Pubblichiamo
un articolo di Ugo Franzolin, scomparso due settimane fa, tratto dal libro “Gli
articoli di Evola sul Secolo d’Italia. 1953-1964”, edito dalla Fondazione Evola
e curato da Gianfranco Lami.
di
Ugo Franzolin
(articolo
tratto dal "Secolo d'Italia")
Con
il congresso di Pescara nel Movimento Sociale Italiano del giugno 1965 vi
furono i cambiamenti al vertice. Vinse il congresso Arturo Michelini, uno dei
fondatori di quel partito, nato alla fine del 1946. In precedenza Michelini
aveva comprato il quotidiano fiancheggiantore del movimento, Il Secolo
d’Italia, proprietà del senatore Franz Turchi, suo fondatore.
Ne
era il direttore dal 1964, ma fu chiamato a dirigerlo politicamente Nino
Tripodi, un altro dei primissimi del Movimento Sociale, un intellettuale che si
era segnalato tra i giovani più promettenti negli anni che precedono la Seconda
guerra mondiale, avvocato e – negli anni Cinquanta – parlamentare. Chi però
confenzionava materialmente il giornale e aveva quindi stretto rapporto con la
redazione, era Cesare Pozzo, giornalista professionista, qualche anno dopo,
senatore.
Un
giorno Michelini mi chiama. Ero stato assunto al Secolo nel momento in cui il
"Meridiano d’Italia", dove lavoravo aveva sospeso le pubblicazioni
per trasferirsi da Milano a Roma. Mi avevano affidato la terza pagina che curai
fino al 1967 quando passai al quotidiano "La Luna". Una pagina
tradizionale, in più, una o due volte la settimana, una pagina monografica,
letteratura, pittura, musica e storia.
“Ho
qui un articolo di Evola”, mi dice Michelini, “scriverà per noi”. “Acquisto
eccellente“, gli dico io, “un pensatore affascinante”, butto lì. Guardo
Michelini, che mi guarda di sottecchi. “Sì, certo”, commenta, “ma io leggo i
gialli, quando vado a letto la sera, prima di dormire e ho la testa piena delle
cose che domattina dovrò fare, come, ad esempio, mandare i soldi alle
federazioni, soldi che non ho e devo rifilare qualche balla per tirare avanti”.
Di
Julius Evola, a dire la verità, non è che ne sapessi molto. Anzi, diffidavo un
po’, come tutti quelli per i quali il fascismo, come nel mio caso, è stato
prima un fatto di provincia – le realizzazioni – poi un fatto di guerra, “il
sangue contro l’oro”, un semplificare che farebbe trasalire un intellettuale.
Dopo
quattro o cinque articoli pubblicati come elzeviro, Evola mi invitò a casa sua
per un tè. Abitava a Corso Vittorio.
Molto
cordiale. Aveva un grave disturbo alla spina dorsale. Stava sempre seduto in
poltrona. Gli feci visita quattro o cinque volte. Non so se gli interessassi.
Forse sì, ma perché non avevo quasi niente delle sue letture, perché la mia
testa, dopo cinque anni di guerra sui fronti e un anno di galera a San Vittore,
era piena di immagini più che di speculazioni sottili.
Il
tè era squisito. Glielo dissi. “Aggiungo foglioline fresche di mentuccia”,
commentò, “e qualche fiore essiccato di ibisco, addolcendolo, come vede, con
zucchero di canna, un dono che amici mi mandano dalla Germania”.
Mentre
si sorseggiava il tè, Evola parlava, parlava. Aveva una voce bassa, musicale,
due occhi che indagavano. Mi sembrò di capire che avesse studi esoterici,
un’altra novità per me, sempre tenutomi lontano da esplorazioni misteriose, più
amante dell’uomo che fa, spacca tutto, magari, ma che non sta lì a interrogare
l’arcano, o vola in spazi siderali.
Un
giorno, mentre Evola mi parlava della Parigi delle avanguardie nella quale
viveva, qualcuno citofonò. Una signora che si occupava delle cose domestiche,
venne a dire che un ragazzo chiedeva di salutare. Disse il nome, Adriano.
Entrò
un giovane, poco più che ragazzo. Aveva una sua composta eleganza, un tratto
signorile. Alla presentazione seppi che era il figlio di Pino Romualdi, che mi
onorava della sua amicizia, conosciuto a Milano, vicesegretario del Partito
Fascista Repubbicano. Conversammo un po’, ma dopo una decina di minuti dovetti
salutare e andarmene perché mi aspettava il solito lavoro al giornale.
Prima
di congedarmi invitai Adriano a collaborare alla mia pagina. Volevo ospitare
dei giovani, voci nuove. Così fu, infatti. Diventammo amici. Io do del tu
volentieri ai ragazzi, mi è più facile parlargli, e se loro fanno altrettanto,
la cosa mi fa piacere. Eppure con Adriano ci fu sempre di mezzo il lei, anche
se il rapporto era cordiale, affettuoso da parte mia e, oso credere, anche da
parte sua.
Era
preparatissimo, riflessivo, sempre disposto a riesaminare un concetto, ma con
dei punti fermi, che erano ormai miei. Gli chiesi di Evola. “Sa”, gli dissi
introducendo il discorso, “mi sembra un mago”. Adriano si mise a ridere. “Un
po’ lo è”, rispose, “nel senso che sa sublimare intuizioni rare, al limite
della visione onirica, il percorso misterioso della vita”.
Ricordo
con rimpianto quel tempo. Evola è morto, Adriano, ancora giovanissimo, ci ha
lasciati in situazioni tragiche, sul ciglio di una strada, dopo un incidente.
Perché rimpianto? Ma perché allora, anche se da posizioni intellettuali
diverse, per un proprio carattere, una propria storia personale era bello
vivere, essere in attesa di un evento. Utopisti? Forse, ma la nostra utopia non
era la carta di credito, o il telefonino, o la curva sud. Eravamo in attesa,
ecco, ripeto. In attesa? Sì, certo, che i sentimenti tornassero.
Un
giorno Evola mi disse: “Sa, la strada è lunga, interminabile”...