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venerdì 11 maggio 2012

La forma capitale come modus vivendi. Intervista ad Alain de Benoist.



Come ha scritto bene Eduardo Zarelli, la società della crescita è un’antisocietà. Allora, la decrescita è l’unica soluzione possibile per tornare a essere comunità?

«Che siano di destra o di sinistra, tutti gli uomini politici oggi non vedono altre soluzioni ai loro problemi che quella di un “ritorno alla crescita”. Il problema è che le politiche adottate di rigore e d’austerità pesano sui salari e sul potere d’acquisto, diminuiscono le entrate fiscali e favoriscono la disindustrializzazione, tutte cose che annullano completamente qualunque prospettiva di crescita. Le previsioni degli organismi internazionali sono eloquenti a questo riguardo. Sebbene l’Europa sia entrata in recessione, l’ideologia della crescita è sempre presente negli spiriti. Questa riposa su un mito, che è anche un errore di logica : non ci può essere crescita materiale infinita in uno spazio finito. Ora, la Terra è uno spazio finito, dove le riserve naturali si fanno sempre più rare. Sarebbe quindi necessario finirla con l’ossessione della crescita e della produttività in cui sono  confluite tutte le grandi correnti politiche del XX secolo. Ma per far questo bisognerebbe “decolonizzare” l’immaginario economico, arduo compito che non si può portare a termine dall’oggi al domani».

Un tempo si salvavano gli Stati e si facevano fallire le banche. Oggi accade esattamente il contrario: a vincere è l’usura

«Proibendo alle proprie banche centrali di farsi prestare capitali ad un tasso d’interesse nullo, come accadeva di norma in passato, gli Stati si sono posti  nell’obbligo di chiedere prestiti alle banche ed ai mercati finanziari a dei tassi variabili, arbitrariamente fissati da questi ultimi. Questo si è tradotto in un innalzamento del  debito pubblico che oggi è divenuto insopportabile. Non arrivando a riassorbire i loro deficit strutturali, gli Stati non possono affrontare il problema del debito, se non indebitandosi sempre più. Di fatto, in tal modo si è creata una situazione simile a quella dell’usura.

In Francia, dove l’ammontare del debito ha ormai raggiunto circa 2000 miliardi di euro, ovvero il 90% del prodotto interno lordo (PIL), il semplice pagamento degli interessi del debito equivale a 50 miliardi di euro l’anno. Le logiche usuraie si ritrovano nella maniera in cui i mercati finanziari e le banche possono fare man bassa sugli attivi reali degli stati indebitati, impadronendosi dei loro averi a titolo d’interesse dei loro debiti, di cui la parte principale è costituita da una montagna di denaro virtuale che non potrà mai essere rimborsato. Le banche ed i mercati virtuali sono i  Shylock dell’epoca attuale».

Il rapporto incongruente tra l’economia speculativa e quella reale è anche dovuto alla virtualità del denaro che rende sempre più arduo stabilire limiti e corrispondenze?

«La decisione presa unilateralmente dagli Stati Uniti nel 1971 di sopprimere la convertibilità del dollaro in oro ha rappresentato la fine del sistema ereditato dagli accordi di Bretton Woods (1944), ed allo stesso tempo ha marcato l’inizio della globalizzazione finanziaria. Il denaro, ormai, non ha più altro referente che se stesso. È nato così un nuovo capitalismo, che si distingue dal vecchio industriale e commerciale per due tratti fondamentali: la sua completa deterritorializzazione (non è più legato ad alcun territorio particolare) e l’espansione della sfera finanziaria a discapito di quella produttiva. Basti vedere le somme che vengono quotidianamente scambiate sui mercati finanziari e in borsa, per constatare come il denaro non abbia più alcun rapporto con l’economia reale».

Il capitalismo e l’immigrazione sono le due facce della stessa medaglia: la destra liberale e affaristica e la sinistra umanitaria e globalizzata.

«Fin dalle sue origini, il capitalismo ha rivelato una profonda affinità col nomadismo internazionale. Già Adam Smith  diceva che la vera patria del commerciante è quella dove può realizzare il massimo profitto. Prendere posizione a favore del principio del “lasciar fare, lasciar passare”, cioè della libera circolazione di uomini e merci, così come ha sempre fatto il capitalismo liberale, significa mantenere le frontiere per gli inesistenti. Dal punto di vista della Forma-Capitale, la Terra non è che un immenso mercato che la logica del profitto ha la vocazione di scoprire integralmente, impegnandosi in una perpetua fuga in avanti. Il capitalismo, come aveva ben visto Marx, riguarda tutto ciò che ostacola questa fuga in avanti in quanto ostacolo da far sparire. In questa prospettiva, il ricorso all’immigrazione appare come un mezzo per mantenere bassi i salari e le conquiste sociali dei lavoratori autoctoni. È in questo senso che l’immigrazione costituisce “un’armata di riserva del capitale” bella e buona. Il paradosso è che molti avversari del capitalismo vorrebbero vedere continuare l’immigrazione, perché s’immaginano di trovare nella massa degli immigrati una sorta di “proletariato di ricambio”. E’ una delle varie incongruenze».

