Ora però occorre guardare avanti. Dobbiamo lavorare per dare sempre maggiore forza al Pdl e per affermare l’identità della quale siamo portatori, una identità che viene da lontano e che è un valore aggiunto per questo partito. E lo dobbiamo fare anche continuando a cercare sintesi tra posizioni diverse, a considerare il dibattito interno una risorsa irrinunciabile, ovviamente purché sia finalizzato a rafforzare e non a indebolire il partito. Ci sono, ci devono essere, i margini per ricostruire, per lavorare a un Pdl più unito e per questo più forte, e ciascuno di noi deve farsi parte diligente in questo senso. Il dibattito sulle intercettazioni è un segnale importante in questo senso. Ha ragione Maurizio Gasparri a dire che, cito, “siamo orgogliosi delle modifiche che abbiamo apportato anche con la discussione con la società civile, con le realtà del mondo delle professioni e all’interno della maggioranza, in un grande partito che sa confrontarsi e applicare al suo interno il metodo della democrazia”. Ha ragione Maurizio, e lo ringrazio, anche perché personalmente considero le modifiche migliorative del testo.
E poi, dicevo, dare sempre maggiore forza e concretezza alla presenza delle nostre idee nel centrodestra. Ricordarci da dove veniamo, quali promesse abbiamo fatto. Può sembrare retorico, ma di fronte alle scelte difficili a me capita spesso di provare a guardarmi con gli occhi di quando ho cominciato a fare politica. Mi chiedo come mi giudicherebbe una ragazzina di 15 anni che, sulla scorta della rabbia per la strage che ha ucciso Paolo Borsellino ha appena bussato alla porta di una sezione del Movimento Sociale Italiano alla Garbatella. Perché so che quella ragazzina è il miglior giudice sul quale possa regolare la mia iniziativa politica.
Naturalmente siamo tutti cresciuti, abbiamo fatto esperienza, imparato a conoscere i meccanismi, perfino le asprezze del gioco politico, ma io penso che non si debbano mai dimenticare le ragioni per le quali tutto è cominciato. Perché quelle ragioni sono la nostra identità profonda. Il motivo per il quale abbiamo scelto di rimboccarci le maniche, di metterci la faccia. Di stare da una certa parte del campo di gioco, e cioè a destra.
Lo so che è un tema insidioso, quello della destra. Perché ha occupato molte delle argomentazioni usate a supporto delle diverse tesi in campo, ma per quanto mi riguarda, è il tema. Se ci ricordiamo perché abbiamo scelto di essere di destra allora sapremo sempre qual è il nostro ruolo e che cosa dobbiamo fare per onorare la nostra storia.
E allora, parafrasando Giorgio Gaber, verrebbe da dire:
Qualcuno era di destra perché voleva essere parte di un movimento popolare e interclassista, fatto di avvocati e contadini, di militari e artigiani, e non di congreghe di intellettuali, illuminati ma incapaci di leggere il quotidiano, con le sue miserie e le sue grandezze. E la grande sfida, anche nell’era della crisi economica, è ancora questa.
Qualcuno era di destra perché pensava che la sicurezza non fosse un capriccio piccolo borghese, ma un diritto di tutti e dei più deboli in particolare, e qualcuno era di destra perché si commuoveva di fronte a quei ragazzi in divisa che con il loro impegno coraggioso garantiscono ogni giorno, lontano da casa, libertà e sicurezza a popoli oppressi. E’ questa la nostra solidarietà, contro quella ipocrita di chi farebbe entrare in Italia tutti gli immigrati fregandosene di che vita li aspetta sul nostro territorio nazionale. L’abbiamo vista a Rosarno la solidarietà della sinistra. L’abbiamo vista bene.
Qualcuno era di destra perché credeva nella sacralità della vita. Non necessariamente un concetto religioso, o cattolico, ma il riconoscimento di qualcosa di cui noi non disponiamo a nostro piacimento. Qualcosa di più alto di un desiderio, di più grande di un diritto, di più naturale di un laboratorio. E per essere fedeli a questo principio noi continueremo a costruire una società nella quale non venga più considerato normale sperimentare su una vita umana per verificare la possibilità di curarne un’altra (solo perché la prima non può votare e la seconda si), oppure drogarsi per essere accettati, o piuttosto abortire nel modo più veloce possibile, magari da sole dentro casa grazie a non si sa bene quale pasticca miracolosa. E battersi contro queste menzogne non è oscurantismo, ma civiltà.
Qualcuno era di destra perché osava ribellarsi alla violenza culturale e talvolta fisica della sinistra italiana nelle fabbriche, nelle scuole, nelle università. E oggi, in quelle stesse università, qualcuno è di destra perché vuole battersi contro lo strapotere dei baroni, garantendo regole utili all’affermazione del merito, per dare una possibilità in più di farcela a qualche giovane ricercatore senza santi in paradiso e una in meno di imbrogliare a qualche figlio, nipote o genero del potente di turno.
