Come si fa a non difendere Dante dall’ultima trovata di un gruppo di consulenti Onu (l’associazione Gherush 92) che accusa la sua Commedia di razzismo, di contenuti discriminatori, di omofobia e addirittura di violazione dei diritti umani? Infatti, lo hanno difeso tutti, reagendo con un’alzata di spalle all’ennesimo rigurgito censorio che vorrebbe cancellare ogni fenomeno culturale che non rientra nei canoni che oggi risultano innocui e rispettosi delle diversità. È bene tuttavia riprendere il discorso, perché esso riguarda, con Dante, il significato ulteriore da dare al concetto di “cultura” e, nel nostro caso, di “cultura nazionale”. Il vero rischio del “politicamente corretto” si annida nella tentazione di sfidare le intolleranze con un’altra forma di intolleranza, di decostruire i passati fanatismi con un altro e più ampio fanatismo, di annacquare la pluralità del pensiero con l’imposizione di un “pensiero unico”. Un fenomeno che può portare a incrinare quel rapporto fecondo e insostituibile che ogni paese, ogni nazione, ha con la propria storia letteraria e artistica. Per questo le accuse a Dante non appaiono tanto “false” quanto insopportabili rispetto a un patrimonio che va rivendicato tutto e nella sua interezza, un’eredità fondativa del nostro modo di pensare l’Italia e la sua storia.
Ma c’è, in fondo, qualcosa di ancora più importante da tutelare: l’ancoraggio con la realtà, con la storia e con le sue innumerevoli sfaccettature che non possono essere ricondotte sotto il segno di un riduzionismo inaccettabile. Qualche giorno fa il quotidiano Repubblica presentava ai suoi lettori un interessante servizio in cui si dava conto dei vocaboli espunti dai test scolastici dello Stato di New York per non offendere le differenti sensiblità degli alunni. Una lista ridicola: la parola “dancing” risulterebbe troppo licenziosa, il riferimento ai dinosauri dev’essere bandito perché evoca la teoria dell’evoluzionismo sgradita ai creazionisti, il termine “schiavitù” potrebbe a sua volta risultare offensivo per i bimbi afro-americani; stessa sorte per la parola “divorzio” che potrebbe indurre i piccoli allievi a pensare a un vissuto familiare doloroso e per la parola “sigarette”, da proibire perché, come tutti sanno, il fumo fa male. Non meno bizzarra la scelta di evitare la parola “povertà”, che potrebbe mettere in imbarazzo i figli dei disoccupati. L’obiettivo di questo incredibile tentativo di epurazione linguistica è quello di arrivare ad usare una lingua neutra, inoffensiva e in definitiva lontana dalla realtà. E come si pretende di fornire un’educazione decente se gli alunni vengono tenuti lontani dal mondo vero, con le sue imperfezioni e i suoi problemi?
In pratica, si vorrebbe applicare al nostro Dante lo stesso metodo. L’immaginifico autore della Commedia è già stato a lungo bistrattato dalle opposte fazioni politiche (accusato di essere reazionario, o anche seguace di un cattolicesimo oscurantista, e infine antifemminista) ma qui si va ben oltre, toccando un punto essenziale dell’interpretazione della Commedia e dei suoi innumerevoli “sensi”. La nostra cultura e quella di Dante sono distinte e distanti, ma ciò dev’essere letto come una ricchezza e non come un ostacolo alla comprensione del suo universo poetico. In che modo? Così lo spiega il dantista Vittorio Sermonti, che ha dedicato alle tre Cantiche di Inferno, Purgatorio e Paradiso altrettanti libri sotto forma di commenti-racconto e che è anche autore di un’edizione commentata della Divina Commedia destinata ai licei: «Se cultura – afferma – non fosse altro che il sistema bloccato dei luoghi comuni d’una società, la pretesa di tradurre la cultura di Dante nella nostra sarebbe ridicola. Infatti, per usare il lessico egemone, la political uncorrectness di Dante è francamente mostruosa. Dante – in quel lessico – figurerebbe a buon titolo reazionario, imperialista, integralista, paternalista, maschilista sessuofobo ecc. ecc.; verosimile che, se le circostanze glielo avessero consentito, sarebbe stato anche fumatore. Poco ma sicuro: secondo parametri di questo tipo, le due culture – la nostra e la sua – appaiono catastroficamente remote. Tuttavia – ecco il punto – il vocabolo “cultura” non indica soltanto il livello inerziale a cui una quota minima di nozioni e idee correnti si conciliano in conformismo intellettuale e in retorica delle buone intenzioni; significa anche la capacità di padroneggiare un certo numero di quelle nozioni e di quelle idee, indagarne origini e dinamiche, confrontarle con nozioni e idee di altre aree e d’altri tempi, metterle in questione...».
