di
Gloria Sabatini.
Il
26 luglio di sessant’anni fa moriva la regina dei descamisados, l’icona
dell’Argentina moderna, né di destra né di sinistra. Se l’incontro al Luna Park
di Buenos Aires con Juan Domingo Peròn cambiò per sempre la vita alla ragazza
della Pampas, fu lei, la povera e gracile Eva Duarte, a imprimere all’Argentina
quella modernizzazione interclassista che nessuno, complottisti e denigratori
postumi, si azzarda a negare. «La segreteria di stampa della presidenza della
Nazione compie il penosissimo dovere di informare il popolo della Repubblica
che alle ore 20,25 è deceduta la signora Eva Peròn, leader spirituale della
Nazione». Ad appena 33 anni, per un cancro al collo dell’utero, moriva la
primera dama d’Argentina. Interrotte le trasmissioni alla radio, proclamato il
lutto nazionale per un mese, al suo funerale partecipò un oceano di milioni di
persone e il suo corpo imbalsamato fu esposto per tre anni. Carisma, grinta
barricadera e un’attenzione eccezionale ai più deboli e diseredati. A capo
della sezione femminile del Partito giustizialista strappò agli elefanti il
diritto di voto alle donne, entrando nella storia argentina. In prima fila
nelle fabbriche e nelle piazze, Evita sedusse lavoratori e lavoratrici
assicurando a Peròn l’elezione nel ‘46 e il secondo mandato nel ‘51.
L’opposizione militare le impedì di accedere alla vicepresidenza facendole
pronunciare il celebre renunciamiento davanti alla folla: «Renuncio a los
honores pero no a la lucha» («Rinuncio agli onori ma non alla lotta»). La razòn
de mi vida, l’unica autobiografia, avrà il suo stesso destino: esaltata,
beatificata, esecrata, obbligatoria nelle scuole e poi bandita dalle librerie.
«Per divorziare dal suo popolo il capo del governo dovrebbe cominciare col
divorziare dalla propria moglie», scriveva. Senza Evita, Peròn sarebbe stato un
caudillo come tanti.
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