Non
bisogna farsi ingannare da quelle fotografie. Il martedì grasso della destra
romano-laziale non è soltanto una mascherata tardo felliniana, non è un dramma
satiresco: è uno stato dell’essere. E il segreto per comprenderlo sta nel
maiale, nella maschera suina indossata sulla scena dai protagonisti maschili di
una carnevalata che si può anche equivocare come parodia di un’epoca storica –
l’antichità declinata nella penombra inconscia di riferimenti cinematografici
moderni: dal toga party di “Animal House” alla lubricità di certi filmetti
adolescenziali americani degli anni Ottanta – e che invece rinvia a significati
più profondi. La scelta di una maschera obbliga al disvelamento del proprio sé.
Il tradizionalista René Guénon utilizzò al riguardo parole illuminanti: “Le
maschere di carnevale sono genericamente orride ed evocano il più delle volte
forme animali o demoniache, tanto da essere quasi una sorta di
‘materializzazione’ figurativa di quelle tendenze inferiori, o addirittura
‘infernali’, cui è permesso così di esteriorizzarsi”. “Del resto – conclude il
Guénon – ognuno sceglierà naturalmente fra queste maschere, senza neppure
averne una chiara coscienza, quella che meglio gli conviene, cioè quella che
rappresenta quanto è più conforme alle sue tendenze, sicché si potrebbe dire
che la maschera, che si presume nasconda il vero volto dell’individuo, faccia
invece apparire agli occhi di tutti quello che egli porta realmente in se
stesso, ma che deve abitualmente dissimulare”. Questo spiega la presenza di maschere
cornute e faunesche nelle celebrazioni primaverili dei paesi mediterranei, lì
dove l’uomo (non il maiale) si riappropria di una funzione fecondatrice
ancestrale e propizia l’uscita dal buio.
Di
qui proviene, oggi, la facile impressione che il generone laziale di
centrodestra (ma non solo quello) abbia trasceso il ciclo delle stagioni e
abbandonato la finzione di un civismo politico ed esistenziale mal sopportato
per troppo tempo: la liberazione notturna nell’indistinto, ove non vige più
l’ordine delle regole solari, visibili e dunque responsabilizzanti, li ha
precipitati nella più limpida autorivelazione. Maiali, dunque, nemmeno per
libera scelta ma per una vocazione intima e occulta. Stabilito questo, ritrova
forse senso la citazione antiquaria? I compagni di Ulisse tramutati in porci
dalla maga Circe, costretti a grufolare nel suo orto, sono la condensazione
simbolica della natura inferiore (“l’animale che mi porto dentro me”, cantò
Battiato quando aveva voce), il vortice degli istinti bassi e vischiosi
dell’uomo/verro. Del resto è noto a chiunque che il maiale non gode di ottima
fama un po’ in ogni latitudine. L’imperatore Giuliano, nel Quarto secolo
dell’èra volgare, spiegava così l’interdizione delle carni suine durante le
feste patrizie in onore della Grande Madre: “… è bandito dal sacro cibo in
quanto totalmente ctonio, sia per la forma, sia per il tipo di vita, sia per il
carattere stesso del suo essere. (…) Questo animale non può guardare il cielo,
non solo perché non vuole, ma anche perché, per natura, è tale che non può mai
sollevare lo sguardo”. Triste condizione, quella del maiale. Ma non bisogna
esagerare. La bestia è priva di colpa, come ogni fatto di natura. La porchetta
è pur sempre un pasto gioviale e richiama il banchetto sacro dei popoli laziali
che si radunavano sul Monte Albano per le feste. Se poi è ancora vero, come usa
dire, che del maiale non si butta via niente, non c’è motivo di disperare per
il futuro del generone di centrodestra.
di
Alessandro Giuli.
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