Qualcuno era di destra perché si ribellava a chi considerava normale, quando non giusto, ammazzare ragazzini di sedici anni a colpi di mitraglietta nel nome dell’antifascismo. Un presunto antifascismo reso sacro e intoccabile ancora trenta anni dopo la caduta del fascismo, solo per coprire la fuga di qualche terrorista all’estero o le colpe di un sistema politico corrotto. Per questo non smetteremo di chiedere giustizia per tutti i ragazzi vittime della violenza politica, e di lavorare perché le loro storie siano patrimonio condiviso del nostro popolo. E soprattutto per questo ci batteremo fino a quando assassini ripuliti del calibro di Achille Lollo e Cesare Battisti non salderanno il loro conto con l’Italia.
Qualcuno era di destra perché si emozionava a sventolare una bandiera tricolore quando farlo era considerato un gesto reazionario. Abbiamo lavorato tanto per restituire agli italiani l’orgoglio di essere tali, e non dobbiamo mollare adesso.
Per questo vorrei che rispondessimo con fermezza alle provocazioni di chi abolirebbe la festa della Repubblica perché è troppo costosa o dice di preferire che le olimpiadi si tengano in India piuttosto che nella capitale d’Italia mentre Roma si fa in quattro per rendere credibile la propria candidatura. Perché chi è eletto dal popolo italiano ha il dovere di rispettare l’Italia.
Ma qualcuno era di destra anche perché, soprattutto perché, non sopportava la corruzione dei politici. Dovunque si annidasse. Perché rubare significa tradire la politica, la propria comunità. E’ tradire la patria e con essa tutti coloro che per lei hanno sacrificato qualcosa. E allora nessuna indulgenza con chi dovesse approfittare della militanza appassionata di tanti ragazzi, dell’empatia di Silvio Berlusconi con il popolo italiano, del suo consenso o del lavoro di ciascuno di noi per arricchire il proprio conto in banca a spese dell’Italia. Perché questa gente non c’entra niente con noi, rappresenta quello che abbiamo combattuto e che combatteremo sempre.
Per questo ribadisco la mia proposta di inserire nello statuto del Popolo della Libertà una norma che impedisca a chiunque sia stato condannato in via definitiva per reati di corruzione connessi all’esercizio del proprio mandato politico, di essere candidato in qualunque assise vita natural durante.
Ma la politica è solo una parte del problema, e neanche quella più significativa. Per questo credo che il ddl anticorruzione che arriva in Parlamento nelle prossime settimane rappresenti una grande occasione per colpire con forza anche la corruzione che si annida nella burocrazia, nelle procedure poco chiare, o nei piccoli potentati pubblici.
Qualcuno era di destra perché odiava la mafia e io voglio dire che sono fiera, estremamente fiera, di far parte del governo che nella storia della repubblica ha ottenuto i più grandi risultati nella lotta alla criminalità organizzata. Sono fiera di vedere le immagini di quei “sorci” tirati fuori dalle loro tane e consegnati alle patrie galere.
Il segnale che mi piacerebbe uscisse da questa assemblea è che il Pdl non ha solo un grande presente, ma un grandioso futuro. E di questa speranza proprio i suoi giovani possono essere custodi e sentinelle. Ci sono due storie che possono raccontarlo meglio di me e di tanti altri che, un po' ovunque, fanno i baluardi dell’antimafia attraverso i comunicati stampa.
Sono due giovani uomini del sud. Il primo si chiama Fabio Chiosi, ha 34 anni ed è il presidente del primo municipio di Napoli, zona Posillipo. Qualche giorno fa ha ricevuto questa lettera: “Con le tue denunce stai facendo incazzare un sacco di gente importante, gente che conta. Guai a te se continui a parlare con i carabinieri, ti facciamo passare un guaio. Sappiamo dove abiti e che strada fai. Sappiamo dove abitano tuo padre, tua madre, tua sorella con il bimbo piccolo”.
Fabio Chiosi con le sue denunce sta rivoltando il sistema marcio dei falsi invalidi, delle finte pensioni, e lo fa senza paura, senza le telecamere di Annozero, gli inviti da Fazio e la solidarietà dell’intellighenzia nostrana. E’ uno di noi.
Antonino Iannazzo, di anni ne ha 35, e fa il sindaco in Sicilia, a Corleone. Sulla home page del sito del comune ha pubblicato la foto dell’arresto di Bernardo Provenzano. Con una lettera, nella quale dice ai visitatori del sito che ha voluto quella foto tra le bellezze della città perché racconta di una Corleone diversa, libera dal peso della mafia, e perché – dice – sarebbe sciocco non guardare a viso aperto una parte della propria storia, “che è stata, che non è, e che non dovrà più essere”. E’ più coraggioso guardarla in faccia per schierarsi dalla parte giusta. E’ uno di noi.
