Ernest Jünger |
La
morte è la sostanza della guerra, e quindi, probabilmente, non è un caso che
morte e guerra siano state rimosse insieme dall'orizzonte della società
contemporanea. Eliminata da una giovinezza artificialmente smisurata e quindi
nascosta nell'asettico freddo degli obitori, la morte non fa più parte del
mistero della vita, rendendola quindi insensata. Ridotta a semplice «operazione
chirurgica» o convertita ipocritamente in «missione umanitaria», la guerra non
è più scontro tra avversari di pari dignità ma si è trasformata nel feroce
annientamento del nemico, divenuto estraneo al concetto stesso di umanità.
Un
primo, allarmante segnale di questa discesa agli inferi si ha durante il
Secondo conflitto mondiale, quando allo scontro in armi tra nazioni si
aggiungono gli atti terroristici dietro le linee e le inevitabili rappresaglie.
In uno scritto a lungo ritenuto perduto, Jünger, nelle vesti di ufficiale delle
truppe di occupazione, stila, a futura memoria, un rapporto sugli attentati che
funestano Parigi a partire dall'agosto 1941, ora pubblicato per la prima volta
in italiano da Guanda col titolo Sulla questione degli ostaggi. Parigi
1941-1942, (pagg. 190, euro 14), dove l'esteta lascia il posto al burocrate,
attento a sottolineare come le vittime delle rappresaglie tedesche muoiano
senza mostrare «odio contro la Germania o le truppe di occupazione», come
effettivamente risulta dalle lettere dei condannati a morte raccolte
dall'autore e qui pubblicate in appendice.
Al
tema classico della guerra è invece dedicato il volumetto Guerra e guerrieri
curato ancora da Maurizio Guerri e pubblicato da Mimesis (pagg. 74, euro 8),
che raccoglie il contributo di Friedrich Georg Jünger all'antologia collettanea
Krieg und Krieger pubblicata nel 1930, insieme con il discorso di suo fratello
Ernst tenuto a Verdun il 24 giugno 1979, per celebrare l'anniversario di una
delle più sanguinose battaglie della Prima guerra mondiale e auspicare
l'avvento di una pace mondiale.
Con
la Grande guerra una nuova, inaudita violenza ha fatto irruzione sulla scena
mondiale e, cancellando la separazione tra stato di pace e stato di guerra,
aveva trasformato anche l'azione politica, che diventa appannaggio di un nuovo
ceto, una aristocrazia guerriera nata dal fango delle trincee e forgiata dal
fuoco delle tempeste d'acciaio. Finita la guerra, il nuovo tipo umano che aveva
saputo interiorizzare l'esperienza del combattimento doveva, per i fratelli
Jünger, trasferire la propria volontà trasformatrice dal fronte bellico a
quello interno del lavoro, in attesa della rivoluzione nazionale che avrebbe
sostituito «l'azione alla parola, il sangue all'inchiostro, il sacrificio alla
retorica e la spada alla penna», come scriveva Ernst sul Voelkischer Beobachter
nel settembre 1923, molti anni prima di giungere alla conclusione, citata nel
discorso di Verdun, che «l'era delle guerre nazionali stava volgendo al
termine».
A
quell'epoca eroica, fa invece riferimento l'altro Jünger, Friedrich Georg,
anche lui combattente nella Grande guerra, il quale, scrivendo al crepuscolo
della Repubblica di Weimar, riteneva esistesse un destino - altro tabù
contemporaneo - sia individuale sia comunitario, che la guerra ci avrebbe
aiutato a capire, mettendoci di fronte a scelte ed esperienze così radicali da
elevare «il singolo e la società in un ambito dove legge e forma si incontrano
in modo vincolante e fraterno». L'aspirazione a una pace universale, vista come
l'unica via d'uscita per l'umanità dopo l'invenzione della bomba atomica, e
l'esortazione a «diventare ciò che si è» cercando di capire quale sia il
proprio destino, sono la consegna che questo denso volumetto lascia
all'umanità, oggi distratta da guerre mascherate da rivoluzioni più o meno
colorate e strangolata da una spaventosa crisi globale, due elementi che
potrebbero, prima o poi, rendere le idee dei fratelli Jünger di bruciante
attualità.
di
Luca Gallesi.
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