di Emilio Testa
Siamo in Abissinia nel 1934, nell’unico stato africano appartenente alla Lega delle Nazioni ed il suo giovane despota, Hailè Selassiè I, è un vero e proprio pupillo dei media del tempo, addirittura uomo dell’anno per la rivista «Time».
Mentre tutti gli altri inviati di guerra si limitano a farsi passare veline false da addetti stampa indigeni (basti pensare che il bombardamento italiano di Adua avrebbe provocato 2000 morti contro gli effettivi sei perché la mente salti alle farlocche fosse comuni che Al Arabya fece vedere all’Occidente durante la recente guerra in Libia e che si rivelarono essere il cimitero islamico di Tripoli) un giornalista inglese, Evelyn Waugh, cerca di descrivere la realtà sulla guerra e, per non essere copiato, scrive i suoi pezzi in latino, ma neppure i redattori di Londra conoscono le lettere antiche e così gli scritti passano dalla telescrivente al cestino.
Così da un racconto di scontri armati si passa a note di colore sugli avvenimenti che si verificano nelle retrovie e all’affresco di un territorio comunque povero e in mano ad una classe dirigente corrotta ed incompetente.
L’iniziale report dall’Africa appare attuale e coraggioso e descrive conquistatori atipici, bravi soprattutto a costruire strade, acquedotti ed edifici pubblici destinati a durare nel tempo. Scrive Waugh : «Quasi tutti gli italiani dedicati alla costruzione delle strade erano più vecchi dei soldati; robusti, di mezza età, apparentemente instancabili.
Alcuni avevano un aspetto patriarcale, con lunghe barbe brizzolate. Indossavavano gli stessi abiti di lavoro che avrebbero usato in Italia, con la sola aggiunta di un casco coloniale per ripararsi dal sole. Era un fatto nuovo per l’Africa orientale, quello di vedere degli uomini bianchi svolgere un semplice lavoro manuale con tanto impegno e fatica; era il segnale di un nuovo genere di conquista». A evidenziare l’impegno delle maestranze italiane non poteva che essere un cronista britannico, appartenente ad una nazione abituata a dominare popoli. Certamente un libro singolare come chi lo scrisse, capace di coinvolgere il lettore con la dirompente forza della verità. (Adelphi, «In Abissinia» di Evelyn Waugh)
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