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lunedì 5 dicembre 2011

Il governo dei banchieri ruba ai poveri per dare ai ricchi.



Margaret Thatcher intervenendo al congresso del Partito Conservatore del 1983 ammonì: “Il denaro non è un bene pubblico!”. La sua affermazione diventò una bandiera ma era molto più di uno slogan, era l’espressione di una filosofia.
Le tasse sono uno stato di eccezione, costituiscono una patologia, anche se necessaria e non si fondano sul diritto naturale. Tutte le dottrine giuridiche che hanno spiegato il contrattualismo e l’origine dello Stato moderno sono consapevoli che la tassazione è, pur sempre, una limitazione della libertà personale. Al riguardo il filosofo John Locke lanciò un monito ben preciso: “È vero che il governo non può sostenersi senza gravi spese, ed è opportuno che chiunque partecipi… per il suo mantenimento. Ma ciò deve sempre aver luogo col suo consenso, cioè a dire col consenso della maggioranza, dato o direttamente dai membri della società… perché se uno pretende il potere di imporre e levare tasse sul popolo di sua propria autorità e senza il consenso del popolo, viola con ciò la fondamentale legge della proprietà, e sovverte il fine del governo”.
Gli uomini, esseri prepolitici, hanno allo stato naturale la proprietà e il diritto alla stessa, lo Stato nasce per contratto al fine di tutelare la coesistenza e l’ordine sociale. Ma gli individui, secondo il grande economista Vilfredo Pareto, rispondono a una pluralità di interessi che diventano “spinte ad operare” con “modalità logiche” e questo agire economico spesso genera il bene comune. Una fiscalità eccessiva ostacolerebbe queste dinamiche.
Se una parte importante speculazione filosofica ha dimostrato l’eccezionalità – sia pur necessaria al funzionamento dello Stato – del pagamento delle tasse, importanti scuole economiche hanno dimostrato che accanto all’ingiustizia c’è quasi sempre anche l’inutilità di una tassazione eccessiva.
Milton Friedmann, Nobel dell’economia nel 1976, nel famoso saggio Liberi di scegliere, diventato un best-seller mondiale, nota come la tendenza a tassare i redditi più elevati è un’enunciazione ideologica astratta che finisce per trasformarsi in un danno generalizzato perché limita coloro che consumano di più creando occupazione e circolazione del danaro. Ronald Reagan, che si ispirò alle dottrine di Friedmann, ridusse l’aliquota massima dal 70 per cento al 28 per cento, fu un successo perché le entrate del fisco, nei primi anni Ottanta, aumentarono da 618 miliardi di dollari a 1.016 miliardi di dollari.
Nel 1974 un giovane economista americano della South California, Arthur Betz Laffer, mise a punto un’originale teoria che dimostrò come riducendo le tasse le entrate fiscali non diminuiscono, anzi aumentano. La sua affermazione fu fondata su quella che passerà alla storia dell’economia come la “curva di Laffer”, una curva a campana che mette in relazione l’aliquota di imposta (asse delle ascisse) con le entrate fiscali (asse delle ordinate) dimostrando i vantaggi che possono venire allo sviluppo dell’economia dalla diminuzione delle imposte dirette. Le idee rivoluzionarie di Laffer trovarono un entusiasta sostenitore in Robert Bartley, responsabile delle pagine editoriali del Wall Street Journal, uno dei più noti giornalisti economici americani che vincerà il premio Pulitzer. Con i suoi articoli la teoria fiscale di Laffer entrò di prepotenza nel dibattito politico americano ispirando l’ascesa alla Casa Bianca di Ronald Reagan
L’approccio filosofico liberale, oltre a dibattere sull’opportunità dell’imposizione, valuta attentamente la natura della tassa, per cui occorre distinguere fra quei tributi che colpiscono il lavoro, l’impegno, la capacità di produrre ricchezza e quelli che colpiscono i consumi. Su questo punto non c’è dubbio che i primi siano più iniqui perché colpiscono l’uomo in una delle sue più alte manifestazioni: il lavoro.
Quando il re d’Inghilterra chiese una tassa straordinaria per finanziare la guerra gli fu risposto no “taxation without rappresentation”, “nessuna tassa senza rappresentanza” (frase citata anche da Silvio Berlusconi): non è possibile imporre tasse senza un consesso in cui chi le subisce non possa dibattere sulla loro opportunità. E scoppiò la rivoluzione.

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