di Gabriele Marconi (Area)
In questi giorni mi è più volte tornata alla mente una frase da Rivolta contro il mondo moderno di Julius Evola: «Ad un unica cosa si badi: a restare in piedi in un mondo di rovine». Certo, come ogni estratto, questa frase andrebbe contestualizzata all’interno del discorso più ampio nel quale è contenuta. Nel tempo (anche grazie a un bellissimo manifesto attaccato sui muri sbrecciati delle nostre sezioni “illo tempore”) è diventata un motto al quale attenersi, facendone quasi uno stile di vita.
Alcuni, però, hanno trasformato l’intento originario in un alibi per tirarsi fuori dalla mischia. Rifugiandosi in una torre d’avorio dalla quale giudicare con disprezzo quelli che si agitano dabbasso. Oppure, non di meno e con lo stesso stato d’animo, criticando chi decide di spalare fango e prova a costruire nuove strade per tirarsi fuori dalla palude.
È fatale che siano stati commessi degli errori: solo chi prova a far qualcosa corre il rischio di sbagliare. E non è un caso se Dante mette gli ignavi nell’Antinferno, non ritenendoli degni neppure di entrare alla corte di Lucifero perché «mai non fur vivi». Per loro, il disprezzo del Sommo Poeta è totale.
Poi c’è pure chi sbaglia non per buona fede ma perché la fede l’ha proprio persa per strada, abbagliato dalle lusinghe del potere. Oppure perché quella fede non l’ha mai avuta davvero ed è bastata la prima tentazione per sgretolare la maschera che si era costruita. E si autoassolve con crescente abilità, giustificando i mezzi sbagliati che sarebbero motivati da un fine superiore. (Ma cominciare a usare un mezzo sbagliato per raggiungere un fine giusto, alla fine ce lo rende familiare, quel mezzo, e diventa parte di noi).
Ed è qui che hanno gioco facile i Profeti Del Disgusto, i professionisti del fare-di-tutta-l’erba-un-fascio, la casta degli esegeti dell’anticasta. Fatevi da parte, dicono, perché è tutto uno schifo: lasciateci lavorare in pace.
È qui che saltano i grilli intorno al cadavere della politica…
Una volta ho fatto un sogno (non è un modo di dire, l’ho fatto davvero mentre dormivo): ero con due amici, nascosto in un rudere sulle pendici di una montagna. A valle sciamava un’orda di nemici e noi eravamo isolati, forse gli ultimi rimasti. A un certo punto trovavamo tra le macerie un frammento di “qualcosa” che, nel sogno, apparteneva al mondo di prima: era una scheggia che stava nel palmo di una mano, ma così interiormente luminosa da dissipare il senso di tragedia che gravava su di noi. Guardandola avevamo le lacrime agli occhi per la nostalgia di quella grandezza perduta, ma ancora più potente era la sensazione di dover continuare a combattere, a dispetto di tutto, perché era giusto farlo ed essere degni di tanta luce.
Tornando all’oggi, io non so che fare. So però che non è vero che “sono tutti uguali”. C’è gente che merita rispetto perché, malgrado tutto, non ha paura della gogna e continua a metterci la faccia.
Cosa fare di questa consapevolezza? Ripeto: non lo so. In ogni caso, quel che è certo è che aspettare che tutto crolli, perché infine solo i più meritevoli rimangano in piedi e comincino a ricostruire, è un agire che non mi appartiene: il “tanto peggio tanto meglio” non funziona, perché al peggio non c’è limite. Preferisco sbagliare insieme a chi ha cuore per mettersi ancora in gioco, ma continuare a provarci. Senza smettere mai.
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