E poi c’è un ulteriore elemento da sottolineare: Dante non era un filosofo, o meglio non era solo un filosofo, era anche e soprattutto un poeta, e la sua ambizione era la bellezza, da raggiungere con tutta l’erudizione di cui era capace da uomo, coltissimo, del XIII secolo, un’epoca rispetto alla quale seppe anche essere trasgressivo, in virtù di quella teoria dei “due soli” che risultava, per il tempo, più rivoluzionaria di quanto non si sia disposti a riconoscere. Il grande studioso della filosofia medievale Etienne Gilson notava a proposito del suo poema che quel che caratterizza Dante «è di aver scritto un immenso poema la cui materia è costituita di idee, ma che tuttavia non è affatto un poema didattico, in esso il bello non consiste nello splendore del vero. È questa appassionata sensibilità alla bellezza del vero (scientifico, filosofico e teologico) che contraddistingue Dante». E nel gusto della bellezza poetica la fruizione di Dante si inserisce proprio in questi ultimi anni come puro momento di contemplazione (anche sulla scia del successo delle letture di Roberto Benigni) del tutto slegato da considerazioni sui tempi, sul contesto, sulla cultura del poeta e sulle sue convinzioni.
A Gilson si deve anche, tra l’altro, l’annotazione secondo cui Dante avrebbe separato la sfera politica da quella teologica, caratteristica che renderebbe il suo pensiero molto più moderno di quanto non si pensi: la separazione dantesca di Chiesa e Impero «presuppone necessariamente la separazione di teologia e filosofia; per questo motivo, come aveva spezzato in due tronconi l’unità della cristianità medioevale, Dante infrange nel mezzo l’unità della sapienza cristiana, principio unificatore e legame della cristianità. In ambedue questi punti vitali questo sedicente tomista ha ferito mortalmente la dottrina di san Tommaso d’Aquino».
Ma non è il caso di addentrarsi nelle interpretazioni del pensiero politico di Dante. Basterà semmai soffermarsi sulle ragioni che rendono insostituibile, nelle scuole, la lettura e lo studio della sua Commedia. Dante è attuale? È sempre Vittorio Sermonti a tentare una risposta, azzardando alcune possibile analogie tra l’epoca di Dante e la nostra: «Finanziarizzazione dell’economia, urbanizzazione incontrollata, consumismo. A corollario, con un particolare occhio per questa Italia, aggiungi pure l’incertezza del diritto, una corruzione capillare e pressoché istituzionalizzata, la tendenza del potere economico a identificarsi con il potere politico». E infine il fatto che Firenze era una città-azienda. Tuttavia, secondo Sermonti, cercare di “attualizzare” Dante è un’operazione del tutto fuori luogo. «Dante è attuale o no? L’abusatissimo quesito, sbandierato come se la massima benemerenza per un poeta del passato fosse quella di essere nostro conemporaneo, mi annoia. Non saprei cosa rispondere. Anche perché una qualsiasi nozione concettualmente consolidata dell’attualità mi sembra riferibile più al campionario di luoghi comuni con cui ci compiaciamo di definire la cosiddetta realtà d’oggi per nascondercela, che non al campo di tensioni reali in cui siamo immersi...».
Effettivamente, Sermonti tocca un punto cruciale: cercare di attualizzare un autore, cercare di insegnarlo leggendo nelle sue opere i cossiddetti “agganci” con la modernità, è rendergli un buon servizio? O non si tratta piuttosto di una forzatura pedagogica ai limiti della truffa? Bisognerebbe domandarsi, piuttosto, se non sia stata proprio quest’ansia di modernizzazione dei linguaggi del passato la causa di un crescente distacco di generazioni di studenti da una letteratura, la nostra, troppo a lungo considerata accademica, distaccata dalla realtà, astratta e poco comprensibile. Proprio come la lingua di Dante. Che può però anche essere letta come una sfida, come un incitamento a riattivare «la rete di relazioni che le parole che usiamo intrattengono, a distanza di sette secoli, con se stesse; di restituire al povero lessico che adoperiamo tutti i giorni un qualche lascito della sua antichissima nobiltà».
La storia della critica dantesca ci insegna che la Commedia è stata considerata, letta e analizzata in svariati modi. Accanto alla produzione filologico-letteraria degli italianisti, solo nel corso dell’ultimo secolo e solo per restare in Italia, Dante è stato di volta in volta collegato con la setta segreta dei Fedeli d’Amore (da Luigi Valli), con il pitagorismo (Paolo Vinassa de Regny), con la Libera Muratoria operativa e l’arte regia degli alchimisti (Arturo Reghini), in generale con le allegorie della tradizione ermetico-esoterica e con il simbolismo rosa-crociano (René Guénon), col ghibellinismo (secondo una linea di studi che va da Julius Evola a Giorgio Galli), con la logica e l’ontologia della cultura universitaria medievale (Paolo Aldo Rossi), con le scienze occulte ed il templarismo. Ogni lettore troverà la sua via interpretativa, accompagnando Dante nel suo viaggio fantastico, dentro un sistema che è fatto di “irradiazioni” di senso. «Sotto questo profilo, la Commedia – conclude Sermonti – ha l’enigmatica allusività dei sogni, la densità insondabile delle Sacre Scritture, ma anche l’impianto rotatorio di qualche grandissimo romanzo moderno».
di Annalisa Terranova
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