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lunedì 20 febbraio 2012

Decolonizzare l’immaginario dall’utilitarismo.



“Nessun mondo – scrive Philippe Muray – è mai stato più detestabile di quello attuale”. Ma qual è dunque questo mondo? Dopo l’affondamento del sistema sovietico, si è passati da un mondo diviso in due blocchi ad un mondo dominato da una sola potenza, che tenta d’imporre la sua legge al pianeta intero. Virtualmente, questo mondo non sarebbe altro che un villaggio globale, dove il progresso economico, dal quale si suppone tutti possano trarre giovamento, accrescerebbe l’ineluttabile evoluzione verso un modello politico, la democrazia liberale rappresentativa, della quale gli Stati Uniti costituirebbero il modello più completo. Alla fine, il mondo diverrebbe un vasto mercato popolato da semplici consumatori, sottomessi di volta in volta all’ordine marciante.

Il capitalismo si è deterritorializzato. I raggruppamenti industriali infine hanno dato luogo alla formazione di società transnazionali, i cui bilanci superano di gran lunga quelli dei singoli paesi. Allo stesso tempo, le nazioni sono state invitate ad abolire le loro barriere doganali, ad aprire le loro frontiere alle persone ed ai capitali, a favorire con ogni mezzo la “libera circolazione” dei prodotti e dei beni. Questo è il senso primario di una globalizzazione che supporta la volatilità dei mercati, le delocalizzazioni, la ricerca permanente di una maggiore produttività, la reificazione generalizzata dei rapporti sociali.

Questo sistema è fondato sulla trasformazione di tutte le attività viventi in mercantili. Il mercato non vale se non attraverso il denaro. Il denaro è l’equivalente generale che cela la natura reale degli scambi ai quali è preposto. Nel mondo del mercato, la legge suprema è la logica del profitto, legittimato da un’antropologia facente dell’individuo un essere avente come obiettivo permanente il suo migliore interesse. La sottomissione progressiva di tutti gli aspetti della vita umana alle esigenze di questa logica destruttura il legame sociale. Essa genera una società puramente commerciale dove, come ha già affermato Pierre Leroux, gli “uomini non associati non sono soltanto estranei tra loro, ma necessariamente rivali e nemici”. Gli altri uomini dunque non sono percepiti se non attraverso il loro potere d’acquisto e la loro capacità di generare profitto, attraverso la loro attitudine a produrre a lavorare e consumare. I media uniformano i desideri e le pulsioni, al prezzo di una radicale desimbolizzazione degli immaginari, produttori di una falsa coscienza, di una coscienza alienata.

È esattamente questo il mondo in cui viviamo. Un mondo senza esteriori, che ha abolito le distanze e il tempo, dove il capitalismo finanziario non è connesso all’economia reale (la maggioranza degli scambi di capitale non corrispondono più agli scambi di prodotti), dove l’economia reale si sviluppa senza considerazione dei limiti, dove le passioni si riducono agli interessi, dove il valore è ribassato sul prezzo, dove i bambini stessi divengono dei beni (e degli utili) di consumo durevole, dove la politica è ridotta alla porzione congrua, dove i detentori di potere non sono più eletti e dove coloro che sono eletti sono impotenti. Un simile mondo non minaccia soltanto la vita interiore, le identità collettive, la diversità dei viventi. Esso minaccia l’umanità propria dell’uomo.

Per contrapporsi alla miseria affettiva ed agli stress materiali che ne risultano, la Forma-Capitale usa strategie differenti. Da un lato, crea senza interruzione nuovi bisogni, moltiplica le distrazioni e i divertimenti, propaga l’idea che non esista felicità se non in un consumo il cui orizzonte è continuamente riposto più lontano. Dall’altro lato, il suo pretesto di lottare contro il “populismo”, il ” comunitarismo “, il ” terrorismo “, rinforza le procedure di controllo e di sorveglianza. Si restringono le libertà con il pretesto della sicurezza. Si instaura la “democrazia delle bocche cucite” (Paul Thibaud). Per smorzare la portata dei movimenti sociali, per distogliere le genti dal porsi domande, per disarmare le nuove “classi pericolose” e rendere inoperante la loro velleità di rivolta, crea dei nemici onnipresenti, demonizzabili a piacimento, strumentalizza i conflitti culturali e gli urti tra comunità. Come sempre, si divide per comandare. L’obiettivo è quello di instaurare tutto ciò che crea caos per continuare a regnare senza alcuna minaccia.

Dinnanzi ad un simile spettacolo, non si può che avere ovviamente simpatia per un movimento “altromondista”, il quale afferma perentoriamente che “il mondo non è un mercato” e che “un altro mondo è possibile”. Ma questa simpatia non può essere che critica. Non è soltanto il fatto di non avere alternative chiare da proporre che può essere rimproverato al movimento “no global” – non è necessario dover definire ciò che si vuole per sapere ciò che si rifiuta -, né di essere un conglomerato troppo eterogeneo dove si incontrano protestatari emozionali, autentici libertari, “rivoluzionari” d’abitudine e social-democatici “esigenti”. E’ piuttosto l’attitudine ad anteporre l’indignazione alla riflessione. E di non andare fino al fondo delle cose.

Non è in effetti sufficiente denunciare le disuguaglianze nel nome della “giustizia” e della “dignità”, o di appellarsi a soluzioni “umane” di contro alla disumanità dell’ordine finanziario. Non è sufficiente parlare di “tolleranza” per riconoscere pienamente la diversità culturale. Non è sufficiente opporre la razionalità etica alla razionalità del denaro. Non è sufficiente, infine, dire “no alla guerra!” per disegnare, di contro all’unilateralismo americano, i contorni di un nuovo Nomos della terra per un nuovo ordine multipolare. Il movimeno “no global” non ha visibilmente idee precise sulla natura dell’uomo e sull’essenza del politico. Gli manca un’antropologia che gli permetterebbe di contestare la globalizzazione in nome dei popoli, e non delle “moltitudini” (Antonio Negri), in nome delle libertà, e non dei “diritti dell’uomo”. Si ostina a rimanere, per ciò che concerne la giustizia sociale, nella polarità della morale e dell’economia, che è la medesima alla quale dichiara di opporsi; l’ “altromondismo” rischia di disattendere la sua vocazione e di essere nient’altro che una forma di “movimento” in mezzo a tante altre.

Militare per un “altro mondo” implica la rottura con una matrice ideologica che ha allo stesso modo condotto all’internazionalismo liberale quanto allo “statalismo progressista”. Come scrive Jean-Claude Michéa, “l’idea di una società decente, o socialista, non può riporsi sul progetto di un’”altra” economia o di un’”altra” mondializzazione, progetti che non possono che condurre, in fin dei conti, ad un altro capitalismo [...] Essa è riposta, al contrario, su un diverso rapporto degli uomini nei confronti dell’economia stessa”. Dunque non si tratta soltanto di correggere le “ingiustizie” di un sistema, o rimanere ad un approccio strutturale dei giochi. Si tratta di finirla con la dittatura dell’economia, il feticismo del mercato ed il primato dei valori mercantili. Si tratta di decolonizzare l’immaginario. Di adoperarsi per l’avvento di un altro mondo, che non sia soltanto al di là delle cose, una visione trascendente o utopica, ma un nuovo mondo comune. Prospettiva rivoluzionaria? Non sarà mai tanto rivoluzionaria quanto la Forma-Capitale, che in questo mondo, ha già distrutto tutto.

di Alain de Benoist.

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