L'INVASIONE DELL'ITALIA.
Da quando è diventata uno Stato indipendente, nel 1861, l’Italia ha conosciuto tre invasioni del proprio territorio nazionale.
La prima ha avuto luogo dopo lo sfondamento di Caporetto, il 24 ottobre 1917, da parte degli eserciti austro-ungarico e germanico (ossia delle due nazioni ex alleate) e ha coinvolto solo una modestissima porzione del suolo patrio: il Friuli e la parte del Veneto che giace sulla sinistra del Piave, nonché le modeste conquiste in territorio nemico (Gorizia, in particolare), che, però, erano costate letteralmente fiumi di sangue.
Questa prima invasione venne contenuta con la battaglia d’arresto del novembre-dicembre 1917 e rigettata al di là dei confini nazionali con la battaglia di Vittorio Veneto, iniziata il 24 ottobre 1918 e terminata il 4 novembre successivo, al momento dell’entrata in vigore dell’armistizio italo-austriaco di Villa Giusti, presso Padova.
Anche se le province invase erano state poche (Udine, Belluno, un terzo di quella di Treviso e lembi di quelle di Vicenza e di Venezia), il pericolo era stato notevolissimo; anche perché, dopo la dodicesima battaglia dell’Isonzo, - quella che noi chiamiamo battaglia di Caporetto - l’esercito italiano sembrava in stato di dissoluzione e nessuno sembrava in grado di prevedere dove e quando sarebbe stato possibile arrestare la ritirata. Gli Anglo-Francesi proposero il ripiegamento fino al Mincio; la brillante resistenza sul medio e basso corso del Piave e sugli Altopiani fu una vera e propria sorpresa, non solo per il nemico avanzante, ma per lo stesso popolo italiano e per i suoi dubbiosi alleati.
La seconda invasione incominciò il 10 luglio 1940 e investì la Sicilia, preceduta dalla caduta delle isole di Lampedusa e Pantelleria; quest’ultima, benché fosse stata trasformata in una imprendibile fortezza, si arrese senza aver avuto una sola perdita, prima ancora che il nemico iniziasse le operazioni di sbarco.
Questa volta, l’invasione proveniva dal Sud, dal Mediterraneo, e precisamente dal Nord Africa; dopo che, in Tunisia, le ultime forze italo-tedesche erano state costrette ad arrendersi, nonostante una valorosissima resistenza, davanti all’avanzata congiunta dei Britannici dall’Egitto (battaglia di El Alamein) e degli Americani dal Marocco e dall’Algeria francesi, i quali disponevano di una schiacciante superiorità terrestre, aerea e navale.
Tale invasione ebbe termine alla fine di aprile del 1945 (ai primi di maggio in Friuli e nella Venezia Giulia), con la resa delle ultime forze tedesche e fasciste nel Nord Italia; a meno che non si voglia prendere per buona la versione “democratica”, secondo la quale gli Anglo-Americani, dopo i tragici fatti dell’8 settembre, erano divenuti i nostri “liberatori” e, quindi, non dovevano essere più considerati dei nemici, ma degli amici; mentre gli amici del giorno prima, ossia i Tedeschi, divenivano bruscamente i peggiori nemici che il nostro Paese avesse mai conosciuto.
Sia come sia, liberatori o invasori, gli Anglo-Americani terminarono le operazioni militari solo dopo aver risalito tutta intera la Penisola, dall’estremo sud all’estremo nord, e solo dopo averla bombardata con inaudito accanimento, seppellendo sotto le macerie decine di migliaia di cittadini inermi; mentre, nelle regioni del centro-nord, si scatenava una guerra civile di ferocia belluina, quale il nostro popolo non aveva mai conosciuto in tutta la sua lunga storia.
Tragedia nella tragedia, le regioni dell’estremo nord-est conobbero una ulteriore invasione da parte delle truppe partigiane comuniste jugoslave, che si resero protagoniste di una delle pagine più nere a memoria d’uomo: quella delle foibe; senza contare che, in queste zone, la stessa resistenza partigiana finì per spaccarsi in due e per degenerare in episodi di massacro reciproco, come avvenne nelle malghe di Porzûs, nel febbraio 1945. Per Trieste, l’occupazione straniera – jugoslava i primi 40, terribili giorni; angloamericana poi – durò addirittura fino al 1954.
