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sabato 14 gennaio 2012

Perché Unicredit si rilancerà e perché all’Italia conviene tifare per lei.



Unicredit ha dovuto ricapitalizzare. Cosa si intende con questa espressione? Ricapitalizzare significa aumentare il patrimonio netto attraverso apporti di denaro che, nel caso specifico dell’istituto di Piazza Cordusio, dovrà essere pari a 7,5 miliardi. Nelle società per azioni, ed a maggior ragione in questo caso, la ricapitalizzazione può avvenire con l’emissione di azioni con un diritto di opzione prevista per chi è già in possesso di titoli Unicredit. Infatti, dal 4 gennaio è partita la vendita delle azioni della banca che, nelle cinque sedute d’inizio anno, hanno perso il 38%, passando dai 6,42 euro del 30 dicembre ai 3,98 euro di lunedì scorso. Per quanto la discesa possa sembrare brusca, non si tratta di un crollo improvviso, ma di una situazione comunque prevista. L’operazione di ricapitalizzazione di Unicredit ha un importo record, mai nessuna banca si era spinta così in là. In ordine cronologico è la ricapitalizzazione più alta degli ultimi 15 anni, dopo la scalata a Telecom Italia di 13 anni fa e l’operazione Enel. Ma se le grandi capitalizzazioni precedenti erano inquadrate in un discorso di crescita, questa di Unicredit servirà a potenziare l’equilibrio finanziario, cioè si chiedono soldi al mercato perché c’è scarsità di liquidità. Dunque, proprio l’importo monstre della manovra ha avuto bisogno di un forte “sconto”, in parole povere il prezzo di emissione delle nuove azioni è stato di 1,943 euro. I vecchi azionisti di Unicredit hanno dovuto scegliere se aderire all’aumento o meno: nel primo caso hanno sottoscritto due nuove azioni per ogni vecchio titolo posseduto, per cui un investitore che aveva in mano un’azione Unicredit che per la Borsa valeva 6,33 euro, dopo l’aumento di capitale se ne ritroverà due in più pagati a 1,943 l’uno, quindi con un portafoglio di 10,2 euro, vale a dire con un prezzo medio per ogni azione di 3,4 euro, un valore ancora accettabile nonostante i fortissimi ribassi e nonostante la ricapitalizzazione.
 Tutto questo semplicemente ci restituisce l’idea di una situazioine in cui i movimenti, seppur bruschi al ribasso, non possono essere considerati come segnali di sfiducia del mercato, ma semplicemente tecnicismi indotti dalla manovra stessa.
 L’unica certezza che abbiamo in questo momento è che quello di Unicredit è il primo grande test che tra non molto, anche su richiesta dell’European Banking Authority (Eba), dovranno sostenere anche le altre banche italiane ed europee per rafforzare il patrimonio. Il problema tuttavia è che i capitali scarseggiano e nessuno ci dà la sicurezza che da qui in avanti possano coprire tutte le richieste di tutte le banche. Per questo motivo, andare per primi sul mercato e anticipare questa operazione potrebbe rivelarsi una scelta vantaggiosa, e anticipando la concorrenza potrebbe significare pagare meno di chi andrà sul mercato nei prossimi mesi, quando tutti si affolleranno e chiederanno capitali freschi. Se tutto andrà per il meglio, alla fine della capitalizzazione, intorno all’inizio del prossimo mese di febbraio, la banca dell’ad Federico Ghizzoni potrebbe ritrovarsi leader in Europa per capitali e liquidità, consentendo così alle filiali sparse sul territorio di poter aumentare il credito alle imprese e alle famiglie, soprattutto in questo ultimo periodo storico in cui in Italia abbiamo la necessità di cominciare a crescere di nuovo.
Sergio Marchionne
Non ci vuole un molto per capire che qualcosa, nel mondo del lavoro e soprattutto della contrattazione sindacale, sta cambiando. La recente vicenda della Fiat targata Marchionne lascerà, molto probabilmente, un segno evidente ed indelebile da qui ai prossimi anni.
La strategia del’ad dal maglione blu è stata premiata dalla Borsa, con qualche difficoltà nella fase di avvio (ma solo per l’impossibilità del paragone con precedenti andamenti del titolo), e ha radicalmente trasformato l’assetto novecentesco della Fiat sposando un modello di crescita fondato sull’aggregazione di attività non omogenee.
Ma non è su questo che vogliamo interrogarci, piuttosto sulla definizione dei criteri della rappresentanza sindacale, a causa della quale si sprecano analisi ed epiteti nei confronti di Marchionne: tanto a Mirafiori quanto a Pomigliano la “soluzione” non è solo nuova, ma ha trovato una soluzione dotata di un valido fondamento giuridico (l’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori del 1970) per estromettere la FIOM dalla gestione degli accordi aziendali. La norma della legge n.300 fu manipolata da un quesito referendario (presentato e sostenuto nel 1995 dalla sinistra sindacale tra cui ampi settori della stessa FIOM) tanto da riconoscere il diritto di costituire rappresentanze sindacali aziendali (RSA) soltanto alle organizzazioni firmatarie del contratto che si applica nella azienda. E’ vero. Intese contrattuali precedenti e successive hanno istituito le RSU, ma il destino ha voluto che toccasse proprio alla FIOM, sempre pronta a rivendicare, insieme alla CGIL, norme di legge al posto di disposizioni contrattuali ( lo abbiamo potuto notare recentemente durante il dibattito sulla conciliazione e l ‘arbitrato) incontrare sulla sua strada una impresa che le ha sbattuto in faccia proprio una norma di legge, per di più scritta nel sancta sanctorum del diritto del lavoro.
Si può essere, anche da destra, contrari a questo modo, insolito, di condurre una trattativa. Tuttavia va apprezzato il coraggio di affrontare la forza la politica dei veti incrociati dei sindacati, come la Fiom, arroccata su posizioni ormai incomprensibili alla maggioranza delle parti in causa. Una sfida soprattutto per l’attuale governo che ha sempre cercato di girare al largo degli argomenti politicamente sensibili (si pensi alla scelta di archiviare qualsiasi ipotesi di revisione dell’articolo 18 dello Statuto o di non prendere di petto il tema delle pensioni). Ha avuto in cambio una guerra senza quartiere da parte della CGIL. Non sarebbe il caso di condurla fino in fondo?

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