In Italia il potere economico ha scalzato quello politico, con il passivo plauso di quest’ultimo, ca va sans dire. A suo avviso, cosa può capitarci ancora di peggio?

«La cosa peggiore sarebbe senza dubbio che gli Italiani si ritrovassero in una situazione ancora più disperata di quella dei Greci ! È in ogni caso rivelatore che Mario Monti sia arrivato al potere attraverso una sorta di colpo di stato legalizzato. Ed è ancora più rivelatore che una delle conseguenze della crisi finanziaria attuale sia che i Paesi del Sud d’Europa si ritrovino sotto l’autorità di tecnocrati e di finanzieri formati da Goldman Sachs o Lehman Brothers, cioè dai principali responsabili della crisi, mentre le classi medie o popolari, per niente format, sono chiamate a farne le spese. Da ciò emerge chiaramente che la crisi dello Stato-Nazione è interamente legata alla presa di controllo ed alla “neutralizzazione” della politica da parte del potere economico e finanziario, sostituito dall’espertocrazia della Commissione di Bruxelles».

Ritorno al protezionismo, istituzione di un reddito di cittadinanza, eliminazione dell’euro sono alcune soluzioni che Lei propone per salvare l’Europa. Ma come scavalcare la Commissione europea, la Banca mondiale e le imprese multinazionali che sono il bacino del libero-scambismo?

«L’instaurazione di un protezionismo comunitario, la nazionalizzazione delle banche, la separazione delle banche di credito industriale e di deposito, la monetarizzazione del debito da parte delle banche centrali etc. sono delle soluzioni parziali che da sole non basteranno per uscire dal sistema. Una reale rottura consisterebbe nel finirla col principio dell’illimitato e della sovraaccumulazione, che sono alla base dell’espansione del Capitale (la logica del “sempre più”). Per il momento, nessuno sa veramente come arrivarci. È la ragione per la quale la mia impressione è che questo sistema affonderà, ma non abbattuto dai suoi avversari, quanto piuttosto sotto l’effetto delle proprie contraddizioni interne. La fuga in avanti finisce sempre a un muro. È in questo senso che ho potuto scrivere che il sistema del denaro finirà a causa del denaro stesso».

Non abbiamo né una sovranità nazionale, è vero, ma neanche europea. Le guerre di cui scandalosamente ci rendiamo complici, sono una dimostrazione della nostra inettitudine decisionale?

«Ci sono varie questioni a cui rispondere. Il dramma che concerne le sovranità popolari non è che queste spariscano, ma che non si trovino riportate ad un livello più elevato, ovvero quello europeo. Per il momento, la sovranità politica sta scomparendo in un buco nero e il potere decisionale è passato nelle mani dei tecnocrati e dei banchieri.

Le guerre avviate da un ventennio dai paesi occidentali, a cominciare dagli Stati Uniti d’America, si pongono come “depoliticizzate”, all’occorrenza “umanitarie” a supporto delle operazioni di polizia internazionale. Che sia in Irak, in Afganistan o in Libia, aspettando la Siria e l’Iran, queste guerre sono delle aberrazioni dal punto di vista geopolitico. Si rivelano altrettanto criminali quando si guardano i risultati ai quali hanno condotto. Consacrano infine la scomparsa di fatto del diritto internazionale così come lo abbiamo conosciuto».

Quello che si è evince chiaramente dalla Sua opera è che il capitalismo non riguarda solo la sfera economica, ma l’intero nostro modus vivendi. Per questo non basta un cambiamento, ma occorre una rivoluzione interiore?

«In effetti sarebbe un grande errore guardare al capitalismo solamente come ad un sistema economico. Esso è anche un sistema “antropologico”, nel senso che riposa su un modello umano ben specifico, quello dell’Homo œconomicus, il produttore-consumatore che si presume mirare perennemente alla sola massimizzazione del proprio interesse materiale. Rompere con la logica della Forma-Capirale implica, da questo punto di vista, rompere non solo col produttivismo ambientale, ma anche con l’utilitarismo, lo spirito calcolatore, l’assiomatico dell’interesse, o ancora con l’idea che tutti i valori possono e devono essere ridotti al solo valore di scambio. In altre parole, si tratta di uscire da un mondo dove niente ha più valore, ma dove tutto ha un prezzo. Lei ha utilizzato l’espressione “rivoluzione interiore”. Non è esagerato».

Localizzare significa rendersi autonomi?

«Si può dire questo. L’azione locale, che sia di ordine politico (gioco della democrazia diretta, per rimediare alla mancanza di legame sociale) o economico (rilocalizzazione della produzione e del consumo) può aiutare le comunità viventi a riconquistare la loro autonomia, cioè a dotarsi dei mezzi che permettano loro, conformemente al principio di sussidiarierà (o di competenze sufficienti) di rispondere da sole ai problemi che le riguardano».


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