La terza invasione dell’Italia è quella odierna, intrapresa dagli immigrati provenienti dall’Africa, dall’Asia, dall’America Latina, dai Balcani e dall’Europa orientale ed incominciata verso la fine degli anni Settanta del ‘900 (ossia, meno di una generazione dopo che era terminata l’emigrazione degli Italiani in cerca di lavoro all’estero), grazie alla politica delle “porte aperte” praticata dai nostri governi, allora a guida democristiana, nonché come conseguenza delle politiche più restrittive adottate dagli altri Paesi europei.
Il primo censimento ISTAT degli stranieri presenti in Italia stimava il loro numero in 321.000, dei quali circa un terzo “stabili” e due terzi “temporanei”. Una evidente anomalia del fenomeno immigratorio – peraltro ancora estremamente contenuto – era il numero degli stranieri entrati clandestinamente in Italia e la relativa facilità con cui avevano varcato le nostre frontiere, sia marittime (al Sud) sia terrestri (al Nord-est).
Proprio per porre ordine in una tale situazione, nel 1982 venne proposto un primo programma per regolarizzare la posizione degli immigrati privi di documenti. Come si vede, nessuno pensò di procedere alle espulsioni e al rafforzamento della sorveglianza alle frontiere, ma si considerò inevitabile accettare che quanti erano entrati illegalmente nel nostro Paese, potessero restarvi, purché si fornissero di passaporto.
Allora, forse, quasi nessuno se ne rese conto, ma quella mossa fu disastrosa sul piano psicologico: significava l’inizio di una resa a discrezione. In tutta la sponda sud del Mediterraneo, in tutta l’Africa, l’Asia e l’America Latina, in Albania e negli altri Paesi dell’ex blocco sovietico, si sparse la voce che il governo italiano non poteva o non voleva far rispettare i propri confini ed era più che disponibile a legalizzare la posizione di chiunque fosse riuscito ad introdursi clandestinamente nel suo territorio.
Senza esagerare, crediamo che l’effetto psicologico, fuori d’Italia, fu altrettanto grave di quello prodotto dalla battaglia di Fornovo sul Taro, il 6 luglio 1495. Se in quel fatto d’armi, come ha osservato Luigi Barzini junior, l’esercito francese di Carlo VIII fosse stato distrutto, nessun esercito straniero si sarebbe azzardato a ripetere la sua impresa con altrettanta arroganza e con altrettanta sicurezza, certo di non incontrare alcuna resistenza (la famigerata “guerra del gesso”).
Ma il comandante dell’esercito della Lega degli Stati italiani, Francesco Gonzaga, benché disponesse della superiorità numerica e benché si trovasse in una favorevole posizione tattica, inspiegabilmente si lasciò sfuggire l’occasione di assestare una tremenda lezione agli invasori: e Carlo VIII, benché malconcio e costretto ad abbandonare tutto il suo bottino, riuscì ad aprirsi la strada e a rientrare in Francia con l’esercito.
Da quel momento, tutta l’Europa conobbe il delicatissimo segreto: che l’Italia, il Paese più ricco e più civile dell’intero continente, era anche il più debole e il più facile da conquistare. E incominciò la secolare tragedia delle invasioni stranire e della perdita dell’indipendenza, suggellata dalla tremenda umiliazione nazionale del sacco di Roma, nel 1527.
A questo punto dobbiamo spiegare perché riteniamo che l’immigrazione straniera in Italia di questi ultimi tre decenni si configuri come una vera e propria invasione; e perché le esitazioni del governo italiano a considerare l’ingresso illegale alla stregua di un reato, nonché la sua rassegnazione alla “inevitabilità” del crescente movimento migratorio, costituiscano l’equivalente psicologico della mancata vittoria di Fornovo del 1495.
Una invasione può essere armata oppure no; può essere violenta o incruenta: le migrazioni dei popoli antichi erano, sovente, caratterizzate da un minimo di violenza o, addirittura, da una pacifica mescolanza. I Germani stavano invadendo la Gallia, allorché Cesare sbarrò loro la strada, li ricacciò oltre il Reno e assoggettò a Roma la Gallia medesima: se non vi fosse stato l’intervento romano, l’occupazione germanica di quel Paese sarebbe stata certa e, quasi sicuramente, pressoché incruenta,.
È molto probabile che anche la migrazione degli Ebrei nell’antica Palestina sia avvenuta in maniera relativamente pacifica, nonostante ciò che dicono in contrario i libri del Pentateuco, i quali parlano di stragi e devastazioni sistematiche: ma come credere che un popolo di pastori nomadi sia divenuto un popolo bellicoso nello spazio di una sola generazione o poco più, al punto da poter sopraffare degli esperti guerrieri come i Filistei?