In comune questi due giovani uomini hanno lo stesso partito, il Pdl, la stessa militanza giovanile, ma anche lo stesso coraggio. In comune hanno la fede in un’avventura politica che vuole difendere l’interesse del popolo italiano e riscattare una generazione alle prese con il periodo storico più difficile dal dopoguerra.
Ci sono tante ragazze e tanti ragazzi straordinari nel Popolo della Libertà, e noi dobbiamo saperli valorizzare. La nascita della Giovane Italia, organizzazione giovanile del Pdl, risponde a questa ambizione. E lo fa in un’epoca vigliacca sulla quale è bene chiarirsi. Io non voglio restare a guardare i giovani italiani consumarsi giorno dopo giorno in una vita di precarietà e paura. Non ci sto.
Abbiamo tutti la nostra parte di colpa in questo senso. Certo, maggiormente quelli che negli anni belli hanno consentito a persone di 40anni di andare in pensione distruggendo il sistema pensionistico per gli anni venire, o quelli che hanno speso anche i soldi nostri lasciandoci un bilancio devastato, o quelli che hanno deturpato il territorio con le speculazioni edilizie o quelli che sognavano la gioventù al potere ma solo fino a quando erano giovani loro. Ma una certa parte di colpa ce l’hanno pure quelli che, a destra come a sinistra, hanno inneggiato alla flessibilità come panacea di tutti i mali, capace di assicurare occupazione e salari talmente alti da giustificare il piccolo fastidio del passaggio da un lavoro all’altro.
La verità è che quel sogno è diventato un incubo. Lavoratori precari privi di qualunque tutela o potere contrattuale nei confronti del proprio datore di lavoro hanno trascinato al ribasso gli stipendi. Stipendi da fame che però non hanno impedito che si registrasse in Italia il più alto tasso di disoccupazione giovanile d’Europa. Dove per giovanile si intende gente che oggi ha 35 anni e domani ne avrà 45. Giovani spesso alla mercé di stage o praticantati retribuiti con pochi spiccioli e un bel calcio nel sedere al termine del periodo. Pronti per essere rimpiazzati da nuovi sbandati da sfruttare. Senza contare la questione previdenziale, dove al fatto che un giovane italiano non andrà in pensione nemmeno a 70 anni, altro che 40, si aggiungerà la beffa di un sistema contributivo destinato a restituirgli una pensione ridicola, che non gli restituisce neanche tutto quello che ha versato.
Il governo ha fatto tanto fin qui, ma serviranno riforme strutturali, e la Giovane Italia dovrà farsi carico di questa sfida. E se ci saranno piatti da rompere dentro casa nostra, si romperanno.
La Giovane Italia nei mesi che verranno dovrà nascere di nuovo. Non più la mera fusione di organigrammi, ma un movimento tellurico in grado di scuotere le fondamenta di un sistema ingiusto. Una presenza radicata, fisica e ideale, che dovrà ritagliarsi i propri spazi nel dibattito politico nazionale più che i posti nelle liste bloccate. Ma ho anche bisogno di sapere se a questa classe dirigente, a questa comunità, interessa ancora avere un movimento giovanile credibile, autorevole e in grado di autodeterminarsi. Perché costruirlo è una sfida che richiede compattezza, che possiamo vincere solo se la consideriamo parte fondante di quello che siamo.
Allora si saremo all’altezza di quei giovani che 150 anni fa si sono sacrificati rincorrendo il sogno di un’Italia unita, di una Patria che è la nostra Patria. Quella gioventù ribelle che fece l’Italia consegna oggi il suo testimone a una nuova generazione che dovrà fare gli italiani. Con la stessa rabbia, con la stessa energia visionaria, con la stessa determinazione che faceva dire a un preoccupato ufficiale borbonico nel suo rapporto a Francesco II: “Si è rivelata una tendenza nella gioventù ad una idea strana e mostruosa. Questa idea abbracciata dai più avventati si è quella dell’unificazione d’Italia”.
E’ questa idea “strana e mostruosa” di unità, dentro e fuori dal partito, a definire da che parte stiamo. Qualunque sia il nostro percorso politico, il territorio di provenienza, o l’incarico che ricopriamo. Unità intorno non a una persona, ma a un’idea. Un’idea che personalmente definisco di destra, ma che potrebbe chiamarsi in tanti altri modi in questo nuovo secolo, purché sia capace di contenere quel sistema di valori per cui ho iniziato la mia militanza politica.
Qualcuno era di destra per moda, qualcuno per principio, qualcuno per frustrazione. Qualcuno era di destra perché ci credeva, e ci crede ancora»
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