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sabato 21 gennaio 2012

Un punto di vista interessante dall'Università di Washington... (un po' pessimistico)



L’idea che i tedeschi e i nordeuropei in generale debbano “diventare generosi” e aiutarci prende sempre più piede fra coloro a cui piacerebbe tanto essere aiutati. Ho argomentato precedentemente che, siccome più o meno tutti i paesi occidentali si trovano di fronte agli stessi problemi strutturali, l’aiuto che può venirci da chi sta solo quantitativamente un po’ meglio di noi non può che essere molto parziale ed è probabilmente in via di esaurimento.
Sarebbe il caso di far le somme e rendersi conto che fra credito della BuBa (la Banca centrale tedesca) al sistema bancario del Sud Europa via Bce e contributi allo Efsf, la Germania si è esposta per quasi un trillione di euro verso i propri partners bisognosi di “aiuto”, una cifra che, quando si controlla per la relativa dimensione delle due economie, è sostanzialmente maggiore di quanto Fed e Tesoro abbiano immesso nell’economia privata americana dal 2008 ad oggi. Nondimeno, consideriamo per un attimo le fondamenta logiche e fattuali della teoria che chiamerò dell’egoismo tedesco.
(I) Moneta unica implica cambio unico ed il cambio dell’euro nei confronti delle altre monete è troppo alto, il che rende i prodotti dei paesi mediterranei non competitivi perché troppo costosi. Questi paesi sono scarsamente produttivi ed essendo anche esposti ad una stretta fiscale non riescono né a generare domanda interna né ad esportare.

(II) La Germania e gli altri paesi del Nord si trovano in una situazione opposta. Avendo fatto i propri compiti per casa, questi paesi (e gli altri del Nord Europa che non fanno parte della zona euro, Svezia per prima) sono molto più produttivi del resto e riescono tranquillamente ad esportare anche con un euro relativamente forte. Essi possono anche adottare politiche fiscali di spesa ed indebitamento ulteriore.

(III) I paesi del Sud sono “debitori” ed i paesi del Nord sono “creditori”. Ma chi deve non è in grado di ripagare perché ha poca capacità di export e quindi di crescita del reddito nazionale. Da qui la situazione di crisi la cui unica uscita altro non può essere che una qualche forma di svalutazione ed inflazione generalizzata all’intera area euro, attraverso un’espansione massiccia, da parte della Bce, della quantità di moneta in circolazione ed una politica di aggressiva spesa pubblica ed ulteriore indebitamento, da parte dei paesi “creditori”, Germania in testa.
Questa spiegazione delle origini della crisi e delle sue possibili soluzioni è così banalmente falsa da generare perplessità il fatto che si perda tempo a discuterne. Tanto per rimanere nel semplice: l’economia del Regno Unito non versa in condizioni molto migliori di quelle della media della zona euro, eppure non mi risulta quel paese abbia adottato l’euro o manifestato l’intenzione di farlo. Per non parlare poi dell’Islanda o, per metterci il cuore in pace una volta per tutte, degli Stati Uniti il cui debito nazionale venne declassificato, cinque mesi fa e proprio da S&P, allo stesso livello oggi attribuito a quello francese ed il cui sistema economico e bancario è in condizioni forse migliori di quello italiano ma paragonabili comunque alla media franco-tedesca.
L’idea che il debito pubblico italiano o spagnolo (per non parlare dell’irlandese o del portoghese) possa essere spiegato con il deficit commerciale di questi paesi verso la Germania è ugualmente risibile. Il debito italiano era in essere già prima dell’introduzione dell’euro e la bilancia commerciale con la Germania è andata in rosso solo cinque o sei anni fa. Non solo, se si guardano i numeri si nota che l’Italia esporta in Germania circa il 75% del valore in euro di quanto quest’ultima esporti da noi. Siccome la popolazione tedesca è esattamente i 4/3 di quella italiana ed il loro reddito pro-capite è sostanzialmente maggiore del nostro, le conclusioni sono ovvie. Argomenti simili si applicano a praticamente tutti i paesi coinvolti con l’unica eccezione della Grecia. Fra i paesi europei, poi, il paese con maggior deficit commerciale è il Regno Unito, del cui debito (al momento) nessuno sembra preoccuparsi.
Potrei continuare con i dati, ma lo spazio scarseggia. Consideriamo, dunque, quali potrebbero essere le conseguenze di una crescita della spesa pubblica tedesca. Ignoriamo pure il fatto che un paese con un rapporto debito/Pil che viaggia verso il 90% non ha poi questa grande capacità d’indebitarsi senza correre rischi. Facciamo finta che i tassi passivi rimangano inalterati e che l’accresciuto indebitamento tedesco non dreni risorse che altrimenti sarebbero disponibili per finanziare o ben il debito pubblico o ben gli investimenti degli altri paesi dell’area.
Facciamo finta, appunto, visto che al momento la BuBa è l’unico canale di finanziamento per tutte le banche italiane, spagnole e portoghesi. Per quale ragione un’espansione della spesa pubblica tedesca dovrebbe ridurre il debito pubblico italiano, per dire, o far crescere il prodotto interno lordo, quindi il gettito fiscale del nostro paese? Questo si realizzerebbe solo se la spesa pubblica addizionale si trasformasse in domanda per beni le imprese italiane non riescono a vendere; perché, se Berlino decide di costruire qualche nuovo ponte, dubito assai lo commissioni alla Cmc. Perché mai una crescita della domanda tedesca dovrebbe rendere competitive imprese che ora non lo sono o far rimanere in Italia quelle che, come nei recenti casi di Omsa e Alcoa o dell’amico mio piccolo imprenditore veneto, han deciso di muoversi altrove perché produrre in Italia è poco competitivo? Perché mai la domanda addizionale del Nord Europa dovrebbe ridurre i costi delle imprese italiane? Non è dato sapere.
Morale: questa crisi è solo iniziata e non è nemmeno chiaro quando e se essa terminerà, questo almeno se, con la parola “terminare”, intendiamo riferirci ad un agognato ritorno ad una situazione simile a quella che esisteva, per dire, nel 2003-2005. Quando smetteremo, se smetteremo, di essere in crisi sarà perché saremo riusciti, pazientemente e testardamente, a costruire un’Italia ed un’Europa molto diverse da quelle a cui gli ultimi cinquant’anni ci avevano abituati. Alternative non ce ne sono, anche perché il resto del mondo sta cambiando comunque e non sta certo lì ad aspettare che gli italiani aprano gli occhi e capiscano che mettere termine al proprio declino è solo responsabilità loro.

*Department of Economics – Washington University in Saint Louis

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