Il più delle volte, le migrazioni dei popoli assumevano un carattere decisamente violento allorché si scontravano con la resistenza di entità statali bene organizzate, per quanto politicamente e militarmente in declino. Tale fu il carattere delle guerre fra i cosiddetti Popoli del mare e gli Egizi, durante il regno di Ramses III; fra i Mongoli e i Cinesi, all’ombra della Grande Muraglia; fra i Germani e i Romani, a partire dal III secolo dopo Cristo, lungo il “limes” del Reno e del Danubio.
Le invasioni degli Angli, dei Sassoni e degli Juti in Gran Bretagna, a partite dal V secolo, e, in seguito, quelle dei Danesi e dei Norvegesi, per finire con l’ultima, quella dei Normanni che conquistarono l’isola nel 1066, ebbero, sì, carattere violento, ma non si risolsero in un genocidio dei vinti: tanto è vero che i discendenti della popolazione celtica sopravvivono ancora nella Scozia, nel Galles e nell’Irlanda odierni.
Ora, l’attuale flusso d’immigrati in Italia presenta precisamente i caratteri di una invasione: se le parole hanno un significato, “invasione” è l’ingresso massiccio di un gruppo estraneo nel territorio di uno Stato sovrano, senza che quest’ultimo possa opporvisi. E i nostri governanti non osano opporsi: moralmente ricattati da una cultura “buonista” che vorrebbe accogliere tutti, aprire le braccia a tutti, per non sentirsi indegni e spregevoli nel caso si comportassero diversamente, hanno fatto passare nel mondo l’immagine di un Paese colabrodo, dove chiunque può entrare illegalmente e poi, con comodo, regolarizzare la propria posizione.
Nel 1991, secondo il censimento ufficiale, gli straneri erano saliti a 625.000; e, a partire dal 1993, il saldo migratorio è divenuto il solo responsabile della crescita della popolazione italiana, perché gli stranieri fanno molti più figli degli Italiani e ciò significa che, fra due o tre generazioni, anche se – per ipotesi – l’immigrazione cessasse, la percentuale degli stranieri sarà cresciuta di due o tre volte rispetto a quella attuale. Il primo tentativo di regolamentare i flussi migratori – di regolamentarli, si badi, e non di respingerli – è stato fatto con la legge Martelli, del 1990: che, dopo sei mesi, portò al riconoscimento della presenza di altri 200.000 illegali (o, come si preferisce dire, “irregolari”).
Seconda dati della Caritas, nel 1996 il numero totale degli stranieri era salito a 924.500, vale a dire poco meno di un milione; nel 2001, era già passato a 1.335.000; nel 2005, a 1.990.000.
Il 1° gennaio 2011, secondo i dati ISTAT, gli stranieri sono arrivati alla cifra di 4.563.000: crescita vertiginosa, dovuta non solo al costante afflusso di immigrati, ma anche al saldo naturale, come già accennato, di quelli presenti in Italia.
In percentuale, il 7,5% della popolazione italiana risulta ormai composto da stranieri; e tale incremento non accenna a rallentare.
Solo nel 1998 la legge Turco-Napolitano cercò di intervenire nuovamente per regolarizzare la condizione dei clandestini ed istituì i Centri di accoglienza temporanea per gli stranieri sottoposti a provvedimenti di espulsione.
Ma bisogna arrivare al 2002, con la legge Bossi-Fini, per fare un po’ di maggiore chiarezza e per autorizzare anche l’eventuale espulsione immediata dei clandestini – il tutto sotto il fuoco di fila delle critiche dei “progressisti”, degli “umanitari” e di molti cattolici che non sanno fare alcuna distinzione fra il senso della cristiana accoglienza, come virtù personale dell’individuo, e le esigenze di protezione di un grande Paese che non potrebbe, anche volendolo, accogliere milioni di stranieri ed offrire loro un posto di lavoro – non parliamo poi dei molti, dei troppi, che vengono in Italia al preciso scopo di delinquere, di sfruttare la prostituzione, di spacciare droga o, peggio, di vivere di furti, rapine e altre forme di criminalità organizzata.
Per anni ed anni ci siamo sentiti dire che l’immigrazione è una risorsa; che gli stranieri svolgono quei lavori, più pesanti e meno remunerati, che gli Italiani rifiutano; che la società multietnica e multiculturale è la vera società democratica del futuro.
