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mercoledì 2 maggio 2012

Per essere globali servono le frontiere.


Régis Debray 
Uno dei paradossi della globalizzazione è il ritorno della diversità. Ci hanno spiegato che un mondo senza frontiere è un mondo più progredito, ma anche il più convinto assertore del mercato unico, una volta all’estero vorrebbe che estero fosse, e non il rifacimento del cortile di casa sua.

Paradosso nel paradosso, in quel cortile non si vogliono però estranei o cose estranee. «Non nel mio cortile» suona in italiano la traduzione dell’inglese not in my backyard con cui si rifiuta tutto ciò che è sentito come un’ingerenza altrui, da un progetto di alta velocità a un parcheggio, da un campo nomadi a un inceneritore… Ci siamo abituati a considerarci tutti eguali, ma continuiamo a pensare a un’eguaglianza diversificata. Un po’ come lo smaltimento dei rifiuti.

Prendiamo le nazioni e la loro tremenda patologia, il nazionalismo. A un certo punto ne abbiamo decretata la fine: troppo piccole rispetto alle prospettive di un governo mondiale, superate rispetto alla sfida della modernità. Ci abbiamo creduto ed è stato un proliferare di «piccole patrie», il localismo che suona un po’ come un nazionalismo a scartamento ridotto: una sola fermata e sei già arrivato. C’è chi dice che si tratti di un treno che non va da nessuna parte, ma questo a ben vedere è secondario, perché è proprio la chiusura quello che si vuole, globalizzata e nel nome dei diritti dell’uomo, naturalmente, il mantra universalista che mette insieme il bellicismo umanitario e il disarmo.

Parliamo tanto di città-mondo e di mobilità planetaria, inneggiamo ai surfisti della rete e ai nomadi del cyberspazio e intanto ci avvolgiamo in sistemi che sempre più ci limitano. Dalle carte di credito ai sensori ai passaporti elettronici, dalle cellule fotoelettriche ai divieti per il nostro bene (niente fumo, niente alcol, morte ai grassi, guerra agli anoressici), inseguiamo un’umanità piallata, controllata e tutta eguale. In Europa ci avevano detto che dovevamo consumare tutti e per meglio farlo ci avevano dotato di un’unica moneta; adesso ci dicono che tutti ci dobbiamo sacrificare proprio perché abbiamo una moneta unica. Per anni noi italiani non abbiamo pensato di essere greci, adesso però che siamo europei potremmo diventarlo. Fa parte del progresso.

Più si guarda all’universale e più ci si allontana dall’essenziale. La televisione ha alfabetizzato il Paese, si è detto e ridetto. Tanto vale dunque fare a meno della scuola, ormai una via di mezzo fra un optional per chi la frequenta e un obolo per il disgraziato che alla sua missione educatrice ha avuto il torto di credere. L’urbanizzazione fa a meno dei centri storici ripetiamo compiaciuti. Tanto meglio allora svuotarli e riempirli di banche e di negozi di griffes, tanto peggio per chi si ostina a viverci pensando che lì sia la civiltà e la tradizione di un popolo. L’età non è un fatto anagrafico, ancor meno un cursus honorum che dall’infanzia porta alla giovinezza, alla maturità e alla vecchiaia, tappe diverse ciascuna con i suoi diritti e i suoi doveri. Largo dunque ai quarantenni che ancora vivono in casa con la mamma, largo ai sessantenni con la vita bassa dei pantaloni sotto le natiche.

Così come la natura ha paura del vuoto, la reductio ad unum genera anticorpi spesso nocivi. Se non si può controllare il flusso dell’immigrazione, perché le frontiere rappresentano ormai il passato e il libero transito di uomini e merci il paradiso promesso, ci sarà sempre qualche sindaco, progressista, è chiaro, che in città eleverà un muro che isoli la comunità di cui, governandola, si è fatto garante. La comunità rifiutata si radicherà a sua volta nell’identità esasperata di chi difende quel poco di sé che è la sua sola ricchezza: una religione, una tradizione, i costumi, le abitudini…

Elogio delle frontiere (add, pagg. 93, 12 euro) è il pamphlet che Régis Debray (nella foto n.d.r.) ha scritto «contro l’epidemia dei muri», ovvero contro l’illusione di un mondo globalizzato che ha per corollario e contraltare proprio la chiusura e non la regolamentazione, lo scontro e non l’equilibrio. Il senza-frontierismo umanitario trasforma uno stato di confusione mentale in messianismo e «traveste da confraternita una multinazionale». È un economicismo che dà «il colpo di grazia al politico bloccato nel proprio territorio dal vincolo elettorale». È anche un tecnicismo, il trionfo dell’oggetto standard senza latitudine né longitudine, nonché un assolutismo, «la pretesa di un’onnivalenza planetaria», e un imperialismo, «l’imporre limiti agli altri e non a sé stesso».

Nella sua Grammatica delle civiltà, Fernand Braudel aveva già notato che tutte le culture hanno avuto i loro meccanismi di filtraggio. Debray è d'accordo e va oltre: «Sono coloro che non posseggono nulla ad avere interesse a una demarcazione chiara e precisa. I ricchi vanno dove vogliono, con un colpo d’ala, i poveri vanno dove possono, remando. Il forte è fluido». Non facciamoci inoltre ingannare su ciò che la globalizzazione ci porta in fatto di balcanizzazione: «Chi va alla deriva rischiando di perdersi ostenta il proprio luogo d'origine attraverso distintivi, veli, tatuaggi, frontiere che si possono esibire muovendosi».

C’è, scrive Debray, una saggezza del corpo, compreso anche il corpo sociale. «Quando non si sa più chi si è, si è mal disposti verso gli altri e, innanzitutto, verso sé stessi. Chiunque manchi di riconoscersi un oltre, non accetta il suo fuori. E dunque ignora il suo dentro. Chi vuole andare oltre sé stesso comincia con il delimitarsi. L’Europa ha mancato di prendere forma: non incarnandosi in nulla, ha finito per rendere l’anima. Ci vogliono buone frontiere per avere buoni vicini».

di Stenio Solinas.

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