di Marcello Veneziani
Natale in solitudine e intorno al collo una «catena» di capelli intrecciata da sua madre, unico legame con la famiglia lontana. Così Natale «è riuscito ad essere un giorno di festa», scrive Friedrich Nietzsche ai suoi famigliari raccontando il suo Natale solitario a Nizza, nel 1885.
Nell’aprire il pacco dei famigliari, l’impazienza di scartare i doni e la sua vista precaria gli giocano un brutto scherzo: sgusciano via i soldi che gli ha mandato sua madre. «Perdonate il vostro animale cieco», scrive a sua sorella, e poi spera che i soldi li abbia raccolti «una povera vecchietta e che abbia così trovato per strada il suo “Gesù bambino”».
Voi pensate al Superuomo ma trovate nelle sue lettere la grandezza di un pensiero unita alla dolcezza di un animo delicato, che si preoccupa di comprare un anellino per donarlo alla piccola Adrienne, una bambina a lui molto affezionata a Sils-Maria.
È umano troppo umano, Nietzsche, nel suo Epistolario 1885-1889, uscito ora da Adelphi (pagg. 1358, euro 100). Tenero quando scrive a sua madre e chiede «cassettine di viveri», prosciutti salmonati, di cui vive per settimane intere, salami non secchi, fette biscottate e calze, vestiti, firmandosi «la tua vecchia creatura». Tenero quando con i suoi risparmi fa ricoprire con una gran lastra di marmo la tomba di suo padre, pastore; là, dice, verrà sepolta anche sua madre. Tenero quando sbaglia treno e anziché andare a Torino si ritrova a Genova e soffre non tanto per il tempo perduto, che anzi è l’occasione per ritrovare il fascino di Genova («Me ne sono andato in giro come un’ombra in compagnia solo di ricordi»), ma per il biglietto del treno che ha dovuto ricomprare.
Lui, modesto pensionato-baby dell’università di Basilea, con cronici problemi di salute che attribuisce al clima. La sua vita, e in parte il suo pensiero, sono meteoropatici e partoriscono una geofilosofia legata al sole e alla luce, amante del sud. Qui definisce il suo Zarathustra, il libro più meridionale e più orientale che esista. «La compatisco nel suo nord», scrive al danese Brandes, «a Pietroburgo sarei un nichilista, qui a Nizza, credo nel sole, come ci crede una pianta... Dio fa risplendere il sole più bello su di noi fannulloni, filosofi e grecs».
La filosofia s’intreccia ai luoghi e alla salute, che dipende dal clima. Una pianta per Nietzsche esprime il genius loci. In questa luce immagino l’emozione di Nietzsche quando riceve da Atene una foglia d’alloro e una di fico dal luogo in cui c’era l’accademia di Platone, come scrive in una lettera.
Di Nietzsche che passeggia nel novembre del 1885 sui Lungarni in Firenze, c’è la testimonianza precoce di un bambino. È Giovanni Papini. Ricorda in Passato remoto che era a passeggio con sua madre e «un uomo che portava lenti molto grosse e due baffi enormi: la faccia era larga e carnosa ma grave e un po’ triste» accarezzò i suoi riccioli biondi. Lo riconobbe poi da adulto in una fotografia.
Era Nietzsche e l’epistolario conferma che in quei giorni era proprio a Firenze. Ricordando quella carezza, Papini scrisse: «Il futuro scrittore della Storia di Cristo fu sfiorato un istante, in un chiaro tramonto d’autunno, dalla mano che scrisse l’Anticristo».
È struggente l’epistolario di questo homeless d’eccezione, pensatore ambulante, filosofo randagio nella sua piccola povertà, prima che sopraggiunga la notte della pazzia. La sua modesta contabilità per sopravvivere, le sue stanze piccole e fredde, la stufa che porta con sé, il suo amore del sole e la sua fotofobia. E la sua abissale solitudine: «la mia disgrazia è che non ho nessuno... Quasi tutti i miei rapporti umani sono nati da attacchi di solitudine... È assolutamente orribile essere soli fino a questo punto... una vita da cani». Ma la sua è anche solitudine d’autore, nell’assoluta incomprensione del suo tempo.«I miei libri passati senza quasi lasciar traccia».
Lo vedi solo, al freddo, che scrive disperatamente, stampa i libri a sue spese e vendono poche decine di copie. Poi si fa il suo tè con le fette biscottate, raziona i suoi cibi, goloso di cioccolata e gelati... Vorresti fargli sentire il fiato postumo dei suoi amici e lettori. Vorresti rispondere alle sue lettere e raccontargli la gloria di dopo e il riconoscimento della sua grandezza. È euforico Nietzsche quando sente che George Brandes in Danimarca fa conferenze su di lui con 300 ascoltatori. Lo ripete a tutti i destinatari delle sue lettere. E poi esprime gratitudine a Brandes per avergli ridato il gusto di esistere, anzi per avergli dimostrato che «sto vivendo». E gli procura una sua fotografia, che Brandes gli ha richiesto per farlo conoscere ai suoi estimatori remoti.
Nietzsche condivide la definizione del suo pensiero che ne dà Brandes: radicalismo aristocratico.
In una lettera a Koselitz, scrive: «Nobile è l’aspetto frivolo mantenuto per mascherare una stoica durezza e autocostrizione. Nobile è muoversi lentamente, sotto tutti i riguardi, anche la lentezza dello sguardo. Nobile è eludere i piccoli onori, e la sfiducia in chi loda con facilità. Nobile è il dubbio sulla possibilità di aprire il proprio cuore; la solitudine in quanto scelta e non data (...) che si vive quasi sempre travestiti, si viaggia per così dire in incognito, per risparmiare molti imbarazzi; che si è capaci di otium...». «Temo di essere troppo musicista per non essere romantico. Senza musica per me la vita sarebbe un errore».
Discutevamo animatamente una sera con Sossio Giametta, il suo principale traduttore, se Nietzsche fosse un filosofo, come io sostenevo, o un moralista, come sosteneva lui. Risponde l’interessato tramite una lettera a Brandes: «Se sono filosofo? Ma che importa!...».
Poi le sue auto-esaltazioni, un caso di fondata mitomania, il credersi destinato a lasciare un segno nel mondo, ripeterselo in solitudine, ma esserlo poi veramente.
Follia e lucidità si intrecciano nelle ultime lettere, fino agli estremi biglietti della follìa, prima di impazzire a Torino. Alle soglie del tragico inverno del 1889 scrive «Sono molto contento di avere l’inverno libero». Libero da impazzire.