Era il giorno del primo anniversario della strage di Acca Larentia, 7 gennaio 1979, durante una trasmissione di Radio Città Futura, simbolo della sinistra extraparlamentare, era in corso un dibattito. Il conduttore fece una battuta a doppio senso sulla morte di Francesco Ciavatta, giocando sul significato del suo cognome. I Nuclei Armati Rivoluzionari, gruppo extraparlamentare di destra, decisero di punire e colpire con fermezza la radio. Due degli assalitori entrarono nella sala di trasmissione, mentre era in onda un programma femminista. Uno puntava il mitra contro le conduttrici, l’altro, versava per terra e sugli impianti, il contenuto di una tanica di benzina.
Mentre le fiamme iniziarono a divampare, gli assalitori, prima di fuggire, esplosero decine di colpi. Cinque donne caddero come birilli. Carmela Incafù, ferita alla gamba sinistra, Annunziata Miolli, colpita alla gambe con ustioni ad una mano, Rosetta Padula, duplice frattura al ginocchio e al perone, Anna Attura, ferita al bacino, al ventre e alle gambe, e Gabriella Pignone, ferita al femore. Alle dieci di sera, poche ore dopo il raid, arrivò la telefonata di rivendicazione alla redazione de “Il Tempo”. Il giorno dopo, numerosi cortei di militanti della sinistra filarono per la Capitale. Obiettivo, distruggere e assaltare tutte le sedi del Movimento Sociale Italiano. Intanto la Questura di Roma aveva vietato qualsiasi tipo di manifestazione per i militanti missini.
Ma la commemorazione per i tre camerati, caduti sul selciato l’anno prima, e la protesta nei confronti dello Stato, colpevole di non aver ancora individuato i responsabili dell’eccidio, doveva essere svolta a tutti i costi. Tutte le organizzazioni giovanili del Movimento Sociale Italiano scesero in strada, in diversi punti della città. Circa cento dimostranti si radunarono a Centocelle, un quartiere popolare caratterizzato da enormi palazzi cupi e tristi, dove la sinistra più estrema aveva il controllo assoluto. Fu assaltata la sezione della Democrazia Cristiana, simbolo di tante angherie e ingiustizie subite, e numerose macchine rovesciate e messe di traverso sulla strada. Sul posto giunsero subito le forze dell’ordine e una macchina civetta della Polizia, una Fiat 128 di colore bianca.
Nella confusione, i militanti cercarono di fuggire. Alberto Giaquinto e Massimo Morsello si attardarono. Improvvisamente uno dei due poliziotti in borghese estrasse la pistola, piegandosi sulle ginocchia e puntando con calma ad altezza uomo. Alberto Giaquinto, 17 anni, cadde colpito da un solo proiettile dritto alla testa, precisamente alla nuca. L’amico, Massimo Morsello, cercò di soccorrerlo prendendogli la testa fra le mani, ma fu evidente che la situazione era gravissima. Solo mezz’ora dopo, il corpo di Alberto Giaquinto fu caricato in ambulanza e trasportato all’ospedale San Giovanni. Operato d’urgenza e in stato di coma profondo, esattamente alle ore 20:30, due ore e 18 minuti dopo il ferimento, il suo cuore smise di battere.
Nello stesso istante in cui Alberto moriva, la sua casa veniva oltraggiata da una perquisizione senza un ordine scritto, cercando non si sa bene cosa.
Nello stesso istante in cui Alberto moriva, la sua casa veniva oltraggiata da una perquisizione senza un ordine scritto, cercando non si sa bene cosa.
Aveva 17 anni...
Alberto Giaquinto era nato a Roma il 5 ottobre 1962, frequentava il terzo anno del XIV liceo scientifico Peano.
Era un ragazzo biondo, riccioluto con un sorriso malizioso. Il padre, Teodoro, era il titolare di una avviata farmacia e di un laboratorio di analisi a Ostia. Il fratello maggiore, Ortensio, 23 anni, era quasi alla laurea in Farmacia. Vivevano in una villetta in via Groenlandia nel quartiere Eur. Frequentava il gruppo che si raccoglieva intorno al “Bar del fungo”, ed era amico inseparabile di Franco Anselmi. Una famiglia benestante. Il primo morto, tra tutti quelli caduti a Roma, ad avere un’estrazione di classe diversa dagli altri. Malgrado la sua moto Honda, scelse come tutti, di raggiungere Centocelle in autobus. La prima versione ufficiale, della Questura, fu di legittima difesa da parte del poliziotto.