Per anni ed anni ci siamo sentiti ripetere, specialmente dagli uomini politici della parte che si autodefinisce progressista, che chi la pensa diversamente è un bieco reazionario, un incivile, che non sa vedere al di là del proprio naso, che è fuori della storia e fuori della realtà.
In poche parole, l’immigrazione non è mai stata oggetto di una seria riflessione o anche solo di un dibattito a livello nazionale: la si è sempre data per scontata, come un evento ineluttabile e, nel complesso, molto positivo; anche se pochi si sono presi la briga di articolare tali argomentazioni e di supportarle con cifre e con dati di fatto.
Si è fatta, semplicemente, molta retorica.
Non abbiamo fatto distinzione, sinora, nel presente ragionamento, tra immigrazione legale e illegale, e ciò per una buona ragione: se quella illegale è semplicemente assurda, e qualunque altro paese al mondo, a cominciare dai nostri vicini come la Francia, la Svizzera e l’Austria, non lo tollerano in alcun modo, quella cosiddetta “regolare” si svolge pur sempre in un clima di ricatto: impossibile impedirla, al massimo si può pensare di limitarla, contenerla, selezionarla, ma molto, molto timidamente e, comunque, consapevoli che il flusso continuerà, anno dopo anno, inarrestabile, fatale come il destino.
Il nostro destino è segnato: dobbiamo accogliere sempre più stranieri, indefinitamente: questo vuole la nostra educazione; questo proclama la Chiesa cattolica, per bocca sia dei vertici, sia dei parroci; e chi la pensa diversamente è considerato poco cristiano, poco caritatevole, poco umano.
Non importa se la crisi ci sta mettendo in ginocchio, se le fabbriche chiudono, se migliaia di famiglie si trovano letteralmente allo sbando per la perdita del posto di lavoro: dobbiamo stringerci e aggiungere un posto a tavola. Non possiamo accettare un’immagine egoista di noi stessi; non possiamo sopportare i sensi di colpa che ci verrebbero dal sospetto di essere considerati razzisti: siamo condannati ad essere “buoni”.
Sì, è duro fare questo discorso: non lo si vorrebbe fare; e tuttavia, bisogna che qualcuno lo faccia: non possiamo permetterci di continuare così. O si pone un drastico freno all’immigrazione, non solo clandestina, ma anche regolare, oppure la situazione sociale diverrà ingovernabile.
Paesi come la Gran Bretagna, ove gli stranieri residenti sono già arrivati alla quarta generazione, sanno quanto sia difficile l’integrazione; sanno che il sogno di una società multiculturale è tramontato.
Paesi come la Francia, che pure hanno una antica tradizione multietnica per via della loro storia coloniale, hanno imparato, dai roghi delle banlieues, che queste cose non si possono gestire con ingenua faciloneria.
Chiunque possieda un sia pur minimo senso di responsabilità, dovrebbe avere imparato che una immigrazione di queste proporzioni, che si rovescia sull’Europa in tempi così brevi e che non lascia margini di discussione e di eventuale rifiuto da parte dei Paesi ospitanti, non può portare a nulla di buono.
È difficile trovare l’atteggiamento giusto, davanti a simili problemi.
Non vi è alcun dubbio che una politica meno egoista e più lungimirante, da parte dei Pesi del Nord della Terra, avrebbe disinnescato la bomba migratoria o ne avrebbe ridotto di molto gli effetti: non si può tacere che, se tante persone fuggono dal Sud per rifarsi una vita altrove, ciò è dovuto anche allo sfruttamento delle multinazionali, al cinismo degli organismi finanziari internazionali, alla maniera furbesca e cialtrona con cui è stata portata avanti la politica dei governi del Nord nei confronti dei Pesi del Sud del mondo.
Pure con tutto ciò, non ne consegue che il popolo italiano debba subire le conseguenze disastrose di quegli errori, di quelle manchevolezze, di quella cecità.
Quando si vedono gli immigrati clandestini tunisini, a torto chiamati “profughi” dai telegiornali, che, appena sbarcati a Lampedusa, a centinaia, a migliaia per volta – tutti uomini giovani e sani, nessuna donna, nessun vecchio, nessun bambino – sventolano la bandiera del loro Paese, alzando l’indice e il medio nel segno di vittoria, non si può non restare perplessi.
