai quel che ci vuole per procurare un po’ di equilibrio a un mondo sempre più
impazzito. Era un cammino che avremmo dovuto avviare dal ’45: abbiamo perduto
quasi settant’anni. L’appello del
Presidente Schulz ci suggerisce di ricominciare da capo. Subito.
di
Franco Cardini.
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