Secondo gli inquirenti, Alberto Giaquinto era armato e nelle tasche conservava ancora alcuni proiettili per la Walter P38. Mentre fuggiva si era girato puntando l’arma in direzione delle forze dell’ordine. Sia i genitori che i camerati contestarono fermamente la versione della Polizia. Infatti, non fu mai trovata nessuna arma e la prova del guanto di paraffina, naturalmente, diede risultato negativo. L’autopsia fu eseguita dal Professore Aldo Rocchetti presso l’istituto di medicina legale dell’Università di Roma con la presenza dei periti di parte.
Il proiettile era entrato dalla regione occipitale per poi uscire da quella frontale a distanza ravvicinata. Veniva così a crollare definitivamente la versione della Polizia. Alberto Giaquinto fu ucciso mentre scappava e non mentre aggrediva. Molti militanti, tra cui anche Massimo Morsello, si presentarono in Procura per raccontare la versione dei fatti. Alcuni iniziarono il colloquio con i giudici da testimoni e finirono per essere processati per devastazione e incendio doloso. Il giorno dopo il funerale di Alberto Giaquinto, un suo compagno di classe, Mauro Culla, si suicidò nel box di casa. Il corpo, ritrovato dalla madre, era a terra, legato con una corda a uno scaffale del ripostiglio.
Era morto, non per soffocamento, ma per l’impatto, sbattendo violentemente la testa su uno scatolone di bottiglie. Mauro Culla non aveva mai manifestato strani propositi, ma da giorni, i familiari, avevano notato lo sconforto in cui era caduto dopo la notizia della tragica fine di Alberto Giaquinto. Un’altro aspetto rilevante in quei giorni, fu la prima ammissione pubblica di un opinionista di sinistra, Eugenio Scalfari de “La Repubblica”, ad ammettere che nei confronti dei militanti missini furono usati due pesi e due misure. Intanto, il segretario del Movimento Sociale Italiano, Giorgio Almirante, il 17 gennaio 1979, presentò un’interrogazione alla Camera dei Deputati sul caso Giaquinto. Una notizia che i giornali inseguivano da giorni.
Il nome dell’agente di pubblica sicurezza addetto alla Digos, Alessio Speranza. Era chiaro che le notizie fornite dalla Questura ai giornali sulla morte del giovane Alberto Giaquinto erano, incomplete e lacunose degli elementi necessari a ricostruire la meccanica dell’omicidio. Come poteva il segretario, Giorgio Almirante, conoscere il nome dell’agente inquisito? Il padre di Alberto Giaquinto, Teodoro, svolse per conto suo le indagini che le forze dell’ordine non potevano o non volevano portare a termine. Assunse un’agenzia di investigazioni private. Furono i suoi detective a ricostruire l’identikit dell’agente attraverso le testimonianze dei camerati, cittadini e inquilini di Piazza dei Mirti a identificare Aldo Speranza.
L’esito della sua inchiesta fu portato a conoscenza del segretario Giorgio Almirante, il quale escogitò la via dell’interrogazione parlamentare, atto pubblico e insindacabile. La battaglia di Teodoro Giaquinto ottenne due risultati fondamentali. Il primo, fu un indennizzo da parte dello Stato, pagato alla famiglia nel 2002, che rappresentava una implicita ammissione di responsabilità, malgrado, le tante, contraddittorie e menzogne versioni fornite dalla Questura. Il secondo, invece, fu sul piano processuale.
Il 17 aprile 1988, dopo quattro processi, la Corte di Cassazione emise la sentenza definitiva. Affermava che a sparare e a uccidere Alberto Giaquinto fu l’agente di pubblica sicurezza, Aldo Speranza. Cosa strana che, il poliziotto non fu mai condannato per omicidio. Addirittura fu rispolverato un reato molto lieve: “eccesso colposo di legittima difesa”. Fu condannato soltanto a sei mesi di carcere.
Alberto Giaquinto: PRESENTE!
La morte di Alberto Giaquinto ispirò ad un altro cantautore di destra, Michele Di Fiò, una canzone dal titolo "Italia".
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