Non fuggono dalla guerra e dalla fame; prendono a pretesto la caduta di Ben Alì per rovesciarsi in massa sull’Italia, pretendendo, dall’oggi al domani, una vita diversa: quella, fasulla e scintillante, che la nostra televisione, dall’altra sponda del Mediterraneo, ha fatto intravedere loro per tutti questi anni, ma che in realtà non esiste nemmeno per noi.
Vengono come un esercito di conquistatori: pacifici, per ora: ma non accettano un respingimento. Se respinti, giurano che torneranno: una, cinque, dieci volte. Hanno pagato mille euro agli scafisti, vendendo i loro beni: si sono bruciati i ponti alle spalle. Non chiedono di entrare in Italia, lo esigono.
Però, lo ripetiamo, non stanno fuggendo da guerre o da pericoli: al contrario, questo sarebbe il momento per ricostruire la loro Patria, con rinnovate speranze nel futuro. Se democrazia e libertà valgono qualcosa, questo sarebbe il momento per restare, per prendere in mano il loro destino e creare condizioni di vita migliori per le loro famiglie.
La loro folle corsa verso l’Italia assomiglia a un gigantesco sciopero dalla propria cittadinanza, dalla propria condizione; però, al tempo stesso, quelle bandiere tunisine, tirate fuori al momento dello sbarco (e tutti ricordiamo le bandiere della Cina, all’epoca della sommossa della colonia cinese di Milano), dicono che essi non vengono per integrarsi, ma per conquistarci.
Qualcuno si immagina i nostri nonni, che raggiungevano il Brasile o l’Argentina dopo settimane di navigazione, stipati sulle navi dei poveri emigranti, ma con tutti i documenti in regola e un contratto di lavoro nella tasca della giacca, che, appena sbarcati a San Paolo o a Buenos Aires, tiravano fuori la bandiera tricolore e alzavano le mani in segno di vittoria? Quelli, erano dei veri emigranti; questi, invece, sono dei conquistatori.
Lo diciamo senza odio e senza cattiveria. Non si può non provare rispetto per ogni essere umano, specie se povero e sfortunato. Ma si hanno dei doveri nei confronti del proprio Paese: non si può far salire a bordo di una scialuppa, capace di imbarcare venti persone, cinquanta o cento naufraghi. Sarebbe crudeltà verso quei venti che potrebbero salvarsi.
Perfino coloro che fuggono dalla guerra o dalla carestia – e non è il caso, oggi, né dei Tunisini, né degli Egiziani, e solo in parte dei Libici – non dovrebbero essere accolti indiscriminatamente. Se bastasse lo status di rifugiato per autorizzare chiunque a venire in Europa, o in Italia, allora nel giro di pochi anni decine o centinaia di milioni di esseri umani si precipiterebbero qui. Gli effetti delle guerre e delle carestie non si curano accogliendo intere popolazioni, ma cercando di creare condizioni migliori di vita nei rispettivi Paesi di provenienza.
Vorremmo che così non fosse; ci piacerebbe che si potesse accogliere chiunque, ospitare chiunque, magari senza nemmeno chiedergli chi è e cosa lo spinge lontano della sua casa e dai suoi affetti, come fece Nausicaa con Odisseo, sulle spiagge rocciose dell’isola dei Feaci.
Ma questo non è possibile: bisogna essere realisti e prenderne atto. Non possiamo ipotecare l’avvenire dei nostri figli e dei nostri nipoti con una politica di accoglienza che è null’altro che una resa camuffata davanti ad una invasione.
Certo, vorremmo che a dire queste cose fossero gli intellettuali “perbene”, e che a legiferare in materia fossero dei politici umani, aperti, intelligenti: non dei demagoghi che cavalcano le paure del cittadino medio quando fa loro comodo per strappare un pugno di voti in più, salvo poi dimenticarsene non appena sono stati eletti.
Ma è proprio la demagogia di costoro che ci obbliga a parlare in questo modo, senza alcun sentimento di razzismo o, meno ancora, di odio, nei confronti degli altri popoli. Ogni civiltà, ogni cultura meritano rispetto, così come ogni essere umano: da ciò, tuttavia, non deriva un dovere di accoglienza illimitata.
La compassione, quando si parla della difesa del bene comune, della pace comune, della sicurezza comune, deve accompagnarsi ad una giusta severità.
Una maggiore severità oggi, potrà permetterci di essere più generosi domani.
Una ulteriore, malintesa forma di generosità oggi, ci costringerà, domani, a pentirci amaramente delle nostre scelte: se non per noi, per quelli che verranno dopo di noi.